La piccola, ma già significativa per il valore delle opere proposte, collana di poesia di Smasher ci propone tra gli altri un libro di Enrico De Lea, autore finalista nel 2010 al premio Lorenzo Montano con Ruderi del Tauro, e che ora con Dall’intramata tessitura torna a parlarci del mondo semi sommerso di una Sicilia atavica, in una lingua alta e refrattaria ad assimilarsi ad altri discorsi poetici attuali. Enrico De Lea si affida ad un linguaggio per nulla comune, ma nella forza del suo dire si pone di fronte a coloro cui si rivolge e per cui scrive, come se tornasse ad una patria agognata e perduta. La prima parte del libro Neri e gaudiosi lumi in valle, è un excursus nei luoghi di un’infanzia mitica, dove le figure genitoriali non interpellano il figlio, ma sono per lui specchio e limite invalicabile. L’autore sembra procedere a ritroso in un viaggio dove solo la sua voce ripercorre le tracce di un tempo in dissoluzione e la stessa voce rivela una mancata salvezza o meglio un essere salvi a metà e ancorati ad un’attesa che non è già più attesa, perché ormai nessuno può rispondere se non con la muta presenza. Il lontano di chi ha dato genealogia non può sostenere il mondo fragile, spaesato e votato all’inutile della nostra contemporaneità. In quel lontano, madri e padri sono il solco e il significato cui si chiede un senso per noi e di noi e i luoghi sono essi stessi significato, perché sono il ritorno a una comunità dove la presa d’atto dell’impossibilità di ogni ritorno attende il poeta e assume la valenza di un altro inizio. Infatti ritornare non è ritrovare l’uguale, ma riannodare e rinnovare, ed è prefigurazione di quel “tu” che la seconda parte del libro Arie del volto mette in evidenza. E’ in questa sezione che il “tu” cui De Lea si rivolge si fa vicinanza e discorso di affetti. Colpisce l’intensità di questo dire, quasi un uscire da sé, divenire coscienza d’amore, legame inviolabile perché capace di offrire terra, mani, legno. Subito la sorpresa è fin dai primi versi il sussulto del poeta stesso “Fortuna che ti incontro e me ne avvedo” e lo sciogliersi poi in una geografia di colline, mari e fonti, senza alcuna amarezza ormai, vinta questa dalla pazienza della luce. Se in per filo e per segno, De Lea confessa la sua inadeguatezza al tempo vero, in notizie da una via del centro ci informa di saperi inusitati e di un andare per burrasche che lo rivelano attento, partecipe e sconsolato nel suo dire. A volte sembra quasi che l’autore si perda nell’ascolto di qualcosa e a volte sembra ci sferzi con verità che avevamo dimenticato: “ Siamo, stiamo, con un corpo/ di fatica estesa, da millenni”. Alcune poesie finali tornano brevemente a certi topos ricorrenti in De Lea, i luoghi come stazioni dell’anima precipitano di nuovo negli ultimi componimenti quasi a ricordarci un ciclo di eterno ritorno, non solo alla geografia, ma alle proprie parole salvate nell’enormità dello spazio bianco della pagina, in un prodigarsi per dire non semplicemente ciò che manca o è mancato, ma una cancellazione mai del tutto riuscita che continua a farsi leggere ed è quindi segno, lettera e lascito delle sue stesse ferite.
Qui la prefazione di Alessandra Pigliaru.
Qui la postfazione di Enzo Campi.
Nadia Agustoni
Nel 2011 sono usciti Il peso di pianura, per LietoColle; il Pulcinoelefante, Il giorno era luce, e la plaquette Le parole non salvano le parole, per i libri d’arte Seregn de la memoria.
Collabora a varie riviste e a blog letterari.
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