La continuità dell’esserci. Nota su “Etcetera” di Maria Grazia Insinga

Con “Etcetera”, Maria Grazia Insinga presenta una raccolta la cui vivida frammentazione narrativa è indissolubilmente congiunta a un diffuso dato emozionale che emerge tra e dentro le parole.

Le cinque brevi sezioni (intitolate: “Il mostro”, “La dea”, “La bestia”, “L’avvelenatrice”, “Sigillo”) mostrano propensioni a un raccontare frantumato nel cui àmbito la sensibilità della poetessa svolge un ruolo aggregante.

Non siamo al cospetto di piccoli tratti isolati, né di rottami derivanti da drammatiche conflagrazioni, siamo di fronte, piuttosto, a un divenire idiomatico la cui evidente enigmaticità trova in un partecipe, sofferto, evocare la ragione del proprio procedere.

Insomma, il dire di Maria Grazia rimane integro nelle sue peculiari articolazioni.

Ciò che non si sa (e che potrebbe restare ignoto per sempre) esiste oppure no?

Da quante entità non conosciute siamo circondati?

Quali effetti hanno su di noi?

Quali sono le più specifiche caratteristiche (e, dunque, anche i limiti) del sapere?

Sono questi gli impliciti interrogativi che, talvolta, affiorano in maniera palese, come nei versi:

“il possibile non diventa impossibile
l’impossibile invece è già una possibilità”.

D’altronde la pronuncia

“C’era l’animale che non c’è
che non cede pietà alla vita
e così anch’io nel dinamismo
al guinzaglio che non c’è”

chiama direttamente in causa il concetto di essere (o, meglio, di esserci) in un’enigmatica sequenza in cui il canone logico è sconvolto e, proprio per questo, in qualche modo persiste.

Ben consci dei limiti del linguaggio (compreso quello poetico) appaiono i versi:

“la beatitudine supera
la vocazione alla beatitudine
non posso essere più precisa di così”.

Versi in cui il desiderio di precisione incontra l’ostacolo di un dire che sembra replicarsi in un’evidenza non banale, pregnante, consapevole.

Il mondo è dicibile?

Sì, ma fino a un certo punto e proprio lungo taluni confini la parola mostra la sua tipica natura d’entità espressiva in bilico.

Per Maria Grazia porsi il problema del parlare è già parlare, poiché per lei non esistono presupposti esterni al linguaggio.

E allora?

E allora non resta che prendere atto e procedere poiché tale è il nostro destino e, assieme, il nostro desiderio:

“è solo oscuro il baio
_____e puro scalpita
_____e non ho finito”.

No, la poetessa non ha “finito”: non resta, perciò, che attendere le sue prossime prove consci di come anche noi, poiché viventi, non abbiamo ancora finito.

Consoni ai testi, gli acquerelli di Alessandra Varbella delineano, con affascinante delicatezza, confini ed equilibri intensi ed evanescenti.

Marco Furia
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2 Comments

  • Frammentazione apparente quella di Maria Grazia, dov’è, per me, il rovesciamento del tempo, il dirompersi di sponde linguistiche gravitazionali al seguito di impeti e assunti. Un qui e altrove, un ora perché era (oppure è ancora allora lo dice/se lo chiede) il perdurare della raccolta indisturbata nel vento dell’essere. E poi il catalogare ogni percezione e persistenza di infinitesimo per nome, compresenti in lei, nel suo mondo, quanto somiglia al nostro (se lo si vuole) e quanto immortale la precisione dell’impossibile. Che il possibile non è una possibilità.

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