Dante Maffia – Al macero dell’invisibile. Ovvero: le parole del possibile nella baraccopoli del mondo.

 

di Roberto Pagan

Nella generosa produzione poetica di Dante Maffia, quest’ultima silloge (Al macero dell’invisibile, Passigli 2006) mostra un’ambizione in più. Per la ricchezza di temi, per la varietà di toni e di registri espressivi, per la sua complessa e meditata struttura polifonica, il libro, che raccoglie materiali di un lungo lavoro (sotto il titolo troviamo l’indicazione puntigliosa 17 gennaio 1996 – 15 febbraio 2004),  si presenta quasi come una summa ricapitolativa di tutta una personalità, nelle sue scelte estetiche, nelle sue motivazioni psicologiche, nel suo inquieto percorso di uomo e di artista. Insomma quasi un poema dedicato dall’autore a indagare e narrare se stesso. Dalle prime radici dell’infanzia e dell’adolescenza ai giorni della maturità, attraverso i luoghi e i tempi di un proprio irripetibile itinerario, che è concreto e storico, ma anche  – e soprattutto – interiore.

A ben vedere, i temi sono spesso quelli già presenti in tanti altri libri di Maffia – lo scavo di sé come uomo e come poeta (che l’uno non sta senza l’altro), le sue origini meridionali, le sue esperienze difficili di immigrato in un mondo diverso e ostile (o almeno come tale avvertito), ma anche la società di oggi, che di consumismo si consuma e muore, senza fedi, senza ideali, obnubilata e sgomenta di fronte al nuovo che avanza: gli altri, i diseredati, gli immigrati che ormai non sono più solo quelli del meridione d’Italia, ma sono quelli del Sud del pianeta. Ma il carattere che meglio distingue quest’opera da tutte le precedenti è quello che chiameremmo il suo disegno a vortice, il particolare dinamismo dell’insieme. I vari motivi si susseguono sezione per sezione, ma mescolandosi, sovrapponendosi, accavallandosi l’uno sull’altro, nelle stesse sezioni, anzi nelle stesse pagine.

Fin dall’inizio è così. Già la sezione d’apertura, I pruni dell’infanzia, sia per la sua posizione privilegiata, sia per il suo vasto respiro – ben 20 testi, raccolti in una sorta di suite poematica – ci  permette di analizzare questo complesso organismo, di coglierne l’articolazione nei suoi elementi strutturali ed espressivi.

Qui i temi sono sostanzialmente due: la ricerca  della propria identità, sul filo della memoria, a partire dagli anni della fanciullezza; ma insieme l’esperienza della scrittura, sentita come ineluttabile. Si affaccerà anche, più in là, ma sporadicamente, il tema della propria “meridionalità”, destinato a lievitare soprattutto nella seconda parte del libro. Ma questi motivi – l’ho già detto – sono come intrecciati, sovrapposti: anzi, per il momento, potremmo dire che sono solo cellule tematiche, ancora frammentarie, che andranno via via aggregandosi. E vediamone anche la variegata orchestrazione tonale: all’inizio un registro tenuto assai basso, quasi un parlato monologante. L’esperienza della scrittura è stata / lenta e insopprimibile… Il tono è meditativo, senza particolari inflessioni. Si increspa appena per un sottinteso letterario, il richiamo a Baudelaire – i fiori del male – che si presenta in forma di variazione: di fiori ho fatto melma e viceversa. Qui per il momento il tema della scrittura poetica sembra smarrirsi; prende piede la riflessione esistenziale: a partire dall’adolescenza, già segnata dall’inquietudine, già immersa nell’ombra di una insoddisfazione (i pruni dell’infanzia, appunto). Fin dall’inizio, un senso di estraneità alla vita (la vita… l’ho inseguita / come se fosse altro da me.), ma anche, tuttavia, un’ansia di assoluto, una frenesia totalizzante: piangevo …se non potevo abbracciare interamente/ tutto il creato… gridavo, ecc. Uno slancio che sembra ricadere e spegnersi in una sorta di apatia, di fronte alla sensazione del vuoto e del nulla. Perciò, alla fine del primo testo, una ribellione contro la luce del sole, egoista, privo d’occhi, spregevole. Una propensione – la si coglie anche nel testo seguente – a restare nel buio (il buio dell’alveo materno, parrebbe). Una contraddizione avvertita fin da quegli anni infantili: da una parte il cuore spento, arido, eppure – dice subito dopo – ero lì …a toccarlo, il cuore : e i suoi fulmini (e qui il linguaggio si fa più mosso e immaginoso) in un fazzoletto /  ricamato da mia  madre.

 Dunque l’esperienza della scrittura insopprimibile e l’insopprimibile necessità del vivere: ma con un senso di stanchezza che sembra insidiare la vita stessa, svuotarla di significato. Ma  i nessi tra questi singoli elementi del discorso sono assai labili, prevalgono i vuoti, i silenzi: sicché la pronuncia del poeta è come rallentata e interrotta. Finché via via queste cellule tematiche, ritornando e sovrapponendosi in varia guisa, si saldano tra di loro e formano un continuum capace di coinvolgere il lettore sul piano emotivo pur senza portarlo a conclusioni univoche, dai contorni precisi. Anzi – a cominciare dalla metà circa di questa prima suite – il discorso si impenna in procedimenti sempre più ardui, sul filo di associazioni mentali sempre più aperte, e i versi, sostenuti da un ritmo interno quasi esclusivamente musicale, si librano sull’infittirsi di rime e assonanze, mentre cesure asimmetriche sgretolano la sintassi in una cantilena appagata dalla sua intrinseca vibrazione. A questo punto l’immaginoso fantasticare, preso nel vortice del gioco analogico, rompe il muro del razionabile. E tuttavia – un secolo buono di arte moderna ci ha abituati ormai a queste miracolose discrasie tra senso e razionalità – la pagina  nel suo farsi e disfarsi lascia una traccia viva in cui l’intuizione del lettore si riversa anche là dove – per citare espressioni che proprio in questi testi si ritrovano – gli appigli si snervano in mezzo a un triturare di nessi scomposti. Un’accensione visionaria di assolutezza lirica, se vogliamo orfica (vedi anche il colorismo del testo 14, che sembra rimandare all’esempio del primo grande “deragliatore” di tutti i sensi, Rimbaud), certo in singolare contrasto con la sillabazione sommessa e distaccata dei testi iniziali della suite.

Qua e là potremmo comunque isolare alcune espressioni che mettono in evidenza un tracciato di  pensiero che insiste sulla indecifrabilità del mondo, e che di per sé giustificherebbe il ricorso a un procedimento irrelato rispetto alla logica comune: per esempio nel testo 17, p. 33, troviamo: accadono eventi /nei quali accadono altri eventi; le scoscese/ piramidi dell’irrisolvibile; le filastrocche imparate e disperse; la tenia del senso sempre più riposto; il mondo è solo una parvenza / muta priva di connotati…Così dunque, su questo oceano ribollente di suoni, galleggiano – come  relitti di un naufragio – i nuclei di quel discorso ambivalente sulla vita e sulla poesia di cui si diceva all’inizio. E affiora anche un autoritratto dilemmatico dell’autore, basato sui contrasti, su “ossimori esistenziali”: da una parte il rischio dell’assuefazione, il guado neutro / dell’indifferenza , dall’altra l’acquisita capacità di essere come il ginnasta dell’effimero (quasi il saltimbanco di palazzeschiana memoria). Così il poeta ha imparato  a uccidere le ore inerti del silenzio / in cambio di pensieri / che poi si fanno parole, sia pure dolorose e vane,  e a corteggiare il balbettio della sua anima… sola con la sua solitudine vitale, e col suo occhio sublime / che arriva fino alla porta dell’invisibile (p. 18). Non è questa la più bella definizione di poesia? Ancora in un altro passo (p. 21) – dove l’uomo e il poeta sono davvero un tutt’uno, un essere solo alla ricerca della verità nel  palinsesto d’ombre e di luci che ha segnato la sua vita – conclude che la verità è fatta di parole e che vivere è quasi entrare in una parola.

Questo poemetto d’apertura (I pruni dell’infanzia), su cui ci siamo più a lungo intrattenuti a titolo esemplificativo, si conclude (p. 36) con alcune parole che sembrano rimandare a un nuovo inizio: I mattini / sono stanchi e invocano / la vastità dei preludi. In realtà, rovesciando la frase, potremmo dire che “nella vastità di questo preludio” sono contenuti  i germi tematici e figurativi di tutto il libro nelle sue numerose scansioni.

 Le due sezioni che seguono, Il  misfatto delle similitudini e La poesia, sembrano sviluppare in particolare il tema, appunto, della poesia. Ma il discorso è molto più sinuoso e frastagliato.

Il misfatto delle similitudini prende avvio dal testo eponimo che è posto all’inizio: che pare insistere sull’aspetto illusorio persino dei nostri valori ideali più alti. Dopo aver pronunciato parole così significative in lode della parola poetica nei versi che abbiamo sopra citato (la verità è fatta di parole, ancorché dolorose e vivere è quasi entrare in una parola), qui l’autore sembra prendere le distanze da chi confonde le cose con un suo desiderio. Il testo a p. 39, dopo aver allineato alcune immaginose similitudini di segno positivo (…le colline hanno un’anima, le case sono ragazze alla prima comunione, scende una sinfonia dai rami delle acacie, ecc.), le demistifica denunciando la loro equivoca illusorietà. Questo è appunto il misfatto, e quindi l’abbaglio, la fata morgana che ci creano le similitudini. Nella nuda realtà – conclude l’autore amaramente – resta solo il verso opaco delle abitudini.

I brevi testi che seguono, Per distrazione e Senza entrare nell’evento (pp. 40–41), sono come due apologhi che hanno anch’essi il sapore di una autoflagellazione. La formica che s’affanna trascinare un inutile petalo di geranio o lo squalo che,  in pericolo di morte, per distrazione raglia come un asino, sono forse figure del poeta che, appunto, per distrazione e per disperazione, confonde le cose con un suo desiderio. Così nell’altro testo si sostiene che con le parole non si costruisce nulla se non altro dolore: L’incanto (della poesia) non è che un muretto a secco / che recinge la valle: probabilmente la nostra valle di lacrime. Una palinodia in negativo rispetto a quanto sostenuto nel preludio del libro? Gradatamente il discorso che sembrava dedicato alla poesia scivola dunque verso temi civili e socio–politici. Itaca sprofonda (p. 46) è una fantasia tragicomica, una ilarotragedia, sull’imborghesimento di Ulisse, dominato e domato ormai da una benpensante Penelope, che con le arti del letto matrimoniale e la costanza delle abitudini, ha tolto all’eroe ogni velleità di avventura. Anche Il tempo della tautologia (p. 49) respira dello stesso clima deluso del precedente apologo. Ormai non c’è più niente da dire, tutto è stato già detto. Ciò vale probabilmente per l’attività artistica e letteraria. Ma vale in tutti i campi. Tutto è rimasticatura. Così la riesumazione di immagini sfinite rende impossibile ormai distinguere i crimini dalle buone azioni, anche quelle del Potere. Ahimè, di che cosa dunque potremmo rivestire i nostri sogni per i millenni a venire? E il finale risuona di un timbro baudeleriano: sento la noia dell’eternità / come un pantano di melma.

Tutto in ordine (p. 55) è da mettere in relazione con le cose citate. Ma qui non c’è più bisogno di apologhi o di proiezioni profetiche: qui basta la descrizione nuda e cruda della cronaca quotidiana fatta col lessico del parlato. Dopo aver portato a spasso il cane, / acquistato il giornale, scambiato / due frasi sul tempo… A casa è tutto in ordine. Le figlie hanno fatto la doccia … I televisori sono accesi, / l’odore dell’arrosto mi dà il benvenuto. L’ordine è dunque la disperata banalità della nostra vita ordinaria, così ragionevole, così normale: in realtà così insensata.

Dal mondo delle parole all’ etica, alla società, alla politica: tutto si tiene – pur in un contesto apparentemente così disarticolato. Abbiamo visto l’amara satira della banalità. Ma come se ne esce? Ancora ironia (e autoironia) ne I rivoluzionari (è il titolo a p. 56): gli utopisti a oltranza, i pacifisti di professione, i controcorrente, i bastian contrari, i ribelli a chiacchiere, i mangiatori di fiori. Ce n’è per tutti, per quelli che ci hanno “marciato”, per quelli che ci credono e per quelli che ci hanno creduto. Anche per se stesso, nella misura in cui egli pure, il poeta, dalle generose utopie si è fatto un giorno tentare. Che anche lui ci abbia creduto, è detto esplicitamente nel testo seguente (p. 58), che è l’ultimo della sezione e che porta l’esplicitissimo titolo La poltica: Quando si parlava di far crescere il mondo / io ci ho creduto. E ho cercato / di coinvolgere gli altri ragionando. In realtà ai politici sembra che si siano sovrapposti ben altri personaggi: i positivisti del progresso illimitato, i costruttori dei grattacieli e delle torri, quelli che pensavano che prima o poi l’uomo avrebbe avuto / tre occhi, e sei dita per mano. Ma che fine hanno fatto le torri, da sempre, da quella di Babele a quelle fatali di New York? Perisce sempre chi sfida il volo delle aquile. La conclusione sembra rifugiarsi in un fatalismo liberatorio. Quello, un po’ cinico, di chi vorrebbe eludere il problema, scendere dal treno, salvarsi: Cadranno le torri innalzate e finalmente / potremo guardare in linea retta. Che senso di liberazione!

Ma non è così. E infatti in altra pagina (165), l’autore dovrà ammettere che Il mutamento è l’unica certezza / che ci traghetterà nel futuro. E allora, appunto, per non morire soffocati a testa indietro, e cioè guardando al passato, eccolo di nuovo confrontarsi col mondo, con se stesso, con la poesia. Ma il discorso è tortuoso, labirintico, imprevedibile sempre. Se la sezione che cominciava con il misfatto delle similitudini – e cioè, almeno apparentemente, con un tema inerente al mondo della poesia e della comunicazione – si concludeva con un testo intitolato La politica; la sezione che segue riparte ancora da La poesia (questo il titolo), per sfociare in una pagina di tono elegiaco sulla Calabria, che apre idealmente la strada al tema “meridionalista”,  prevalente poi nella seconda metà del libro. Ma ancora una volta il percorso si presenterà tutt’altro che rettilineo. La sezione La poesia appare già di per sé composita: sette testi senza titolo, di tono prevalentemente aforistico, altri undici testi con titolo, di timbro assai più vario. All’inizio si parla sì di poesia, ma in termini per lo meno inconsueti. Il primo testo suona come un aforisma un po’ paradossale e stravagante. Un uovo sodo / dimenticato in una radura. Curiosa, surrealistica, metafisica immagine alla De Chirico. Ma non dimentichiamo che l’uovo è emblema di fecondità e di pienezza, ed è anche simbolo alchemico. Miracolosa, la  poesia. Nessuno sa / in che cosa consista il miracolo. Eppure non è certo cosa da poco. Non è, appunto, un uovo di Colombo. Nei testi seguenti spigoliamo ancora qua e là qualche immagine e qualche definizione. La poesia non ha bisogno / della prima pagina dei quotidiani / né di battiti di mani – si dice nel testo che vien dopo (p. 62). Bella, coinvolgente, l’ultima immagine, che non è sfuggita a Remo Bodei, nella prefazione del libro: La poesia è una baraccopoli / nella quale cadono le stelle / e nessuno ci fa caso. È un’immagine aperta, di quelle che si possono leggere in vari modi. Io leggerei così: anche qui, ora, in questo nostro caotico mondo, piove la luce delle stelle e si avvera il dono casuale e miracoloso della poesia. Anche se nessuno – o pochi di noi – ci fa caso. Notevolissima ancora la p. 64. Qui è la poesia stessa che parla al poeta: dammi la possibilità / di trovare il poco / che si perde ogni giorno / e farlo diventare tesoro da opporre / allo sperpero dell’umanità. In forma icastica, dunque: il poco essenziale che è il vero tesoro nello sperpero (si legga, se si vuole, consumismo) che è quasi legge nel nostro mondo.

 Questo tema dell’essenzialità, della purezza, si ritrova ancora, con qualche variazione, in altri due testi importanti: a p. 68 e 69. Il luogo della poesia non è il mare ribollente (di troppe passioni, di troppi dolori). Non è il movimento, è piuttosto la radura. La mia anima è randagia ma ha pause / che vivono un’eternità (in Tutto ciò che si muove). Meglio il silenzio, la pagina bianca, piuttosto che misurarsi con cose eccessive, concetti smisurati (Non voglio misurarmi con il fine / né col principio delle cose ), più adatti al filosofo che al poeta che voglia meritarsi solo  il sorriso della poesia. Così non sono gli spazi eccessivi, le troppe città del mondo già visitate, che portano alla poesia. Lì ci può essere dispersione. Può bastare un deserto, una terra bruciata dall’incendio, o l’enfasi, la ricchezza infinita di una sola zolla. Il poeta ha capito che bisogna sottrarsi, negarsi, restingersi – ridursi dunque, ancora una volta all’essenziale  – per trovare almeno una parola che dia linfa e lume. (cfr. Almeno una parola).

In fondo alla sezione, ancora due testi che direi “ideologicamente “ essenziali nel libro, due poesie diversissime tra loro. La prima è quella che dà il titolo all’intera silloge, Al macero dell’invisibile (p.79). Si tratta di una pagina densa, di scrittura molto elaborata. Il testo si apre su immagini di caos e di follia: è ancora – non c’è dubbio – il nostro mondo della dispersione e del consumismo: le parole consuntegli accordi musicali sfiniti… che andranno al macero dell’invisibile. Sono dunque i residui, i detriti della grande fatica e della folle corsa, dell’ingordigia del vivere. Ma è proprio in quel cerchio sibillino degli avanzi, nel silenzio (o nella stanchezza?) che il poeta sembra ritagliarsi le parole del possibile. Questo è forse l’ultimo approdo della poesia. O forse l’ultimo scempio in mezzo alle perdite infinite. Un testo complesso, ripeto, da leggersi con attenzione: ma il messaggio che se ne ricava ha certo a che fare con le immagini icastiche già prima segnalate. Quelle sulla baraccopoli e sulla luce stellare, essenziale, sempre più rara, della poesia.

            Inopinatamente, dopo questa pagina ardua e senza dubbio “difficile”, Maffia ha voluto collocare, in finale di sezione, e quindi in luogo privilegiato, una poesia che suona come accorato omaggio alla sua Calabria: La Calabria che lo scirocco (p. 81), poesia di tutt’altro stile, si direbbe quasi d’altri tempi: come a sottolineare quella ricchezza e varietà di forme e di contenuti di cui dicevamo all’inizio. Una pagina, ancora una volta, che sembra chiudere, in realtà apre o riapre un discorso caro al nostro autore: l’opposizione dialettica, e anche polemica, tra il Sud e il Nord. E infatti le sezioni che seguono (e che qui elenchiamo soltanto: Milano, L’attesa in fondo al mare, Fingendo l’armonia, Il mio paese è una digressione, Se uno straniero bussa alla tua porta) – insomma ancora una buona metà del libro – questa tematica sviluppano, sia pure in varia chiave e in varie tonalità e sempre sul filo di una fondamentale ambivalenza: da una parte il rifiuto, dall’altra la nostalgia del proprio orizzonte provinciale, angusto e insieme irrinunciabile.

 Intanto il poeta Maffia si è fatto cittadino del mondo. Il mondo opulento, arrogante, volgare, di un Nord che comincia a Milano (suo antico ritornante idolo polemico) e che si estende a tutto il Nord dell’incivile “civiltà” moderna: a cui egli contrappone le ragioni di tutti gli immigrati, gli emarginati, i disadattati di quell’altra faccia del pianeta, di un enorme Sud ancora in penombra ma sempre più recalcitrante. Tra toni grotteschi e apocalittici, di tutti costoro si fa paladino ideale, vicino a tutte le cause finora perse, pronto a plaudire a tutte le riscosse e a tutte le vendette necessarie e fatali. Il massacro sarà colossale… il Naviglio diventerà rosso / e le ciminiere fumeranno / per le cataste dei corpi… cancelleranno le tracce del vostro odio / e siederanno davanti alla Scala… a chi non sa ascoltare l’uomo / va negata la musica (p.159)… La Storia non si fermerà / e forse non avrà molta importanza / l’uso che faranno delle nostre cattedrali / così tristi, così deserte ormai (p. 163)… Una civiltà vale l’altra. Se penso che la mia / fu dilaniata dai Piemontesi…Non voglio avere nessun rimpianto. Porto me stesso dentro ogni crociata / purché sia salva la dignità umana (p. 165).

Queste sono le parole. Ma qual è l’anima più vera di Dante Maffia, quest’uomo dalle cento anime, “polytropos” come Ulisse, distaccato pur nella sua inquietudine e nella sua ingordigia di vivere, sicuro solo nel recinto della poesia?

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