Datemi solitudine ma non lasciatemi sola.
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di Redazione
Biagio Cepollaro, anno di nascita 1959: la sua scheda bibliografica contiene, oltre a un giovanile Le parole di Eliodora (1984), lo sforzo compatto di una trilogia poetica in fieri. I due titoli usciti sinora sono: Scribeide, con prefazione di Romano Luperini (Lecce, Manni, 1993) e Luna persciente, con prefazione di Guido Guglielmi (Roma, Mancosu, 1993). Il terzo titolo della serie è in lavorazione, e ne è stato anticipato un intenso frammento al convegno Ricercare di Reggio Emilia, nel maggio ’94. Questi pochi dati già suggeriscono parecchio a un lettore esperto di poesia contemporanea, e legano Cepollaro a un’area scelta e rigorosa di scrittura di ricerca e sperimentazione.
Il quadro si arricchisce se si aggiungono almeno i seguenti tasselli che includono il lavoro singolo di Cepollaro in una più vasta situazione e generazionale e culturale: Cepollaro è stato tra i fondatori nel 1990 della rivista «Baldus» (al fianco di Mariano Baino e Lello Voce) indicativa, già dal titolo folenghiano, di scelte di espressionismo linguistico, e tuttora in vita con redazione rinnovata; tra i promotori del «Gruppo 93» cioè di quel piccolo e agguerrito sodalizio di poeti presentatosi per la prima volta al pubblico nel 1989 e dopo anni di discussioni dibattiti e lavori in comune dichiaratosi sciolto nel ’93; e redattore pro tempore della rivista di ricerca interdisciplinare «Campo» organizzata a Milano dall’infaticabile Francesco Leonetti. Biagio Cepollaro appartiene insomma a un’attiva e irrequieta formazione di giovani scrittori, al massimo quarantenni, per lo più poeti, di estrosa e forte tendenza sperimentale: non sarà inopportuno richiamare, per uscire dal generico, il nome di qualche compagno di strada (ma, attenzione, a lavoro in atto dei singoli, pur fondato su un retroterra comune, fatto di scambi relazioni assonanze, registra, oltre che affinità, anche notevoli e vistose divergenze): oltre ai già citati Baino e Voce, Marco Berisso, Piero Cademartori, Giuseppe Caliceti, Marcello Frixione, Paolo Gentiluomo, Umberto Lacatena, Tommaso Ottonieri. Quanto a Cepollaro, poiché il titolo che qui si discute è come s’anticipava il secondo di una trilogia, completezza vuole che si arretri anche al primo testo della serie, il non lontano Scribeide (1993) che raccoglie lavori dell’85-89, dove subito si impongono alcuni caratteri dominanti peraltro riscontrabili anche in Luna persciente (datato ’89-’92). Partirei dalla scrittura razionale e razionalmente contesta (Cepollaro proviene da studi filosofici, e la sua provvedutezza culturale è evidente) che organizza il fluire sincopato e aspro della materia versale in una forma di poesia dell’intelligenza. Ma altrettanto va sottolineato il complesso gioco linguistico – una costante, con modalità dissimili di applicazione, dell’ex Gruppo 93 e di «Baldus» – che si bilancia tra diverse lingue e più lacerti espressivi: la lingua della tradizione arcaica spesso nelle sue punte più aspre e crude (l’ex ergo del volume e tratto non per caso da Jacopone), i neologismi, i tratti dialettali, più la massa delle lingue svariate dell’oggi: lingua basica della comunicazione quotidiana, miscuglio di linguaggi multimediali, tra pubblicità, tecnica, gerghi in uso, etc. Il lavoro sul linguaggio risulta centrale in Cepollaro e non può non essere: con differenze marcate, s’intende, rispetto alle operazioni contaminatorie e immediatamente eversive compiute dalle neo-avanguardie. Infatti la condizione di oggi è tale che, come scrive Cepollaro stesso in un intervento del ’93 (edito in «Allegoria», n. 14, 1993) «i linguaggi tendono alla trasversalità e alla contaminazione anche al di fuori degli oggetti intenzionati esteticamente», dunque l’assorbimento nella scrittura di tale «trasversalità» e «contaminazione» ormai non è di per sé trasgressivo: si tratta invece di manipolare con nuova cura i «nuovi linguaggi del mondo», spesso fatti di «materiali di scarto, [...] detriti, macerie» e correlatamente i nuovi paesaggi, le nuove tecnologie, per creare una nuova «organizzazione di senso» nata dal rapporto tra chi scrive e la caotica realtà, anche linguistica, circostante.
Definito per sommi capi il senso del procedimento linguistico che presiede sia a Scribeide sia a Luna persciente risulterà più chiaramente su quali fondamenti posi l’operazione testuale di «montaggio» con cui Cepollaro costruisce la sua poesia prestando l’occhio al nuovo orizzonte percettivo provocato dagli sviluppi tecnologici, da es. alle funzioni di «simulazione» e «virtualità» proprie del computer. Alla luce di questa consapevolezza critica degli scenari odierni vanno lette le due raccolte che, attraverso un sistema laborioso e apparentemente caotico di aggregazioni, citazioni, contaminazioni linguistiche ecc. tendono a suggerire una esperienza intellettuale e cognitiva. Non a caso la prima raccolta pone l’accento già nel titolo, Scribeide appunto, sull’atto stesso dello scrivere inteso dunque come modalità di riappropriazione e trasmissione dell’esistente. Infatti la figura dello Scriba - senhal dell’autore – appare più volte nel libro: come una sorta di ritornello ricorrente che si incarica di fissare con assillo pungente l’atto faticoso della scrittura e della riflessione scritturale e contemporaneamente contribuisce a dare intreccio unitario alla raccolta. Questa stessa tecnica di ricorsi multipli, sia flashes di figure quasi sagome di «personaggi», sia anche folte riprese sintagmatiche tra testo e testo, ritorna in Luna . Qui riappare, a legare tra loro ì due volumi, lo stesso Scriba, anche se su tutto domina il ritmo incalzante e affannoso di una moltitudine inquietamente trasmigrante su sfondi lividi e metropolitani e fermata, pur nell’insensato-incessante movimento, in una serie di «fotogrammi» spezzati. Anche il metro asseconda il movimento narrativo, strutturato com’è, in larga prevalenza, su distici di varia e irregolare estensione, privi di pause interpuntive, in un fluire ininterrotto di enjambements e fratture sintattiche. Prevalgono i verbi d’azione, a segnalare un precario cammino collettivo («e andando» «mò ca semo giunti», «ti muovi e spingi», «ce movemmo traliniati», etc.), pur se il movimento risulta infine fittizio: una «girandola degli Annaspanti» (per dirla secondo il titolo di uno dei «fotogrammi») in una specie di inferno cittadino esistenziale ribollente e immobile. L’impasto lessicale, ricco di materialità e carico di intertestualità, non è sostanzialmente variato rispetto a Scribeide: puntando sempre verso scontro mescolanza di più linguaggi e più segni, usati alla stregua di «parole orfane», «spezzoni», «massa di frammenti» decontestualizzati (Guido Guglielmi). Diverso sembra invece l’atteggiamento linguistico (con l’abbandono ad esempio di dialettalismi) messo in campo nel primo frammento del terzo volume della trilogia, anticipato in lettura nel già citato incontro di Reggio Emilia del ’94: forse interessante preludio di un rinnovamento stilistico in atto. Un’ultima cosa: Luna persciente è uscita accompagnata dalla relativa cassetta, a testimoniare l’assunzione presso gli attuali redattori di «Baldus» del problema dell’esecuzione orale del testo poetico e più in generale della oralità del testo, in presenza di nuovi fattori pressantemente condizionanti (usi tecnologici aggiornati, letture pubbliche, possibile apertura verso fruitori nuovi dei testi, etc).In tale contesto vanno collocati i richiami di Cepollaro alle nozioni di «oralità secondaria» di Walter Ong e di «nuova generazione di realtà» di Paul Virilio («Baldus», 1, 1991).
(Clelia Martignoni, il verri, settembre-dicembre 3-4, 1995)
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