Poesia 2.0

E la tortura esiste. E i fiori di rosmarino esistono. — Andrea Inglese

La strada n.2: Esordio poetico? Questione sociale.


«Che il mondo è il mio mondo si mostra in ciò, che i limiti del linguaggio (del solo linguaggio che io comprendo) significano i limiti del mio mondo» (5.62) Tractatus, Wittgenstein.

SignoriniNota introduttiva: l’opinione proposta in questo pezzo è frutto delle mie letture di linguistica e di tutta una serie di esperienze personali che sarebbe difficile riassumere in poche righe, è frutto – anche se mi fa sorridere dire una cosa simile – della mia ‘sensibilità filosofica‘; prendete il tutto come uno zibaldone di provocazioni. Il ragionamento che ho cercato di applicare alla realtà poetica italiana è semplice. Allo stesso tempo non credo sia troppo grezzo, le parole con cui l’ho espresso quelle sì, possono sembrare grezze – questo è il tentativo di fare arrabbiare qualcuno. Se un’identità culturale è veicolata da un linguaggio particolare, quale è il rapporto tra questo linguaggio particolare e coloro che lo adottano [aspetto sociale]?, soprattutto chi è che stabilisce norme, anziché dedurre regole di un linguaggio particolare [il "bello scrivere" è una educazione a una particolare identità di scrittura]? Una politica linguistica è una politica dell’identità – il fatto che si ‘somministrino’ dei particolari programmi scolastici che includano ed escludano certe voci della letteratura italiana che cosa comporta esattamente? Non esiste forse una prassi politica e morale (cosciente o incosciente), e non c’è un gruppo sociale particolare dietro a tutto questo? Se a quest’ultima domanda risponderemo sì, sarebbe molto importante interrogarci dove una politica linguistica ha origine e se questa sia o meno una omologazione: vediamo la letteratura con gli occhi di qualcun altro che nemmeno conosciamo? Possiamo in un certo senso dire che sia indotta, anche in ambito letterario, la nostra percezione del mondo? Chi è in sostanza determinante per quel sistema predeterminato di segni che nella tradizione strutturalista viene definito Langue? Una consapevolezza linguistica  (meccanismi di evoluzione delle lingue, innatismo del linguaggio, teorizzazione di regole linguistiche in anteposizione alla stesura di norme linguistiche) non dovrebbe essere preponderante rispetto a una nozione di lingua (grammatica normativa – ‘galateo della scrittura’ – stilistica letteraria, estetica)? La competenza del mezzo [la lingua e della meccanica delle lingue] che include la conoscenza dell’oggetto linguistico [il canone letterario]. L’idea di ‘canone‘ come si può interpolare a quanto espresso fino ad adesso – possiamo davvero stabilire dei canoni – le basi di questi canoni saranno esclusivamente ‘fatto sociale’, ‘strumentalità’, espressione culturale di uno Stato nello Stato? Io personalmente protendo verso certe conclusioni che, in modo appassionato e radicale cercherò di esporvi nelle righe che seguono.

«E avendo deciso di non cercare altra scienza se non quella che potevo trovare in me stesso oppure nel gran libro del mondo, impiegai il resto della giovinezza a viaggiare, a visitare corti ed eserciti, a frequentare uomini di indole e condizioni diverse, a raccogliere varie esperienze, a mettere alla prova me stesso nei casi che il destino mi offriva, e a riflettere dappertutto sulle cose che mi si presentavano, in modo da trarne qualche profitto. Perché mi sembrava che avrei scoperto molta più verità nei ragionamenti che uno fa sugli affari che lo interessano, e il cui esito punisce ben presto chi ha mal giudicato, che in quelli dell’uomo di lettere, chiuso nel suo studio, immerso in speculazioni senza effetto, e che non hanno per lui altra conseguenza se non che ne trarrà forse una vanità tanto maggiore quanto più saranno distanti dal senso comune, perché in questo caso avrà dovuto impiegare più ingegno e più artifici per renderle verosimili. E avevo sempre un desiderio estremo di imparare a distinguere il vero dal falso, per veder chiaro nelle mie azioni e procedere con sicurezza in questa vita». Discorso sul metodo, René Descartes.

DantePoeta esordiente, poeta in erba; poeta riconosciuto, giovane poeta, grande poeta. Siamo sicuri di essere abbastanza coraggiosi per interrogarci a riguardo di che cosa possano davvero significare queste etichette nel contesto letterario nel quale ci troviamo… Non dobbiamo accontentarci di una risposta di comodo, monca, superficiale, circoscritta a ciò che è lecito dire. Omettendo particolari scomodi, che potrebbero infastidire qualcuno. Perché le cose si capiscano è necessario osservarle da un punto di vista inconsueto ed essere un po’ scettici. La domanda a cui dovremmo cercare risposta allora è, difronte a chi? Poeta esordiente, poeta in erba; poeta riconosciuto, giovane poeta, grande poeta… Forse solo difronte a un gruppo sociale, un gruppo sociale identificabile. Con dei vezzi che lo caratterizzano, con un linguaggio non verbale peculiare, con un modo singolare di vestirsi – una moda [il vestirsi da poeta. O una proclamazione in toga] –, con una religione e una lingua tutta sua; un gruppo sociale, quello dei poeti, che spesso non si accorge di far parte di una realtà ben più ampia che quella del Parnaso e alla quale, di conseguenza, non rivolge la sua sensibilità – un Paese, un’Europa, un Mondo. Questa, si capisce bene, è una comodità niente male, chiudersi nel proprio ‘luogo sociale’, nei limiti della propria lingua. Trasformarsi in un circolo di auto-aiuto dove poeta e critico vanno a coincidere. Qualcuno, il più obbediente, il più omologato, in sostanza il servo, verrà portato avanti. Poeta esordiente, poeta in erba ecc. difronte alla sola “Repubblica delle Lettere”. Al Parnaso, e il desiderio sarà quello di essere riconosciuti, un giorno, come grandi poeti, e non di fare grande poesia. Ma la parola ‘desiderio’, che occorre nella tradizione poetica italiana sino dalle sue origini, in questo caso la proporrei con una connotazione particolare, più vicina all’immagine che ci può essere suggerita dalla sua stessa l’etimologia:  guardare le stelle – e le stelle, malgrado ogni nostro sforzo, sono irraggiungibili. Il Parnaso non batte moneta e non emette passaporti.

Nel mondo della comunicazione non possiamo più pensare di essere un’aristocrazia ripiegata su se stessa, le nostre competenze devono essere al passo coi tempi, anche il poeta deve imparare le vie della contemporaneità, non rifuggirle, e a essere in qualche modo influente, influente tramite quanto di buono produce. Il poeta deve guardare con più simpatia certe competenze, quelle che troppo spesso non fanno parte della sua valigetta degli attrezzi – come la linguistica testuale o l’etnolinguistica (o almeno cambiarne la prospettiva di applicazione). Forse serve un etno-poeta e non un critico-poeta. Il suo approccio alla scrittura, a mio parere, dovrebbe essere più professionale (di scrittura professionale). Credere che il nostro unico compito sia di rivolgerci a quelli che hanno già preso la cittadinanza del Parnaso è castrante, la poesia, grazie a una rosa di politiche scolastiche sbagliate e soprattutto all’atteggiamento degli stessi poeti “si è ristretta a un ambito ecumenico, siamo gli ultimi cristiani – come i primi cristiani”, dobbiamo invertire questa tendenza.

Parnaso

Il Parnaso non è un luogo fisico, è un luogo delle idee, e come tale deve essere trattato, il Parnaso non si sostituisce al mondo della quotidianità: si sovrappone come una velina; una fuga verso il Parnaso, in un momento per il nostro Paese delicato socialmente e culturalmente, non ce la possiamo permettere. E allora dovremmo forse vivere la nostra condizione di poeta in modo differente, e differente dovrebbe essere l’immaginario stesso che  proponiamo a riguardo della poesia. Dobbiamo avere il coraggio di riformare questo immaginario andando oltre all’attingere il nostro ‘chi sono’ dallo statico serbatoio culturale che ci viene imposto come identità. Siamo immersi nella vita, siamo immersi nella letteratura. Rispettare quella poesia ‘militante’ che si prefigge come scopo di parlare alla gente. Il Parnaso coesiste con il mondo della quotidianità – di questo gli unici che non se ne accorgono sono proprio certi poeti. E per quanto mi riguarda, non voglio con il mio lavoro rivolgermi solo ai ‘colleghi’, ai ‘riconosciuti’, non voglio fare il delfino di nessuno, e voi? Mi piacerebbe sapere voi che ne pensate di quel vulgus di oraziana memoria… Il nostro modo di intendere poesia a livello nazionale protende in modo pericoloso verso Orazio, ma quantomeno Orazio sapeva bene a chi si rivolgeva, era un comunicatore cosciente, e noi? Forse, l’errore che facciamo è proprio quello di credere nel fatto che si viva ancora nel mondo di Orazio, o meglio nel mondo che ci è stato consegnato dalla Letteratura e dal sistema formativo «i critici sono tutori del testo e dell’ordine», ma queste sono entrambe cose frutto di una intellighenzia; di un gruppo sociale, sono ahimè, politica – il mondo della Letteratura e del sistema formativo non sono altro che una diapositiva del mondo. Mondo proiettato sul mondo, e questa luce rischia di sfalsare i contorni… Il mondo è sempre lo stesso, al di là di una lenta deriva dei continenti, l’estinzione di un certo numero di specie, l’aumento della popolazione globale, i cambiamenti climatici intercorsi, l’avanzamento tecnologico avvenuto. Il mondo è sempre quello di Orazio – ecco, l’evergreen è l’homo sapiens sapiens – e io personalmente aspetto il prossimo sbalzo evolutivo… Loro potranno capirci qualcosa.

I poeti che si versano nella tradizione con la velleità di essere un giorno tradizione mi annoiano. Sono gli stessi poeti che fanno sì che la tradizione si sovrapponga direttamente alla loro identità, perché sono gli stessi poeti che si lamentano che i libri di poesia non vendono. Che nella vita pubblica non ci sia poesia, che la poesia abbia abbandonato del tutto la realtà popolare del Paese. Questi poeti devono aprire gli occhi; capire di essere loro stessi la causa del nostro male, di ogni male della poesia italiana – queste persone parlano di educare le persone alla poesia –, non è vero, loro voglio educare le persone alla loro poesia, questi poeti hanno pensato che la gente si sarebbe mossa verso di loro, che avrebbe trovato interessante i loro vezzi, le vicende editoriali e il presente in cui ci troviamo danno loro torto. Una poesia libresca, che guarda alla cellulosa, alla carta di stracci, al papiro, al porfido, ma non alla vita, senza capire che cellulosa, carta di stracci, papiro e porfido sono supporti che testimoniano la vita, e parte della vita – loro si limitano al significante e non al significato, estromettono la sensibilità genuina dal loro lavoro, la loro sensibilità è caricaturale perché imparata sui libri – non per la strada; si commuovono anche loro per la povertà e il freddo, ma non perché abbiano mai provato freddo e povertà, perché hanno letto in un libro che per certe cose si piange. La loro lingua non è cosciente, è solo preziosa. Loro, dal cipiglio post-modernista, mi risponderanno che la cellulosa, la carta di stracci, il papiro, il porfido non fanno altro che parlare della vita, io risponderò loro che il loro metodo puzza di stantio, di muffo, di seconda mano. Sì, questi supporti parlano di vita, ma sono anche latori di significato, bastano poche nozioni di semiologia per capirlo. A me non piace la vita di seconda mano, non mi piace l’imitazione plastica, non mi piace la piega che il Sapere umanistico ha preso negli ultimi cinquant’anni: dove per dimostrare qualcosa bisogna trovare qualcuno che la abbia già detta – questo gioco delle tre carte, utilissimo per alzare l’I.F. Relativo alle pubblicazioni pseudo-scientifiche che escono dalle Università di Lettere e Filosofia è ridicolo, ancora di più in poesia: omologazione, bella e buona. Non esiste nulla di peggio dell’omologazione. Il passare il testimone a un delfino. In una dinamica dove ogni forma di polemica e conflitto, anche la più sana, quella delle idee e per le idee, viene dimenticata – ci siamo adeguati, pasoliniana-mente, a sopravvivere.

Oggi bisogna stare dalla parte della vita. Bisogna passare al setaccio il linguaggio del mondo, il linguaggio quotidiano dei super-mercati, dei pub, delle discoteche, delle corsie d’ospedale, degli studenti, degli operai, dei capitani di industria, della televisione; è  confrontando tra loro questi luoghi della parola che ci si fa un’idea a riguardo della vera identità linguistica del nostro Paese, è qui che noi dobbiamo raccogliere il nostro dizionario e la nostra grammatica. Forse siamo chiamati a ritrasmettere un messaggio, a mettere in evidenza quelle schegge di creatività che sopravvivono all’omologazione – della televisione, del computer, e dello stesso Parnaso. Dobbiamo mutuare queste schegge attraverso il nostro lavoro, siamo delle lenti, delle spugne, delle scatole dentro le quali penetrano degli input e ne escono degli altri – decidete voi l’immagine che più vi aggrada. Il linguaggio, a mio avviso, è qualcosa di inscindibile dall’identità, e noi, come poeti, dovremmo avere questa cosa ben chiara.  Il poeta ha del resto la possibilità di influire su questa identità;  un passaggio privilegiato da Parole a Langue. Ma per  cucirci  un abito linguistico che ci sia comodo e che possa ‘fare tendenza’ [bruttissima espressione ma calzante] dobbiamo avere almeno dei rudimenti di sartoria/linguistica. Al centro della professione del poeta c’è la produzione di messaggi. I messaggi devono avere un ricevente, siamo sicuri che questo ricevente possa essere solo il nostro io?, o tutta quella costellazione di egocentrici che vogliono arrivare alla cima del Parnaso o che già la occupano? La poesia non è solo auto-psicanalisi. Il ricevente di una poesia cosciente di tutte queste problematiche può essere, anzi, in tutta probabilità deve essere anche l’uomo della strada [noi stessi non lo siamo? Noi stessi ci muoviamo senza alcuna sosta possibile lungo un percorso?]. Noi poeti dobbiamo occuparci della gente comune perché noi siamo gente comune. La gente che è bersagliato in ogni istante della vita di strategie di persuasione; pubblicitarie, politiche… Vorrei vedere la poesia come un luogo aperto. Dove ci sia coscienza del fatto che si sia tutti in un comune orizzonte linguistico [e bio-linguistico], un orizzonte linguistico che si può cambiare solo ‘partecipandolo’ e raccogliendo da questo, certe epifanie di libertà, di creatività linguistica.


Alcuni Link:

I tempi cambiano, i sapori restano.

I ciofani poeti.

Risposta ai ‘ciofani poeti’.

Distopia sul futuro della poesia italiana.

Cambio di Paradigma.

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  1. Ottimo articolo, Francesco! Grazie!
    Essendo come sempre un puntiglioso, per usare un eufemismo, ho qualche appunto di natura teorica su passaggi assertori e definitivi, quali “Al centro della professione del poeta c’è la produzione di messaggi” o “siamo ancora nel mondo di Orazio, aspettiamo ancora un’evoluzione”… Etno-poeta (e cyber-poeta, mi sembra di poter capire) è una via già percorsa, in vari luoghi e tempi. E forse non necessitiamo neanche il raccordo teorico con i fondamenti della linguistica scientifica, non saprei…
    Comunque, certamente sono d’accordo sulla questione del delfinato come un fatto dirimente sull’autenticità della scrittura e sono intrigato dal tuo rifiuto della didattica della poesia, che è sempre e solo esibizione di poetica, cioè, nella quasi totalità dei casi, della propria personalità… Eppure c’è anche da dire che non vedo vie alternative a questa, che in fin dei conti è un’ottima strategia comunicativa: educare (assimilando) per diffondere.

  2. Forse l’enorme prestigio che la poesia ha goduto in passato non può più ricrearsi entro una società a scolarizzazione diffusa. Il motivo potrebbe risiedere nel fatto che la “tassa d’ingresso”, ovvero la differenza tra gli artefatti di chi incominci a comporre (con pieno sentimento ed una dotazione del tutto ignota di talento) e chi invece si trova già abbastanza in alto nella gerarchia (“anyway anyhow”) con la quale il neofita va a confrontarsi, appare forse alla matricola troppo esiguo affinché questa investa pesantemente la propria libido sulla produzione altrui, invece che sulla propria (naturalmente ciò che conta qui è la percezione della matricola, e non del poeta legittimato). Così, mentre per esempio la composizione musicale si rivela immediatamente ostica alla stragrande maggioranza della gente, che di conseguenza lascia perdere e diventa fruitore puro e disinteressato (o al massimo si dedica all’esecuzione, anch’essa piuttosto selettiva) in poesia sembra che ogni interessato sia anche un aspirante poeta, circostanza che introduce una sorta di “conflitto d’interessi” in tutto il suo modo di rapportarsi e giudicare. Così si andrà a leggere le poesie altrui soprattutto per quadagnarsi l’accesso ad un mondo al quale romanticamente si aspira appartenere come autore: il “do ut des” dell’attenzione mi sembra un fenomeno assai evidente. Un’altra manifestazione si può rinvenire nel fatto che quei giudizi viscerali e radicali che possono portare, in un mondo di ipersensibili, a delle rotture irreparabili, non hanno mai luogo all’interno delle aggregazioni spontanee, ma soltanto ai confini, negli inevitabili attriti fra aggregazioni rivali. Ho quindi l’impressione che lo “stato” marginale della poesia, ed anche di altre arti un tempo così centrali nella cultura, non dipenda tanto da pigrizie, cattive volontà, carenze improvvise di talenti, o chissà quali errori strategici, bensì da saturazioni dello spazio dei possibili che non siamo in grado di prevedere, ma soltanto constatare molto tempo dopo.

  3. Caro Lorenzo, a volte le cose più ovvie sono quelle meno dibattute, e date per assodate si perdono di vista.

    Caro Elio, la domanda che ti vorrei porre è la seguente: come, allora, riportare la poesia al centro – assieme ad altre discipline – della ‘cultura nazionale’… Ad ogni modo, il parallelismo che segni tra poesia e musica è calzante: per l’appunto in questo pezzo richiamo, al di là della conoscenza passiva o di riflessione della poesia (autori – opere: che rimane comunque fondamentale), a una competenza tecnica di scrittura creativa e scrittura professionale interconnesse a una scientifica di linguistica (PNL vorrei che fosse una sigla dal significato non oscuro). Non possiamo continuare a ragionare di linguaggio (e della forma di letteratura dove il linguaggio è più misurato/pesato) senza sapere che cosa sia questo benedetto linguaggio.

  4. Forse si fa già tutto quanto si deve fare, ovvero lavorare in buona fede per creare un campo di attività che risulti aperto, piacevole e intellettualmente stimolante. Personalmente vedo in esso sia dei segni positivi che dei segni negativi. Trovo positivi certi dialoghi sorprendentemente onesti fra posizioni lontane, ancora forse un po’ rari. Non perché questi debbano condurre a degli “assiomi” condivisi, ma perché mostrano la possibilità di quel fitto tessuto di scambi autentici che di solito, nel tempo, riesce a condurre a qualche arte davvero grande. Negative mi sembrano invece le difese basate sul “terrorismo” erudizionale e sullo scaltro impacchettamento di contenuti in verità poco differenziati con i segni esteriori dell’autorevolezza, una strategia che sembra imporre all’interlocutore la posa del “fan” o dello studente – vedi anche questa ansia di “antologizzarsi”, sognando magari di fare iniettare i propri memi dentro alle menti riottose dalla coercizione scolastica.

  5. elio_c, non solo ti dò ragione, ma penso che il tuo ragionamento possa aprire anche altre prospettive… Provo a spiegarmi con una domanda: è possibile coniugare la ricerca di chi intende abolire dal proprio linguaggio ogni scoria di supponenza, con un dibattito attorno ai valori che possono orientare la riqualificazione delle antologizzazioni ad uso delle classi scolastiche?

  6. Penso che abolire la supponenza (per certi versi implicita nel campo) rappresenti un nobile proposito da parte di un artista o di un poeta, mentre il dibattito attorno alle antologizzazioni scolastiche forse dovrebbe rimanere distante da interessi ancora viventi e “combattenti”. Insomma così in prima battuta io direi di non coniugare, ma forse sbaglio, non sono affatto sicuro di afferrare bene la vera natura di questi fenomeni. Un saluto.

  7. Il discorso di Francesco sembra una unica corposa invettiva, con la quale – se leggo superficialmente – posso anche ritrovarmi d’accordo. Il problema, però, è che non è affatto unico e corposo: dentro questo intervento si toccano elementi diversissimi tra loro a ciascuno dei quali, a mio avviso, è scorretto (quando non controproducente) dirigere la medesima critica.
    Si parla di poesia, ma si parla di poeti e di critici anche. Pure, si parla dei lettori/fruitori. Mi pare doveroso, almeno secondo me, delimitare per bene i confini dei vari elementi del discorso perché una invettiva non risulti “mal diretta”, dunque “sterile”.

    Se parliamo di poeti affermati, non ho nulla da aggiungere a quanto detto da Francesco, anche se non farei di tutta l’erba un fascio (ma sono convinto che neanche Francesco lo faccia).

    Se parliamo di poeti in erba, non posso che quotare elio_c.

    Veniamo alla poesia (e il suo linguaggio) ed ai critici ed al sapere umanistico che “per dimostrare qualcosa bisogna trovare qualcuno che la abbia già detta “.

    Quando Francesco parla di etno-poeta e della necessità di “Bisogna passare al setaccio il linguaggio del mondo, il linguaggio quotidiano dei super-mercati, dei pub, delle discoteche, delle corsie d’ospedale, degli studenti, degli operai, dei capitani di industria, della televisione”, secondo me prospetta un rischio altissimo. La “cultura di massa”, che ha cancellato gran parte dell’analfabetismo, ha percorso – a mio avviso – la stessa strada: non portare la popolazione all’altezza della cultura, ma abbassare la cultura al livello “medio” della popolazione. Ora, è pur vero che abbiamo un gran numero di persone che sanno leggere, scrivere e far di conto, ma l’analfabetismo strutturale non è stato certo cancellato, poiché è pieno di gente (anche universitari – si veda l’articolo di Maria Pia Pozzato sul numero 1 di Alfabeta2) che non è stata educata a vedere al di là del proprio naso, a leggere tra le righe, ovvero: interpretazione critica. Quindi, come per il fenomeno di “acculturazione” che è ben diverso da quello di cultura di una popolazione, con il tuo discorso, Francesco, non si rischia un “appoetamento” della società, dove è vero che probabilmente ci sarebbero più lettori, ma che tipo di lettori?
    Detto questo, non sono nemmeno d’accordo su una presunta “superiorità” dello svecchiamento del linguaggio poetico. Perché una poesia che utilizza slang da bar dovrebbe essere “migliore” di una poesia che utilizza un tipo diverso di linguaggio? Se siamo stati capaci di fare un CD musicale 10 in poesia con Petrarca e Foscolo, figuriamoci cosa può venir fuori da una poesia che riprenda (in maniera a-critica e senza possibilità di riflessione e senza preparare il lettore) il linguaggio dei Reality. Cazzo, ci ritroveremmo con una super zizzona che scandisce versi rappati su italia 1… ma forse sono catastrofista.

    In ultimo la critica: appoggio assolutamente la necessità di svincolarsi da un canone che ha 100 anni (ma i canoni sono sempre postumi) e possibilmente da qualsivoglia canone “statico”. Però non concordo con la tua critica dell’approccio al sapere umanistico (che è identico a quello scientifico) quando dici che ti scoccia il fatto che “per dimostrare qualcosa bisogna trovare qualcuno che la abbia già detta”. Deve, a mio avviso, essere necessariamente così. Altrimenti dovremmo partire tutti i giorni dall’invenzione della ruota per poter arrivare a quella del Pc. Esiste la confutazione (popperianamente intesa) secondo la quale una affermazione è vera fintanto che qualcuno non dimostri il contrario. Mi sembra un ottimo compromesso e una ottima soluzione sia al fine di evitare varie ed eventuali tautologie che per una coerente introduzione del nuovo in un processo di svecchiamento del sapere. Che poi sia duro radicare il nuovo su un terreno fossilizzato da ciò che è venuto prima è vero e non c’è dubbio, ma credo sia un altro discorso. O no?

    Luigi B.

  8. Caro Luigi mi fa molto piacere il tuo intervento – mi dà la possibilità di chiarire alcuni punti. In primo luogo parlo di ‘vincere l’omologazione’ propria del linguaggio di massa, attingendo a quelle realtà dove si afferma ‘la creatività linguistica’ – in secondo luogo un italianista può parlare di impoverimento lessicale (è tutto da provare – e con i mezzi della scienza) ma un linguista no. Ogni codice ha pari dignità, è lingua a suo modo (compresi gli stessi dialetti) e nessun linguaggio basta a se stesso – se io dovessi inoltrarmi nella galassia di neologismi che fioriscono nel nuovo italiano non mi ritroverei certo davanti a un linguaggio appiattito come inizialmente sarei portato a pensare. Possiamo, concludendo questo punto, parlare di specificità dei termini, là sfondi una porta aperta: se vorrò parlare della realtà delle navi mercantili entrerò per ovvi motivi nel linguaggio del mondo delle navi mercantili (ed è là che si scopre che persone che non sono ‘studiose della lingua’ sono in realtà latrici di una terminologia specifica, di un gergo, che è al non introdotto è funzione di poesia).

    Per quanto concerne il punto due: analogie tra sapere umanistico e scientifico; io credo che per uscire dalla palude del post-modernismo sia necessario riscoprire una gerarchia della conoscenza: per interpretare un testo devo avere da una parte una conoscenza enciclopedica (conoscere la realtà culturale nella quale il testo è stato steso, per dire – ma non solo, il gruppo sociale che ha partorito quello specifico testo) e dall’altra una di ‘mezzo linguistico’; oltre alla metrica, che rimane conoscenza di tradizione, quelle competenze di linguistica testuale che fanno in sostanza cemento e mattoni di tutta la scrittura creativa. Conoscendo gli strumenti, e non per forza i risultati, si può entrare nella produzione testuale (e interpretare un testo davvero in modo critico, senza falsi incantamenti, al di là di certe affabulazioni). Con ciò, logicamente, non voglio sostenere la necessità di trascendere dalla letteratura ‘esistente’, affermo qualcosa di molto semplice: con tra le mani gli strumenti su cui si basa la comunicazione, e dunque anche la letteratura, l’atto interpretativo si svincola da delle logiche identitarie che non avranno mai spiegazione se non in loro stesse, come mero retaggio. E voglio ribadire, non parlo così perché non sono e non voglio essere un lettore attento di poesia, sono uno di quei poveracci che si comprano almeno due tre libri di poesia al mese, senza contare i periodici specialistici, parlo così per una sensibilità particolare che ho affinato nel tempo. Dove una persona si può emozionare per il riferimento a Catullo (che può anche a me strappare un sorriso, non lo nego) io mi ‘emoziono’ quando trovo un uso consapevole della retorica per dire, o della paratassi, o delle tecniche di scrittura creativa, come uno show don’t tell costruito a ‘modino’, un correlativo oggettivo (Eliot) che non suoni di plastica, un accostamento tra due termini che non cozzi con le regole di fonoloigia dell’italiano solo per dire: guardate questa è poesia!, una accumulazione ben riuscita. Queste per me restano cose preponderanti verso il ‘culturame’ verso il ‘riferimento’, verso il voler a ogni costo essere ultima appendice di quella forma di vita di eliotiana memoria che ha per nome Poesia.

  9. ridico qui un’idea che ho già altrove espresso: non dimentichiamo che esiste anche, e per un poeta soprattutto, il “poetese”, ogni volta che ci applichiamo a “passare al setaccio il linguaggio del mondo”, che va dal politichese al burocratese, oltre che dal barese (dei bar, non degli abitanti di Bari) all’operaiese, al portualese… (il linguaggio delle discoteche, invece, lo tratterei in separata sede, perché quando si parla in discoteca sono sempre spezzoni di discorsi di cui si ha la sensazione di afferrare l’intero, e l’unica forma degna di nota è quella che passa attraverso le scritte nei bagni, che però non sono più forme di oralità… scusate la digressione scherzosa!)

    il poetese, per esempio, è quello che ripropone in forme esauste e snervate l’istituto della rima, talmente esauste da provocare sovente sensazioni di non-suono e di completa estraneità dal dettato – la rima per la rima, non la rima per la costruzione del significato testuale, la rima come valore aggiunto, come epifania fonematica del potenziale linguistico dormiente nel lessema

    il poetese è potentissimo, molto più dei testi che gli autori del Grande Fratello mettono in bocca alla Marcuzzi

    nella composizione delle antologie scolastiche finché si tratta dei secoli anteriori al Novecento prevale ovviamente il copia-incolla dalle antolgie uscite dieci o vent’anni prima- è quando però si arriva alla soglia della contemporaneità che il poetese, quatto quatto, può imporsi come criterio guida nella definizione di un canone

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