Quanto l’anima abbia da temere: su “L’anima tema” di Federico Federici

 

di Viviana Scarinci

 

“L’universo è un fantastico balocco di parole, equilibrio invisibile dei più sottili pesi, e di forze inaudite ma invisibili, di termini primi e termini ultimi da scarnificare, tormentare, consumare girandoseli in bocca, gioendo come passeri della briciola che non è pane.” Federico Federici       

Se un catalogo servisse a mostrare ciò che l’anima debba temere, racconterebbe forse la storia della degenerazione di una stella. Nella relatività generale “un buco nero è una singolarità nello spazio-tempo, causata dal collasso gravitazionale di una stella di una certa massa, che non lascia sfuggire più nulla al proprio orizzonte degli eventi (Federico Federici). Si può forse azzardare allora che un buco nero, sia una stella cioè un’entità celeste visibile, che per via di un dato evento, prosciuga il suo corpo, iniziandosi alla sua scomparsa. Ciò sembra accadere ad alcune stelle di grande superficie, che a un dato punto della loro esistenza, come ubbidendo a un’intima galvanizzazione, si contraggono, per via dell’attrazione che ogni loro singola particella attua verso le altre se stesse, che insieme fanno l’astro. Questo moto pare generare nell’atmosfera intorno alla stella, un particolare trattenimento, che influisce sulle azioni e sul tempo, creando un orizzonte isolato e indipendente che lascia l’astro vivere solo della sua progressiva scomparsa all’occhio che la osserva. L’anima tema di Federico Federici inizia, similmente a questo fenomeno, come se tutto si fosse già esaurito secondo una sua propria maturazione, in un punto di osservazione in cui l’accaduto, più che essere dipanato, sia stato concentrato in una contrazione in cui luce e spazio, esistono inscindibili dal tempo. E creano una sorta di ambiente assoluto, un inizio fine a se stesso, un trattenimento inàne delle coordinate di un luogo. Il luogo è una casa, una “casa vuota” con un “lume dentro il vetro” (pag. 14) che forse accenna una presenza, forse definisce un’assenza o concentra soltanto l’attenzione, in un’aura di estremo contatto. È questa la condizione della casa del poeta. Una condizione sempre esistente, nella misura in cui viene nominata ma che se non detta, mimetizza le presenze immateriali e la possibilità di contatti ulteriori, in un vuoto che rende altrimenti quel luogo disabitato. Ma ora, qui finalmente, “l’angelo ammirato attentamente nel dipinto” (pag .15) può suggellare  la stanza al suo centro liquido, come iniziandola a un varco. È l’incipit. Il risveglio e lo stabilirsi di una veglia  puramente auditiva che finalmente rende al luogo il cuore della sua geometria. Da questo orizzonte, gli eventi mutano in una zona visibile solo poeticamente, perché la  resa di una simile densità accade solo in poesia. Quando  il corpo poetico inizia la caduta nella fisica della sua anima. E quando ciò accade in modo perfettamente conscio, avviene un’assunzione di presenza in un tempo inesausto “un tempo andato altrove” (pag. 17) che olia l’ingranaggio dell’ora stante, e dice di una impossibile fede “che dura un attimo” “sopra il male” (pag. 17); un male che anche minimamente cruento, strazia di pena e uccide ogni credo, e ciò giusto in quel protrarsi dell’attimo all’infinito, che è il verso che lo dice. È a questo punto di sintesi estrema, come a dimostrarsi fattivamente e attraverso se stessa, che la poesia si erge a quell’infinità sospesa e immediata avvalendosi di un tempo che non ravvisa etica. Un tempo che si colloca spontaneamente al colmo del suo stesso movimento “sempre l’apice lo stremo del crepuscolo/ci approssima la notte:” (pag. 18) e di qui accosta la speciale captazione che chiamiamo ascolto. Quando, questo, non sia smarrito nella diramazione del giorno, che schiude sempre parti, a generare e degenerare notti per pura necessità, solo perché luce e buio sono “uniti senza origine nel moto” (pag. 18). Allora “l’aria ferma” (pag. 19) che Federici nomina, sembra essere un’impressione legata al climax di tutta l’opera, ciò che consente di esperire il vuoto, attraversato fissamente dai corpi che propagano oltre la propria forma un afflato indecifrabile che sta a misurare gli interstizi, i silenzi, come fossero il messaggio più pregnante che si possa tra creature. Ma certo questo paesaggio asciugato dal superfluo delle azioni, non poteva essere ricreato in assenza di parola. È la parola che introduce a un altro grado la visione di quel “mondo,” che “ne matura il senso” (pag. 20) cui tutto e tutti sembrano partecipi. Parola che ogni cosa detiene indistintamente come una rimembranza o una dimenticanza che sembri adattare o disattendere quanto del mondo stesso appaia: “non così che si conserva/l’apparenza delle cose” (pag. 21). Apparenza che vive dell’esatta tempistica della sua dispersione e che perciò, al di là del suo aspetto effimero, può rimanere, in un verso, come rivela Federici: “tiepida nel palmo/pura quando fu toccata” (pag. 21). Ma quanto l’anima abbia ragione di temere, riguardo questa scomparsa, che sembra paradossalmente l’unico movente veramente assertivo della sua presenza al visibile, lo dice, la caduta di ogni gesto, nel trattenimento fatale di un orizzonte che si incunea sempre di più “nel vivo della storia” (pag. 22), un trattenimento fino alla percezione che concentra ogni idioma in un unica lingua in cui, dei vivi e dei morti “restano confusi i nomi” poiché sia “mai nessuno perso nel conto della grazia” (pag. 24). E ciò consenta comunque, in questo passaggio inaudito, a coloro che il poeta chiama, fratelli e sorelle, e che “restano in colmo all’invisibile” (pag. 25), di affacciarlo, come a guardare il come questo avvenga, come la poesia ripieghi nella “luminosa piaga” che scava il fuoco, coniando parole in cui l’origine cominci in luce, nominata (pag. 26), e in ogni istante renda a ognuno rintracciabile “nei cuori l’atto di presenza” (pag. 28). Una presenza dei cuori alle cose, la cui impossibilità, è forse davvero l’unica cosa che l’anima abbia da temere.

(già su La dimora del tempo sospeso)

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