Sereniano, anzi no. / “Per ogni frazione” di Davide Castiglione

castiglioneLeggo Per ogni frazione di Davide Castiglione a più di due anni dalla sua pubblicazione, nel periodo in cui la ritualità del “culto dei morti nell’Italia contemporanea” (per usare il titolo di uno splendido libro di Giulio Mozzi di ormai più di dieci anni fa) impone, da un lato, il ritorno alle schermaglie attorno al gruppo 63, nel cinquantenario della consacrazione, e, dall’altro, l’omaggio a Vittorio Sereni, nel trentennale della morte.

È un periodo, in altre parole, in cui è opportuno sfuggire alle dispute più sterili, cercando al tempo stesso di smascherare il doppio binario sul quale queste polemiche, ancora una volta, si trovano a correre – un doppio binario che è stato evidenziato in modo incisivo in questo editoriale di Italo Testa per il numero 11 dell’Ulisse (2008): “Se infatti la fine dell’era dello scontro delle poetiche ha avuto effetti liberatori, affrancando lo sguardo dalla tirannia dei programmi aprioristici e ricentrandolo sulla materialità dei testi, non altrettanta feconda è stata tuttavia la ritirata generalizzata dei poeti italiani dal dibattito d’idee”.

In questo senso, in un saggio recentemente apparso sul Le Parole e Le Cose, Guido Mazzoni ha sottolineato la necessità non tanto di disfarsi delle diverse storie letterarie della seconda metà del Novecento, quanto di storicizzarle meglio: “In realtà oggi possiamo vedere bene che Gli strumenti umani sono perfettamente coevi al Gruppo 63; sono solo un altro modo, meno ostentatorio, più intimo e profondo, di interpretare la stessa eredità – l’eredità del modernismo. A Sereni questa idea di poesia giungeva soprattutto attraverso Montale, Williams e Seferis, e soprattutto giungeva quando lo sperimentalismo non era ancora un genere autoreferenziale, una formula morta, un «poetese» uguale e contrario a quello che si cercava, giustamente, di distruggere”.

Oltre a Mazzoni, molti altri potrebbero essere gli esempi critici, per così dire, ‘virtuosi’. Per il momento, tuttavia, si possono tener presente questi due passaggi, per approcciare un problema che non si può risolvere ancora una volta nella contesa tra ‘sperimentali’ e ‘lirici’ (e nei vicoli ciechi che a questa diatriba sono consustanziali). I due passaggi, infatti, possono risultare utili soltanto qualora se ne verifichi la portata nelle singole analisi testuali, e queste ultime non possono più essere funzionali né allo scontro né al semplice disvelamento di poetiche, bensì devono poter rendere conto di un discorso più ampio e vitale.

Di conseguenza, di ciò che leggo in Per ogni frazione, posso annotare che Castiglione, già studioso, a livello accademico, di Sereni, non si limita a riproporre un epigonismo figlio dell’angoscia dell’influenza. Né Castiglione si attesta su quel reazionarismo conservatore che tende a dissacrare (o a bollare come sterilmente dissacrante) tutto ciò che alla galassia ‘sereniana’ – per estensione: ‘lirica’, anche se entrambe le categorie sono estremamente labili – apparentemente non appartiene. [Apparentemente, appunto, come dimostrano le parole citate di Mazzoni.]

Se certi tratti di Stella Variabile, ancor più che quelli degli Strumenti Umani, risuonano in alcuni passaggi della poesia di Castiglione, è però vero che anche costruzioni linguistiche e sintattiche di altra marca – De Angelis, e in seconda battuta Pusterla – si impongono come matrici. E più ancora, le spezzature della sintassi, in un discorso metrico per altri versi molto fluido, arrivano a postulare piccole – forse anche minime – fratture testuali, nei quali il soggetto sintattico e, di rimbalzo, il soggetto lirico, si perdono, si confondono. “Dopo Sereni, molto altro” – sembra postulare, a ogni passo, Castiglione: storicizzare, dunque, storicizzare meglio.

Così, sto leggermente forzando quanto espresso da Giacomo Cerrai in una precedente nota di lettura: “Interessante è il linguaggio senza particolari torsioni, ma semmai sottrattivo, in modo da lasciare astutamente al lettore dei “fill in the blanks” semantici. Una modalità non nuovissima (anche qui siamo nel solco) ma comunque efficace, perché allarga quella indeterminatezza di cui la poesia si nutre (anche) a beneficio di una lettura “aperta”, attiva”.

Come scrive poco prima lo stesso Cerrai, la poesia di Castiglione ha il “senso del limite di leggibilità”. Se questa formula può risultare forse esoterica – e lo è sicuramente in declinazioni diverse da quelle, estremamente consapevoli, di Cerrai – la sua validità, qui, è pienamente verificabile nell’uso della sintassi da parte del poeta. Spesso con difficoltà e a gran distanza dal presunto inizio, il giro della frase, infine, si chiude quasi sempre. In chiusura, dunque, Castiglione, pur creando consapevolmente una serie di lacune sintattico-semantiche, invita costantemente il lettore a riprendere il filo del discorso, a ri-costruire la propria interpretazione.[1]

Per il momento, non mi addentro ulteriormente nella poesia di Castiglione, ma scelgo, avviandomi alla conclusione, di restare sulla superficie. Sulla superficie del libro in questione, tra l’altro, passando alla quarta di copertina, che aggiunge senso al titolo, Per ogni frazione, con una lunga citazione dal testo “Fuoriluoghi”.

La scelta si deve al fatto che in questo testo si evidenzia la congerie di registri che caratterizza la voce di Castiglione, un’ibridazione che (ancora?) sfugge a una categoria onnicomprensiva di ‘poetica’ e apre, come si diceva a un discorso più ampio e vitale.

Su questa rilevanza mi voglio spendere, non tanto perché, senz’alcuna onestà intellettuale, io voglia tessere qui gli elogi a ogni costo della poesia di Castiglione, sodale con me e Luigi Bosco dell’iniziativa In realtà, la poesia. (Anzi, nei meandri di questa discussione dentro e oltre al testo, si trovano inciampi, piccoli dissensi, avvertenze di un sentire diverso da quello dell’autore).

Mi voglio spendere, invece, per una ragione più seria del do ut des poetico, e che cioè in questo testo ritrovo finalmente la forza di una condivisa militanza, in quello che è lo scrivere “per ogni f(r)azione”. Una sintesi che trovo molto calzante, di questi tempi.

 

Fuoriluoghi

Nel parco di una capitale, di notte
ma non troppo, entro
l’orario affisso. Fa uno «chi sono io?»
___________________________________e l’universo fa
finta di niente
______________ è una docile informità,
rassicurati dall’esito ci si ringrazia da soli.

È fuoriluogo e necessario difendersi,
spiegare la mappa segnando a croce le frazioni
(ce n’è a non finire)
per poi trovare cosa
se non un cartello con nomi astrusi,
astrusi fino al rebus finché a sviarli
c’è meno pace ancora e più alberi

e troppa notte per definire o informare

– quando il perché dei confini
è puntarseli addosso.


[1] A questo proposito, su un punto soltanto sento di divergere da Cerrai: se si attribuisce, correttamente, questa impronta autoriale alle ‘genealogie poetiche del secolo scorso’, questa stessa collocazione, nel presente, induce nuovi spunti di riflessione, collocandosi in una zona intermedia tra la scrittura “di ricerca” e quel neolirismo che oggi, come giustamente si legge in alcuni recenti saggi, coltiva l’illusione di una referenzialità diretta e immediata.

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