Sulla poesia esodante. Intervista di Ezio Partesana a Ennio Abate

gigarte_opera_36563

Questa intervista è il risultato di un amichevole e fertile duello tra me e Ezio Partesana, filosofo agguerrito, uomo di teatro e poeta tuttora in disparte e “in clandestinità” (quasi quanto me). Partendo dal mio saggio «Appunti – Per una poesia esodante. Sulla ex-piccola borghesia o ceto medio in poesia» e dalle «Quattordici tesi per una poesia esodante» del settembre 2012. Ezio mi ha incalzato con una serie di domande mirate soprattutto a scandagliare i punti che più potrebbero interessare un lettore esigente, non frettoloso né compiacente. La prima domanda porta la data del novembre 2012, l’ultima del luglio 2013. Ne è uscito un testo  più che meditato, che spero dica di lui e di me e di una comune esigenza di rigore e sincerità.  Lo pubblico suddividendolo in  sezioni e premettendo  brevi indicazioni sui temi trattati. [E.A.]    

 

I

Ipotesi di lavoro, padri e compagni di strada, correnti poetiche odierne.

Caro Ennio, prima di cominciare a parlare del contenuto del tuo saggio, vorrei farti una domanda di carattere più generale, che è questa: il tuo è un tentativo di descrivere una situazione di fatto, di descrivere un certo tipo di poesia che già esiste e della quale vuoi mettere in evidenza alcune caratteristiche, oppure si tratta di un vero e proprio “manifesto letterario”, un appello basato su criteri etici ed estetici?

No, non descrivo una situazione di fatto. La mia è soltanto e da tempo (dal 2000 circa) una ipotesi di lavoro. Se vuoi, è un segnale che continuo a trasmettere ad altri in assenza di ricezione attendibile. Ciò non mi incoraggia. Come pensare a un manifesto letterario, che presupporrebbe un gruppo promotore relativamente coeso o in buona sintonia? E poi non siamo – credo – in epoca di manifesti, né politici né poetici.

Se si tratta di un’“ipotesi di lavoro”, prima di addentrarci in quel che scrivi, puoi indicarci brevemente quali siano, o possano essere, i “padri”, gli antecedenti o i “compagni di strada” di questa tua intenzione?

Innanzitutto e senza esitazioni Franco Fortini, per me riferimento mai venuto meno dal ’78 in poi. Da lui ho assorbito un’attenzione inquieta al rapporto tra poesia e realtà (in particolare nei suoi risvolti storico-socio-politici). Sul lascito principale di problemi fortiniani hanno però interferito influenze precedenti e successive. Per limitarmi solo agli scrittori, farei i nomi di Verga, Pavese, Proust, Joyce, Brecht, Majorino, Ranchetti.

Si vede forse una linea, per quanto tortuosa, tra i nomi italiani che citi, mentre un po’ più difficile mi viene immaginare che cosa possa legare gli scritti di Brecht, per esempio, a quelli di Proust… ma questo lo capiremo meglio addentrandoci nelle idee esposte nel tuo saggio. Per intanto volevo chiederti se non ci sia nessuno tra chi scrive poesia oggi, tra i viventi intendo, che tu consideri un interlocutore, seppur magari solo interiore e privato.

Questa domanda mette a nudo un dato per me dolente: un mio prolungato isolamento rispetto ai poeti viventi. Non vorrei, però, esagerare perché  alcuni amici poeti, noti o poco noti, con cui qualcosa scambio ne ho: Majorino, Neri, Ferrieri, Salzarulo, Simonitto, Corsi, Linguaglossa, Partesana stesso…).  Ma un interlocutore affine e privilegiato – magari un critico invece che un poeta -, che pur vorrei, non l’ho trovato.

Ah… ci sarei anche io tra gli “esodanti”! Va bene, faremo finta di non aver sentito… C’è un punto, nel tuo scritto, che mi interessa particolarmente (lo vedremo tra poco), ed è quello dove ti sforzi di individuare la classe, per così dire, dei possibili autori e interlocutori di una poesia esodante. Vorrei chiederti, per completare questa prima ricognizione sul tuo universo di riferimenti, se a partire dalle stesse premesse si delineano anche altre “correnti” poetiche che tu ritiene valide o almeno degne di nota?

La situazione della poesia italiana è oggi talmente confusa e il lavoro della critica su una produzione spuria e mal indagata così in ritardo che mi pare difficile distinguere vere e proprie correnti. Siamo immersi in una “nebulosa poetante”, estesasi ora anche sul Web.  Delle sue dimensioni e della qualità, varietà e singolarità di voci è difficile l’accertamento. Anche i poeti più in vista possono essere classificabili solo con categorie approssimative. E dopo il «Gruppo 63» i tentativi di darsi un programma (come fece, ad esempio, il «Gruppo 93») sono stati rari o non sono neppure decollati. Abbiamo, sì, varie antologie, che inseguono e selezionano come possono la produzione arrivata alla pubblicazione, ma, quando l’attenzione non si riduce alle cerchie amicali più vicine, si muovono davvero faticosamente. Un’antologia accademica ma abbastanza seria che ho letto risale al 2005. Si tratta di «Parola plurale» di autori vari coordinati da Andrea Cortellessa. Selezionava 64 autori nati tra il 1945 e il 1975. A dimostrazione di quanto sia improprio parlare di correnti, li raggruppava in categorie lasche del tipo: «Il domestico che atterrisce. Tematizzazioni del quotidiano», «Stili semplici», «Deformazioni. Comico, grottesco e altre vie», «Dialetto e post-dialetto». Poi ci sono alcuni tentativi di solitari e generosi outsider, come Giorgio Linguaglossa, ma passano quasi sotto silenzio e sono tenuti dai mass media e dall’accademia come in ghetto, “invisibili” loro e i poeti che seguono.

 

II

Legami espliciti o impliciti con la storia, strumenti per una rottura

Forse avremo modo di tornare su questo punto in conclusione di intervista,  ma adesso vorrei cominciare a entrare nel vivo di quel che scrivi a proposito della “poesia esodante”. Che la poesia vada “misurata con qualcosa di esterno alla poesia”, mi sembra un’affermazione evidente, quasi un postulato; c’è però un punto dove tu parli di “misurare una poesia dai suoi legami espliciti o impliciti con la storia”, e vorrei chiederti: riusciamo a tratteggiare una prima “mappa” di questi “legami impliciti”? A cosa stai pensando quando li affianchi o contrapponi a quelli espliciti?

Per “legami espliciti” tra poesia e storia intendo in primo luogo quelli che la poesia intrattiene con tutto il sistema dei saperi umanistico-scientifici. E poi quelli con tutti i linguaggi (gestuali, visivi, simbolici, astratti)che sono delle vere e proprie correnti oceaniche. Ma non basta. La poesia è legata ai  corpi. I poeti stessi sono corpi che interagiscono con altri corpi (di singoli, di gruppi, di folle; e ci metterei persino i corpi “istituzionali”…). E poi non ha forse legami col tempo? Con gli anni in cui quel determinato poeta vive, ma pure con gli anni o i secoli che il poeta riesce a riassumere in sé, quando accoglie ora una Tradizione durata a lungo o ora solo pochi anni “rivoluzionari”? Quindi la mappa dei “legami espliciti” potrebbe essere cercata in un conglomerato che potrei chiamare: poesia-saperi-linguaggi-corpi-tempo(esistenziale,storico). Tali legami, però, diventano “impliciti”, se occultati, velati, ridimensionati, trascurati da quanti pensano la poesia come fosse o dovesse essere la negazione della storia o del “reale”. Per costoro il testo varrebbe soltanto “in sé”. Più esso ha “dimenticato” le sue radici(esistenziali, storiche) o  più esso attinge a ben altre radici (sogno, inconscio, Altro) più sarebbe poetico. Eteronomia e autonomia della poesia, insomma. Per esemplificare i due poli farei i nomi di Brecht e Mallarmé.

Quindi, se ho capito bene, “impliciti” nel tuo scritto sarebbe sostituibile con “non esplicitati”; vorrei allora chiederti quali siano gli strumenti di chiarificazione o, detto altrimenti, se tu scrivi che: “La poesia esodante è il tentativo di rompere gli steccati […] in cui oggi sta una certa poesia”; vorrei tu indicassi in primo luogo quale sia la necessità (anche politica, naturalmente) di questa rottura e, in secondo luogo, quali siano gli strumenti attraverso i quali questa rottura dovrebbe consumarsi.

Vedo la poesia italiana d’oggi adagiata o peggio succube della crisi (generale e non solo economica). Anche le buone cose che si scrivono in un mare di tentativi più confusi e banali mi paiono venire da “cellette monacali”. Il dibattito, quando c’è, sul Web ad esempio, è un carosello ininterrotto ed effimero, incapace di pause di riflessione e di sia pur provvisori bilanci. Lo vedo promosso per lo più da giovani che cercano  il loro “spazio vitale”. Ma a me pare che si autoconsumi per assenza di dialogo vero con altri interlocutori. I poeti con più esperienza, ad esempio, tacciono o continuano a farsi “le loro cose” tenendosene alla larga (e non sempre per buone ragioni. Non vedo posizioni ambiziose, capaci di misurarsi almeno sulla questione forse più urgente: se, in poesia, la globalizzazione comporterà uno sfaldamento completo dei residui recinti delle (ex) “patrie lettere” o susciterà una resistenza “nazionale” al postmodernismo cosmopolita americanizzato. Si ripercorrono invece sentieri già battuti (neo-orfismo, post-avanguardismo, mito-modernismo, “poesia civile”). E non ci si ascolta. Non ci si dà credito (reciprocamente). Per lo più si affrontano i problemi ammessi nella propria ristretta cerchia di “amici” o di “parrocchiani”. (Se segui un blog, dopo un po’ vedi che i commenti sono sempre quelli dei “fidelizzati”). Tutto ciò mi fa pensare a un sabotaggio inconsapevole, a una rassegnazione da epigoni. O comunque a un rifiuto di assumersi responsabilità di fronte alla crisi che incalza e si prolunga. Non so se si possa parlare di necessità di una rottura. Non vedo, infatti, energie decise a vere rotture (che andrebbero  pensate innanzitutto). In campo poetico poi non so neppure quanto sia auspicabile una forma generica e confusa di rottura, specie dopo le avventure (o disavventure) paraistituzionali della neoavanguardia. Un “grillismo” in poesia sarebbe scelta infelice. Personalmente ho continuato a tentare di fare gruppo o laboratorio, ma è stato un mezzo fallimento. L’idea di  una poesia esodante non interessa. È rimasta un mio tic.

È rimasta in sospesa la parte della domanda che riguarda gli eventuali “strumenti” di una rottura… Anche se la tua adesso è una visione piuttosto sconsolata della “patrie lettere”, così come dei “patri lettori”, vuoi comunque delineare, per favore, attraverso quali mezzi si potrebbe  consumare questa rottura? Intendo chiedere: si tratta più di organizzazione della sfera del consumo della poesia, e quindi della sua funzione sociale, o pensi al momento produttivo, e quindi a elementi propri di quel genere letterario che chiamiamo poesia?

Ripeto. Non ho indicato «gli eventuali “strumenti” di una rottura» perché, nella confusa crisi che viviamo  dopo l’eclisse di qualsiasi Progetto “forte”, evocare o auspicare genericamente delle rotture in assenza di  soggetti chiari e affidabili mi pare un azzardo. Se ci troviamo al buio, meglio non agitarsi. Tanto più nel campo della poesia. Anche qui le conclusioni di certe rotture “rivoluzionarie” (ancora la neoavanguardia!) le abbiamo pur viste. Si sono avute mere spartizioni, del tutto ”endo-accademiche”, del potere culturale: al tradizionale baronato universitario s’è associata una quota di nuovi baroncini (anche sessantottini),  tra i più svelti a  legarsi, qui in Italia, prima all’industria culturale e poi a quella dello spettacolo. E oggi la sfera del «consumo di poesia» è del tutto congeniale a un «momento produttivo» sì, ma direi di poesia “per universitari”. La produzione e la distribuzione dei testi poetici vengono amministrate secondo una logica complementare e pseudo-gerarchica: una nicchia gratificante per la poesia “alta”; e un’altra – imitativo/”alternativa” – di poesia/similpoesia/falsa poesia. Di consumo, appunto. E che ora defluisce nei canali disordinati e in via di espansione delle piccole case editrici, dei festival, dei siti Web. C’è quasi da ritirarsi e tacere. Mi appare generosa ma scaduta persino l’ipotesi fortiniana di «ecologia della letteratura»; e ti ho detto del mezzo fallimento del «Laboratorio Moltinpoesia», con il quale ho cercato ancora di coniugare poesia e critica e far confrontare i discorsi elaborati nei cosiddetti livelli “alti”  con quelli elaborati nei cosiddetti o realmente livelli “bassi”. Non vedo quasi più punti d’appoggio per un intervento di gruppo. Perché – ripeto – soggetti, capaci non di consumare ma di usare/riusare criticamente la poesia (passata e presente) in vista di un possibile nuovo progetto, non se ne vedono. Che «un esodo dalle forme istituzionali consolidate» (da tutte, comprese quelle che “istituzionalizzano” la “rottura”) possa avvenire solo alla spicciolata? Sperando almeno di evitare sia gli eremitaggi orgogliosi dei singoli sia le derive da gruppi “tribali” che comunque si formano?

III

Esodo come fuoriuscita, esempi

Capisco… è per questo allora che hai scelto il termine “Esodo”? Se la risposta è affermativa mi rimane però un dubbio che la derivazione filosofica della parola da te usata da, diciamo, Toni Negri, non chiarisce: la fuoriuscita è solo dalle istituzioni poetiche, quella che potremmo chiamare la sfera della circolazione della merce-poesia, o anche dalla poesia in quanto tale? Ti domando, insomma, se credi si debba uscire dalle contraddizioni della poesia verso qualche cosa d’altro, e se sì, cosa?

La parola ‘esodo’ ha un affascinante alone, soprattutto biblico e più recentemente politico-filosofico (Walzer soprattutto; e poi da noi Negri, Virno ed altri). Vorrei però, senza respingerlo del tutto, che restasse sullo sfondo del mio discorso. E perciò, più terra terra, partirei da  alcuni versi finali di una mia poesia, intitolata appunto Esodo: «Nell’esodo dunque. / La tana di sempre sfondata. / La gabbia approntata da secoli / aperta, finalmente deserta…». Non li commento o spiego. M’interssa quella immagine della gabbia. In essa vedo adagiata anche una certa poesia: quella cortigiana che produce la merce-poesia, mentre la poesia più inquieta – romantica o critica – ha tentato sempre di uscirne. E, in certi momenti eccezionali, ha persino, come tu dici, voluto uscire «dalla poesia in quanto tale». Verso cosa? Più di un trentennio fa, azzardando, avrei ancora dato un nome alla «cosa». Avrei detto: comunismo. Oggi il nome manca. Non dico che ci sia una rinuncia generalizzata e definitiva ad ogni forma di esodo. In giro non vedo solo resa. Possiamo negare, però, che i tentativi di sfondare la gabbia, oltre che falliti, non abbiano (più? ancora?)un nome; e che siamo in gravi difficoltà?

Scusa se ti interrompo, ma credo sia necessario a questo punto un chiarimento sul termine “esodo”; io l’avevo interpretato come “fuoriuscita”, l’atteggiamento, diciamo così, di chi pensa che il confronto sia falsato, o che non sia “lì” il vero punto, e abbandona quel luogo per eleggerne un altro (più corretto e centrale) al suo posto. Ma dalla tua ultima risposta sembrerebbe che tu abbia in mente una sfumatura diversa quando parli di esodo e esodante

No, anche per me esodo è “fuoriuscita” proprio nei termini da te indicati. La sfumatura diversa tra noi consiste forse nell’accento. Io lo pongo sull’assenza (o opacità) dello scopo da raggiungere (e, perciò, anche del nome per designare tale scopo). Potrei quasi dire che siamo oggi come atleti proiettati ancora in una corsa, ma che si accorgono d’un tratto che il traguardo non si vede più o, addirittura, che stiamo avanzando su un terreno non più fermo come ci pareva prima. Da qui la reale difficoltà (più che l’incertezza) nell’abbandonare quello che pur vogliamo abbandonare. Ho vari e vecchi disegnini miei,  in cui si vedono degli omini (aggiungerei ora: esodanti) in una difficile posizione di dinamismo frenato o impacciato. A me pare di cogliere questo dramma  persino in alcune formule usate dagli studiosi di Marx. Ricordi il Marx oltre Marx di Negri, che sembra suggerire un oltrepassamento che ripropone la cosa oltrepassata? E  La Grassa non continua a parlare di «uscire da Marx dalla porta di Marx», insistendo al contempo su quanto sia  arduo indicare «l’altra  strada»?

Quindi “esodo” per uno scopo? Continuo a credere che il termine possa dar luogo a equivoci, ma per chiarire, a noi stessi in primo luogo e poi anche a altri, il concetto, forse è più semplice che tu ci mostri qualche verso e ci faccia vedere questa uscita dalla poesia…

Non dispongo di prototipi di poesia esodante da mostrare (le mie tesi, infatti, s’intitolano banalmente Per una poesia esodante…). Posso, però, scegliere la poesia di un autore in cui scorgo tratti o buone premesse per avviarsi a una poesia esodante.

Leggiamo questa poesia di F. Fortini:

Gli ospiti

I presupposti da cui moviamo non sono arbitrari.
La sola cosa che importa è
il movimento reale che abolisce
lo stato di cose presente.
Tutto è divenuto gravemente oscuro.
Nulla che prima non sia perduto ci serve.
La verità cade fuori della coscienza.
Non sapremo se avremo avuto ragione.
Ma guarda come già stendono le loro stuoie
attraverso la tua stanza.
Come distribuiscono le loro masserizie,
come spartiscono il loro bene, come
fra poco mangeranno la nostra verità!
Di noi spiriti curiosi in ascolto
prima del sonno parleranno.

Tenendo sott’occhio le mie «14 tesi» (di cui citerò tra virgolette dei passi), mi pare di trovare, in buona parte e soprattutto nei primi otto versi di questa poesia, molti punti in sintonia con la mia idea di poesia esodante.

Li riassumo quasi a mo’ di titoli:

– attenzione vigile a «pensare l’orrore del mondo e della storia» che viviamo e subiamo, ma allo stesso tempo convinzione che «pensare in poesia l’orrore del mondo non può significare cedere a tale orrore, al  Niente». (Vedi qui il verso: I presupposti da cui moviamo non sono arbitrari), anche se Tutto è divenuto gravemente oscuro);

– sforzo di destarsi dal «sogno della poesia» (non esiste in questi versi nessun abbandono all’«oasi di piacere-libertà-bellezza della Poesia». Piuttosto piena consapevolezza che la poesia, di per sé, non è libertà. E – aggiungerei – che i poeti esodanti «sanno di non essere liberi». E che, quindi, devono anche “uscire dalla poesia” (se questa finisce per combaciare con la gabbia di cui dicevo prima); ed essere, in altri termini, poeti-critici, evitando la dissociazione impostasi – direi dopo gli anni Settanta del Novecento – tra poesia e critica;

– tenacia nello stare addosso alla realtà  e ai conflitti sociali (La sola cosa che importa è / il movimento reale che abolisce / lo stato di cose presente); il che non comporta una ottimistica o volontaristica «ripresa dell’impegno (etico, politico) in poesia». In questi versi, anzi, si insiste  sia sulla  necessità  destruens (Nulla che prima non sia perduto ci serve) sia sulla modestia e l’assenza di tronfiezza e sicumera nel lottare: Non sapremo se avremo avuto ragione»;

– la  capacità di «maneggiare la politicità del linguaggio» mira interamente a un dialogo, a un discorso persuasivo e problematico, da condurre tra persone che agiscono nella storia e hanno problemi da affrontare in comune; da qui un lessico concreto, la solida sintassi, la coincidenza tra metrica del singolo verso e frase compiuta nei versi più asseverativi: I presupposti da cui moviamo non sono arbitrari; tutto è divenuto gravemente oscuro; La verità cade fuori della coscienza);

– la scelta di muoversi in una zona lirico-politica, che io chiamerei dell’«io/noi», evitando sia il puro lirismo, sia il discorso politico diretto; anche perché questo poeta «sa che la realtà sfugge alla forma»; e lo ricorda qui  nel verso: La verità cade fuori della coscienza.

Ecco, resterebbero da aggiungere oggi – ma in questo contesto è secondario – alcune mie riserve verso il contenuto “utopico” presente nell’ultima strofe, che evoca, sia pur sobriamente, un’allegoria di comunismo.

IV

Metrica sì, metrica no.

Ci sono due passi della tua analisi che mi paiono particolarmente interessanti e, forse, da chiarire meglio, e si tratta degli ultimi due, ovvero della zona lirico-poetica e l’accenno che fai alla metrica.
Cominciamo dal secondo e vorrei chiederti: nelle tue tesi non mi pare sia presente una particolare attenzione né alle forme della poesia (dal sonetto alla ballata, per intenderci) né alla metrica; è perché ti paiono discorsi poco interessanti rispetto a una “poesia esodante” oppure vuoi cogliere l’occasione di precisare meglio il tuo punto di vista?

In effetti – ho controllato – il termine ‘metrica’ manca nel mio scritto. In tutta sincerità sull’argomento c’è da parte mia una “controllata” rimozione. Da una parte nella mia formazione scolastica la metrica come sapere specialistico dei metricisti restò per me come la matematica: un sapere di cui riconosco in astratto l’importanza e persino il fascino, ma che mi respinse per i suoi tecnicismi. Anche nei discorsi interessanti e da me condivisi (in particolare ho cercato lumi negli scritti di Fortini e specie in Metrica biografia) non sono mai riuscito a trovare spunti che mi appassionassero fino ad entrare consapevolmente nella mia pratica poetica. E certe letture di manuali scolastici (ad es. di Ramous) le ho fatte sempre con un atteggiamento scrupoloso ma in fondo scettico, come di uno studente ormai adulto e arrivato in ritardo alla lezione. Tutte queste letture sono rimaste come in sospensione. Non le ho “incorporate“. Mi resta dunque un buco. Le ho voluto tenere fuori (contraddittoriamente) dalla  mia pratica di poeta? Oppure ho lasciato che le loro suggestioni sedimentassero in profondità per conto loro? Non so dirlo. In conclusione, sento che una metrica reale nelle mie poesie pur c’è, ma potrebbe essere evidenziata  soltanto con uno studio sistematico (mio, ma non ho mai trovato tempo per farlo; o d’altri). Di  sicuro c’è che sono rimasto estraneo sia alle metriche “anarchiche” dell’ultimo Pasolini o dei neoavanguardisti sia ai tentativi di ripresa dei metri “classici”. Questa è la mia  esperienza. Che conta quanto può contare un caso singolo. E tuttavia conferma, mi pare, il venir meno tra una buona parte dei praticanti la poesia del secondo Novecento di una solida conoscenza della metrica tradizionale (o “dei metricisti”). È  solo un limite, un deficit? O, facendo di necessità virtù, stiamo procedendo a tentoni verso altre metriche? Il dibattito, per quel che ne so, seguendo le ricerche di Paolo Giovannetti e di altri studiosi, è del tutto  aperto.

È curioso che tu indichi la metrica come elemento rigido, formale. Certo lo sforzo e lo studio che si richiederebbero per apprendere qualche rudimento di quella classica (chiamiamola così, per quel che serve a noi adesso per intenderci) sono impegnativi, e pur tuttavia mi viene in mente subito che ritmo e metro dovrebbero far parte del canto della poesia, della parte seduttiva, non-concettuale, come la rima nelle filastrocche dei bambini. Quindi vorrei chiederti: nella poesia esodante che tu stai cercando di immaginare e scrivere, il potere seduttivo della poesia è sempre negativo, illusione di un bene che non c’è, oppure ha anche altri volti dei quali non abbiamo ancora parlato?

Sarà curioso, ma è così. Per me (e forse per molti altri).  Non si tratta di rifiuto dello sforzo o dello studio. E almeno i rudimenti della metrica classica ce l’ho pure io. Sto solo dicendo che restano inoperanti oppure operano in me a livelli profondi e più inconsapevoli, che non saprei ora illustrare o teorizzare.  Li avverto dopo.  Faccio l’esempio di  alcuni versi miei in dialetto:

Sette ‘e figlie e zi’ Assuntine.
Franch’Alfane, e frate e sore,
o primm’ere e tutt’e quante. 

Franch’Alfane, o raggiuniere!
Proprie n’zicch’a Lungomare,
n‘front’ e palme, n’front’o mare, 

mamma noste quacch’e vote
pe parlà cu stu nipote
dint’a banche nge purtave 

Non mi pare che manchino le rime da filastrocca, il ritmo è quasi cantabile e ho usato persino la terzina. Ma il tutto è venuto fuori “quasi da sé”. Non pretendo comunque di abolire o rinnegare  il potere seduttivo della poesia, ma non mi propongo l’obbiettivo di sedurre. A me preme una cosa: partire da un “garbuglio” iniziale, da parole venute fuori “di getto”. E non da un programma (“adesso provo a scrivere un sonetto”) o da un chiaro e consolidato schema metrico divenuto per me abituale. Punto alla “cosa” (l’immagine-pensiero, la figura), ma senza averla chiara in mente o intravvederla attraverso un modello approssimativo o regolativo che inforco come fosse un paio di occhiali. La costruisco man mano: per approssimazioni, correzioni, cancellazioni, ripensamenti a distanza di giorni. E, quando la raggiungo,  vedo che  metrica è venuta fuori e di quanto s’avvicini o s’allontani da quelle altrui. (E allo stesso modo opero in pittura, che pratico: raramente ho fatto “copia dal vero”, parto sempre da uno “scarabocchio” di  linee o colori). Questo è il mio modo di stare in poesia. Ad esso, negli ultimi decenni, ho dato il nome di poesia esodante, supponendo di poter riconoscere pratiche somiglianti alla mia in altri e ipotizzando un possibile incontro/confronto dei vari percorsi. Penso, tra l’altro, che l’esodo  sia oggi (per me, per altri) proprio un ritrovarsi in un “garbuglio”. Perché è imposto da situazioni d’emergenza; e, dunque, non è un percorso programmabile e, come detto, non ha (per ora?) una meta. I modelli sedimentatisi nella memoria – oscuri fantasmi o ricordi più netti – possono sia agevolarci che ostacolarci. La ”cosa” da afferrare, da costruire, alla quale dare forma, è innanzitutto l’esodo stesso. La questione, che tu poni – se il potere seduttivo che la poesia ha sempre avuto sia da salvare o da respingere – mi pare secondaria. Passerà nella poesia esodante da fare o da immaginare? O gli aspetti ascetici, duri, drammatici o magari tragici (calchi spesso fin troppo fedeli delle realtà storiche in cui  si resta a volte schiacciati) vi prevarranno e lo diminuiranno? Non so dirlo. Resta per me che l’immaginazione stessa di altri “volti” della poesia ora incogniti, per irrobustirsi e non  annegare nelle astrattezze dell’utopia, ha da fondarsi su rapporti sociali che devono diventare – e non è certo – più elastici e dinamici. L’esodo, poi, non può essere solo quello immaginabile e praticabile dai poeti, spesso portati ad un utopismo astratto o semplicemente capriccioso. In questo mi sento ancorato al vecchio Marx che non voleva sprecare tempo a immaginare la futura società comunista.

V

Sfera della circolazione della poesia oggi, possibile diffusione di una poesia esodante

Bene. Mi sembra che abbiamo discusso sufficientemente di come tu veda la produzione di poesia di questi tempi. Il nostro discorso dovrebbe proseguire adesso sul secondo passaggio, ovvero quello che riguarda la pubblicazione e la diffusione, la sfera della circolazione insomma, che mi pare potremmo dividere in due parti: una prima dove avviene la decisione su cosa pubblicare, e una seconda che consta di come e dove promuovere i (pochi) libri di poesie che oggi si pubblicano in Italia. Vuoi dirci come vedi le cose in generale rispetto al tuo lavoro, alla “poesia esodante” che proponi?

Oggi come ieri a decidere quali testi pubblicare sotto la voce ‘poesia’ sono tre attori socio-storici abbastanza precisi: le case editrici e gli organizzatori di premi di poesia; gli “intenditori di poesia”,  di solito poeti e/o critici che hanno già pubblicato; gli «scriventi versi» (Majorino), termine che equivale in parte al mio «moltinpoesia» e a «pubblico della poesia» (Berardinelli). A differenza del passato (all’incirca fino agli anni Settanta), oggi la novità (o complicazione) sta nel fatto che ciascuno dei tre attori agisce in una filiera di pratiche che ha dimensioni di massa. Perciò caso, caoticità, contraddizioni (micro e macro politiche) – presenti in verità da sempre – oggi incidono di più sulle tre tappe principali che portano alla circolazione di un’opera: approdo alla decisione di pubblicare; accertamento critico del valore dell’opera; diffusione dell’opera selezionata tra i potenziali lettori. Ne derivano effetti disordinati, ambigui e prima impensabili: fretta di pubblicare e innumerevoli sollecitazioni a farlo (a pagamento); apparati critici risibili; idee confuse su se stessi, sugli altri poetanti, sul ruolo della critica, sui lettori reali di poesia. La “perdita dell’aura” ha suscitato – e non è una novità – da una parte entusiasmi ingenui, come si fosse raggiunta una vera liberalizzazione o democratizzazione della poesia. E dall’altra allarmi per una «dittatura dell’ignoranza» (Majorino ancora), che sembrerebbe fenomeno spontaneo, ma che invece a me pare pilotato. Come in politica, anche in poesia ci si dibatte tra populismi ed elitarismi, entrambi dannosi, perché offuscano una visione critica delle permanenze del passato e delle innovazioni (reali o possibili). È come se fosse avvenuto un  “fall-out della poesia” (o delle “patrie lettere”). Scuola di massa, industria culturale  e ora il Web diffondono la “radioattività poetica” oltre la solita cerchia dei “cultori della materia”, in Italia sempre ristretta, raggiungendo strati sociali acculturatisi (da poco e come possono) ai saperi moderni. È questo il fenomeno che io chiamo dei moltinpoesia, ma si potrebbe parlare anche di un fenomeno dei moltincritica o dei moltineditoria.

Da una parte assistiamo alla semplificazione, velocizzazione, moltiplicazione delle pubblicazioni e della loro (spesso incerta) diffusione. E, come detto, si pubblica con eccessiva facilità, si valuta all’ingrosso, si promuovono a tutto spiano reading e premi. Dall’altra la ruminazione lenta del poeta, la critica seria, la diffusione ragionata di opere valide sembrano eclissarsi. La critica, in particolare, è quasi azzerata o stordita. Come se si fosse trovata di fronte a un nubifragio o a un’invasione barbarica. O s’è ritirata, vedendo vilipesa la sua funzione autorevole/autoritaria, che prima aveva una indubbia, seppur relativa, efficacia. In assenza – dico con un po’ di ironia – di un “Lenin della poesia”, capace di raccordare punti di alta elaborazione poetica (che ci sono) e punti di ricerca poetica naif o selvaggia (da non disprezzare), la mia idea di poesia esodante invita a non cedere né alle semplificazioni populiste né all’individualismo elitario-corporativo. Ma la crisi generale, nella quale non dimentico mai di iscrivere quella della poesia, si prolunga e s’aggrava. E temo che la «distruzione della ragione» possa avere occasioni di replicarsi (da noi magari in modi farseschi).

Non avremo il tempo di approfondire tutto, però queste mi sembrano considerazioni importanti. Vuoi dire qualcosa anche rispetto ai meccanismi di diffusione (o distribuzione) della poesia in Italia? Dove pensi possa esserci spazio per un “sfera della circolazione” della poesia “esodante” che non sia quella delle poche collane sopravvissute in Italia o del Blog di poesia? Oppure forse non c’è alternativa secondo te?

Sappiamo che in Italia la poesia è stata sempre un fenomeno socialmente marginale e che oggi l’invadenza dei mass media e la crisi delimitano una sua relativa diffusione derivata dalla scolarizzazione di massa. Ciò detto, io leggerei i processi in corso alla luce di una dialettica molti-pochi (mai escludendo che positivo e negativo possono trovarsi in ciascuno dei due poli); e cercherei di capire se, proprio nei margini o nelle nicchie, si stanno costruendo alcune premesse per una futura, più ampia  ma seria diffusione della poesia; oppure se vengono alimentati soprattutto comportamenti di arroccamento difensivo: settari o corporativi.

Due mi paiono oggi i centri  più vivaci di divulgazione della poesia: da un lato le piccole case editrici, i blog e le riviste, che accolgono con grande tolleranza la produzione poetica “di massa” e quella vagamente “militante”; le grandi case editrici e i blog o le riviste accademiche e di studio collegati al circuito universitario, che adottano filtri selettivi “professionali” fin troppo rigidi e a volte miopi.

Entrambi però questi “mondi separati” e chiusi a riccio su se stessi- e qui avverto il segno paralizzante della crisi della poesia e di quella generale – non puntano più né a confrontarsi né a confliggere in modi chiari. Così tutto stagna e i problemi s’agitano irrisolti sul fondo. In primo piano si vedono gli snobismi dall’alto, tipici di chi si limita ad amministrare  qualche maggior potere di promozione e di veto editoriale o le più ampie e spesso preziose conoscenze specialistiche (filologiche, critiche, storiche); e gli snobismi dal basso: quelli di chi, partito da posizione di svantaggio, supplisce il deficit di visibilità (ma spesso anche di saperi) enfatizzando la propria esclusione o emarginazione e cedendo a un ribellismo antiaccademico che oggi – non siamo più all’epoca dinamica che permise l’exploit del Gruppo ’63 – non smuove nulla.

Che fare? Bisogna sempre provarle tutte prima di arrendersi. Si può tentare di convincere gli insoddisfatti, i dissidenti, i moltinpoesia ad esodare; e cioè a costruire spazi autonomi di vera secessione o di circolazione minoritaria (ma critica e rigorosa)dei propri testi più validi, come del resto hanno sempre fatto tutti i movimenti innovativi nella loro fase nascente. Oppure si può tentare di sviluppare una intelligente  “guerriglia critica”. (Lo faccio sistematicamente dove mi riesce; ad esempio, sui blog POESIA E MOLTINPOESIA e LE PAROLE E LE COSE). Senza illusioni però. Fare gruppo oggi per quest’intellettualità di massa è più che mai arduo.  Mille fili sentimentali, ideologici e pratici la trattengono in posizioni gregarie, attendiste, opportunistiche. All’estremo, se tali tentativi di costruzione o confronto dovessero fallire, resta la testimonianza individuale, il messaggio in bottiglia.

VI

Sulle poetiche della ricezione

Mi sembra di capire che tu sia favorevole, seppur con poche illusioni, a un “movimento dal basso” e che non veda possibilità attuali e concrete di dialogo o conflitto con il circolo accademico-editoriale della poesia.
Ora, se sei d’accordo, finirei questa nostra breve chiacchierata con qualche domanda su “a che cosa serva” la poesia, e in particolare naturalmente, su quale funzione vedi tu possibile per una “poesia esodante”. Comincerei col chiederti se hai qualche familiarità con le così dette “poetiche della ricezione”, o per dirla in altro modo con l’impostazione kantiana dell’estetica. Credi sia un approccio utile a ragionare sulla funzione della poesia oggi?

Delle opere di autori come Iser e Jauss e del lavoro della scuola di Costanza ho solo conoscenza indiretta per aver letto articoli di giornali e riviste. Nutro però una istintiva simpatia per  le poetiche e le estetiche della ricezione che a loro fanno capo. L’importanza che danno ai lettori ha il merito di spostare il riflettore puntato spesso soprattutto su (pochi) autori e (pochi) critici. Penso, ad esempio, al nume di una visione elitaria della letteratura, Harold Bloom, fautore di un «canone sublime» fondato esclusivamente sul giudizio del «lettore eccellente». Se invece le moltitudini di lettori, a detta di questi studiosi, pongono essi stessi delle domande a un’opera e incidono sul riuso di una tradizione, cioè sul lavorio per mezzo del quale essa supera il tempo, il fatto è rilevante. È un’ottica ben diversa da quella di Bloom. La divulgazione non è opera solo del critico o dei lettori eccellenti. E s’incontra con la mia idea di poesia esodante che prevede o sogna un lettore, anzi un lettore/scrittore attivo, capace di fare domande, tante domande spiazzanti come quelle dei bambini o di chi arriva ai libri e alla poesia dopo aver conosciuto i morsi dell’esperienza e della storia. E poi mi pare di cogliere una sintonia tra il lettore plurale pensato dai teorici della ricezione e i miei tentativi di laboratorio rivolti ai moltinpoesia. Questi ultimi, in effetti, sono lettori (o lettori/scrittori) incoraggiati a uscire dal loro isolamento proprio partecipando a laboratori di scrittura, a circoli di lettura, ai blog. Non si deve temere un confronto anche teso tra il messaggio dell’autore e quello che un lettore attivo (ingenuo, malizioso o semplicemente con altri pensieri in testa) trova o crede di trovare in un testo. Invece di fermarsi all’interpretazione firmata dal grande critico, sarebbe bello raccogliere migliaia di voci o interpretazioni da parte dei lettori effettivi di un libro. Di solito i critici hanno l’ultima parola su un libro perché dicono cose acute e ben meditate. Ma  se le opinioni degli anonimi lettori  venissero sollecitate con metodo e registrate con attenzione, per essere magari riprese e rielaborate dai critici stessi, si produrrebbero ulteriori approfondimenti. Certo, non mancano gli inconvenienti. Un lettore “semplice” può essere fin troppo tendenzioso o travalicare spudoratamente il testo per vederci solo quello che hai già in mente. Ma  questi non sono difetti  da attribuire alle teorie della ricezione.

VII

Giudizio di valore e questione estetica

Se ho capito bene, tu auspichi una sorta di liberazione dalle strettoie della critica letteraria ufficiale, verso una più ampia collettività di lettori-critici. Mi pare, però, che tu abbia saltato a piè pari il “giudizio di valore” sull’opera poetica. Come ben sappiamo spesso hanno successo opere di livello assai mediocre, fortunate perché l’autore è già noto per altre faccende, o perché spinte da gruppi con potenti e non sempre disinteressati intenti nel mondo culturale. Vuoi, per favore, farci capire come intendi distinguere – per dirla nel modo più rozzo – tra poesia esodante bella e poesia esodante brutta?

Ti dico subito e con una formula la mia tesi: La poesia (esodante o meno) è bella e brutta, ma nella poesia esodante quello che conta/conterà è la fluidità del rapporto tra i due poli del bello e del brutto. Un certo pensiero estetico trascura questo punto per me decisivo; e contrappone i due poli, gerarchizzandoli, facendone degli assoluti, cedendo a una subdola ottusità elitaria. Ed esso risulta anche convincente per il senso comune, perché, a livello empirico, le differenze di qualità (fra testi riusciti o non riusciti ma anche fra le facoltà mentali, intellettuali e corporee degli individui)saltano all’occhio, sono evidenti, accertabili, innegabili.

Se però ci riflettiamo, questo pensiero estetico ha due gravi difetti:

1. come una maschera nasconde una sorda resistenza contro  quelle ricerche poetiche e artistiche veramente non canoniche, che riescono dinamicamente mescolarsi con il comune, il molteplice e persino col banale, il brutto, il non riuscito;

2. dimentica e fa dimenticare che la gerarchia – presente in ogni giudizio estetico – fissa a livello simbolico (e quasi sempre a vantaggio di pochi, che però parlano in nome di tutti) un valore, il quale – attenzione – è anche un segno di violenza e non solo di razionale o impersonale evidenza. Non voglio scandalizzare, ma mi sento di affermare: c’è un bello che “violenta” il brutto, lo mette fuori gioco, lo esclude, impedisce  la sua funzione, irrinunciabile per me, di negazione della pericolosa “dittatura” del Bello assoluto. Questo non mi va. In ogni campo, anche in quello estetico, posso accettare, sì, una gerarchia includente, mai una gerarchia escludente. Qui il mio giudizio si fa politico-estetico: stabilire  una gerarchia escludente (ad es. Croce: poesia e non poesia) ha avallato, sul piano simbolico-linguistico, inaccettabili soprusi, che sono omologhi di quelli storici sedimentatisi, con violenze materiali smisurate, nelle nostre società diseguali e conflittuali. Continuo, dunque, a immaginare che eccellenza e mediocrità, bellezza e bruttezza potrebbero avere un altro senso: includente appunto e non escludente. Di più: che bellezza e bruttezza – per me valori e disvalori provvisori, storici, rimodellabili in sempre nuovi ordini, anche gerarchici, però nuovi e fluidi – debbano dialogare tra loro per trasformarsi anche conflittualmente. L’atto giudicante, che separa il bello dal brutto, l’eccellente dal mediocre, il riuscito dal non riuscito,  è per me umano, soggettivo; deve cioè restare sempre rivedibile, mai presentarsi come oggettivo e definitivo. Non mi arrischio ad ipotizzare una base comune tra bello e brutto. Più praticamente sento fecondi  gli scambi, le contaminazioni,  le dialettiche (non a senso unico) fra loro.

Non mi pare che il giudizio sull’opera bella e opera brutta sia solo estetico, né mi sentirei di condividere una sospensione del medesimo, ammesso che sia possibile, però comprendo il desiderio di ribellione contro le rigide strutture che oggi e in Italia “decidono” quale poesia sia bella e degna di essere scritta e letta e quale no. Vogliamo finire l’intervista parlando del valore, o “senso” se preferisci, della poesia? Vuoi raccontarci quale possa essere il “risultato” della poesia esodante come tu la immagini. Insomma, vorrei sapere quale possa essere l’effetto di quei versi, in che modo insegnino a guardare e ragionare, cambino lessico e prospettive, operino “criticamente” nell’universo contemporaneo.

Concordo con te. Ed infatti ho voluto sottolineare che si fa politica (e violenza) anche attraverso l’estetico. Anche quando non lo si riconosce. Anzi la maschera dell’estetico funziona di più perché nasconde bene certi volti politici indecenti e così trova più facilmente il consenso passivo del senso comune. Il quale è attratto dall’estetico e si ferma appunto alla sua evidenza senza interrogarla. Non dimentichiamo mai, però, che decidere quale poesia sia bella (e cioè poesia, e cioè valore) è  in fin dei conti un potere quasi irrilevante rispetto a quello di chi decide la distribuzione in una società del lavoro e del reddito o il flusso dei capitali o le notizie che devono circolare. O di chi decide una guerra. Eppure che la poesia, questa minima tessera del mosaico sociale dei saperi, si armonizzi con il colore che domina nel mosaico complessivo o lo contraddica, evocando “altro”, conta, eccome.

Se, dunque, la poesia diventasse esodante, se quella tessera si staccasse dal resto, se cominciasse a cambiare colore, se – invece di stimolare  atmosfere sognanti, abbandoni panici o mistici, elucubrazioni solipsistiche orgogliose o disperate – inducesse la gente comune a fissare l’orrore della storia non con l’occhio paralizzato e compiacente predisposto dalla TV e dai mass media, se allenasse i lettori a ragionamenti meno aridi di quelli fatti da troppi politici, filosofi, scienziati, economisti, si ricostituirebbe un noi non più costretto a nuotare  solo sott’acqua, ma capace di arrivare in superficie, dove forse ci sono cieli più azzurri,  venti più respirabili, e ci si potrebbe  orientare verso qualche meta.

Bene, direi che abbiamo finito. Grazie per la pazienza.


* Ennio Abate (Baronissi, Salerno 1941) vive a Milano dal ’62 e ha insegnato nelle scuole superiori. Finalista al Premio di poesia Laura Nobile dell’Università di Siena nel 1991 presieduto da Franco Fortini, ha pubblicato cinque raccolte di poesia: Salernitudine (Ripostes, Salerno 2003), Prof Samizdat (E-book Edizioni Biagio Cepollaro 2006), Donne seni petrosi (Fare Poesia 2010), Immigratorio (CFR 2011), La polìs che non c’è (CFR 2013). Ha tradotto dal francese e curato manuali scolastici sulla Commedia di Dante. È coautore con Pietro Cataldi ed altri di DI FRONTE ALLA STORIA (Palumbo 2009). Suoi testi di poesia, disegni, saggi e interventi critici sono apparsi su varie riviste, tra cui Allegoria, Hortus Musicus, Inoltre, Il Monte Analogo, La ginestra.  Dal 2006 al 2012, all’interno delle iniziative della Casa della Poesia di Milano presieduta da Giancarlo Majorino, ha condotto il Laboratorio MOLTINPOESIA. Condirige con altri la rivista Poliscritture (semestrale cartaceo + sito: www.poliscritture.it) e cura il blog  POESIA E MOLTINPOESIA (http://moltinpoesia.wordpress.com/)

* Ezio Partesana è nato a Milano nel 1963. Laureato in filosofia con una tesi su Adorno, vive tra la sua città e Venezia e lavora  come traduttore e autore di testi per il teatro. Tra le sue pubblicazioni Critica del non vero (La Nuova Italia, 1995)

  • Website

6 Comments

  • Pingback: Ennio AbateDiario di blog: resoconto di fine anno 2013 | POESIA E MOLTINPOESIA
  • Pingback: Ennio AbateSei note di un osservatore partecipe su «I poeti sono troppi» | POESIA E MOLTINPOESIA
  • Giorgio Linguaglossa scrive:

    C’è nella poesia che si “fa” oggi un «quotidianismo di massa» (gli epigoni dell’esistenzialismo milanese), un «virtuosismo giornalistico» (Franco Marcoaldi), una «teatralizzazione di massa», un «surrealismo di massa», un «catastrofismo di massa», un «manierismo di massa», una «oligarchia esoterica» (De Signoribus), insomma c’è tutto di tutto. In queste condizioni di «scritture da salotto» si ha una grande confusione: nessuno sa che cosa bisogna scrivere e su che cosa, tutti scrivono di tutto, c’è una libertà sfrenata, una Disneyland, una pista di autoscontro; c’è poesia per tutti i gusti e tutti i palati; ci sono i restauratori dei bei tempi antichi, i neomanieristi, i neomaterici, gli sperimentatori, gli psicopompi dell’anima… gli editori piccoli, medi e grandi sfornano di tutto secondo la logica delle cointeressenze e delle alleanze, insomma delle conoscenze personali, degli opportunismi e delle logiche di snobismo e di circoli tipo Lyons…
    In queste condizioni, Vi chiedo e mi chiedo che senso ha fare una critica seria; non c’è alcuna ragione di fare una critica di testi di poesia, quello che conta è solo l’appartenenza ai circoli che contano in termini editoriali e accademici, una sorta di ridicolo circolo di psicopompi. Come la poesia è un mondo di plastica così anche la cd. critica è un mondo di plastica. Ormai da molti lustri la critica è diventata una critica di accompagnamento dei tesi di “poesia”, di fiancheggiamento.

    C’era una volta il sogno di una cosa, adesso «la cosa chiamata poesia» fa parte di quel gigantesco prefabbricato di conglomerati i cui singoli elementi sono costruiti di altrettanti pezzi prefabbricati (materiali leggeri e resistenti alle scosse telluriche); la sostanza, il sostrato ontologico del Dopo il Moderno è qualcosa di dis-locato, di Altro, di «sempre nuovo» i cui conglomerati appartengono alla categoria, appunto, dei conglomerati, fatti di giustapposizioni ed emulsioni, di lavorati e di semilavorati, quali metamateriali che si offrono alla auto-costruzione e alla auto-combustione, in una parola, alla auto-produzione, come frasari che riecheggiano e ripercorrono le frasi un tempo già pronunciate: frasari conglomerati, liquidiformi, vetrificati, vetroresinati, perplexizzati. La cosa chiamata poesia diventa «autoproduzione», «promozione pubblicitaria», «scrittura pubblicitaria», «Disneyland della scrittura creativa». L’ingresso in questi grattacieli del prefabbricato e dei conglomerati è permesso a tutti: è scritto nella costituzione delle società democratiche, è una società democratica che qui ha luogo: sono le novelle piramidi del nostro tempo, fatte di effimero e di transeunte, di trasparenza e di leggerezza che transita nel nihil, ponti di corda stesi sopra gli abissi del nichilismo della nostra civiltà dove impera il manufatto merce nel viluppo delle sue cornici.

    L’ingresso, dicevo, in questi grattacieli prefabbricati di frasari nobili e non-nobili qual è la poesia è, certamente, un tortuoso e lunghissimo cunicolo. Dentro di esso, ci si muove come dentro un imbuto, tra sogno e veglia, nel tempo della post-utopia in preda ad una ossessione, ad un delirium, ci si muove a tentoni, non si vede dove conduce il cunicolo ma si tenta egualmente la via di uscita nella speranza che uscita veramente ci sia; l’attraversamento di questo interminabile e ridicolo cunicolo oscuro è per la poesia contemporanea un incubo…

    • Giorgio Linguaglossa scrive:

      caro Ennio,
      parafrasando La Grassa il quale scrive: «uscire da Marx dalla porta di Marx», io potrei dire: «uscire dalla Poesia dalla porta della Poesia»; ma si tratta di una metafora, di un gioco linguistico. Ma continuiamo il gioco: accettiamo la metafora: Che cosa vuol dire «uscire dalla Poesia dalla porta della Poesia»?, tutto e nulla: noi possiamo uscire dalla finestra del «Palazzo chiamato Poesia» dalla finestra del primo piano e scappare, darcela a gambe per la strada, oppure salire all’ottavo piano del Palazzo e saltare giù nel vuoto, e così finiremmo per romperci l’osso dl collo. Ma saremmo morti e quindi la partita finirebbe. E poi possiamo uscire dalla porta d’ingresso e dire a tutti gli inquilini del Palazzo: «c’è del marcio in Danimarca», ovvero, «qui i giochi sono già stati fatti, le carte sono state truccate, non c’è motivo per sedermi al tavolo di gioco»; oppure, possiamo decidere di stare al gioco (le cui regole sono state fatte da altri) e fare finta che le carte non siano truccate. E qui la partita si apre. O meglio si chiude. Oppure, come qualcuno fa, come il giovane Ivan Pozzoni, che io stimo e al quale va la mia considerazione: «dobbiamo far saltare tutto: il Palazzo e il sistema-poesia», «bisogna mettere della dinamite alle fondamenta del Palazzo»; simpaticissima metafora, che io trovo divertente, irriverente e che rispetto. Non ha fato così Sanguineti con “Laborintus” (1956)?, operazione indubbiamente geniale, che andava in consonanza con i tempi di un paese che doveva cambiare la classe dirigente intellettuale in un momento di grande ripresa economica del Paese, un momento di grande ottimismo del Paese e di grande rigoglio artistico e intellettuale. Ma oggi, chiedo, ci sono queste condizioni? – quello che vedo è che siamo immersi in una Grande recessione (economica, politica, etica, estetica e spirituale), non vedo all’orizzonte un’altra classe dirigente di scrittori e di poeti che vogliano prendere il timone della vita artistica e intellettuale del Paese: ciascuno va per conto proprio, alla spicciolata, alla ricerca del consenso e del successo.

      La proposta che tu chiami «poesia esodante», come di un qualcosa che si muove in esodo, verso l’esterno, verso la periferia, la posso anche condividere: ma ti chiedo: verso la periferia di che cosa va la «poesia esodante»?; si allontana del Centro?, e perché si allontana dal Centro?, e che cosa cerca verso la Periferia?, e quando raggiungerà la Periferia che cosa succederà?… E ti chiedo: ci sono oggi le condizioni affinché la direzione della poesia italiana si incontri o si incroci con il Politico?, come mi sembra che tu affermi?. C’è in te, caro Ennio, questa ossessione del Politico (che condivido ma fino a un certo punto), io preferirei lasciare fuori dal nostro quadro culturale dei teorici (tra l’altro che non si sono mai occupati di estetica come La Grassa e Negri e altri, lasciamoli stare, mi sembrano piccoli maestri che hanno avuto a loro tempo dei momenti di gloria, lasciamoli lì), e ricominciamo a mettere a fuoco il problema (che io ho tentato di indagare nei miei ultimi libri sulla poesia contemporanea scontentando un po’ tutti i vari protagonisti e gli agonici): a me sembra che la direzione della poesia italiana di questi ultimi 3, 4 decenni sia quella di una deriva prosastica sempre più disossata, debole, facile, democratica, piccolo borghese (nel senso di comprensibile a tutti), pensa che me la sono presa con il più grande poeta italiano del Novecento: Montale, di essere il più grande responsabile di quella scelta per una poesia diaristica e occasionale da “Satura” (1971) in poi; così oggi, giunti alla foce di quel fiume si scrive una «cosa» molto simile alla «prosa», che della «prosa» ha il vestito linguistico e concettuale: cioè si pensa in poesia come si pensa chi vuole fare della prosa: E, NO, SBAGLIATO!, e qui c’è un nodo che va sciolto subito, ancor prima di iniziare la riflessione: e dire una cosa molto chiara: LA POESIA E’ UNA COSA CHE SI SCRIVE E SI PENSA IN MODO MOLTO DIVERSO DA QUELLO CON CUI SI PENSA E SI SCRIVE IN PROSA.

      Poiché io non mi permetto di dire: «ecco, ho qua la ricetta di come si scrive una buona poesia», e credo che nessuna persona sana di mente possa dire questo, io dico solo una cosa: apriamo gli occhi e le orecchie e cerchiamo di vedere che cosa è successo nella poesia di questi ultimi 40 anni. E allora dobbiamo analizzare attentamente che cosa è successo (e sta succedendo) in questi ultimi decenni alla «forma-poesia»; che cosa è successo all’esterno di essa e che cosa è successo all’interno di essa. Per il momento mi fermo qui.

      • Laura Canciani scrive:

        recentemente Walter Siti in una intervista ha dichiarato che è molto tempo che non legge più poesia contemporanea, gli ultimi autori letti sono Milo De Angelis e Patrizia Cavalli, gli autori venuti dopo li trova «autoreferenziali» (cioè banali e illeggibili) che parlano di sé e delle proprie ambasce.
        Mi sembra una posizione severa; ma chiediamoci: come dargli torto? – È la poesia che deve cambiare strada, è la poesia che deve farsi carico di, come si diceva una vota, “nuovi” contenuti con un linguaggio adeguato ai tempi.
        Ma quando cambia il linguaggio poetico? In quali circostanze storiche si verifica una mutazione del linguaggio poetico? – A me sembra che si scriva tutti allo stesso modo: si scrive per piacere alla piccola cerchia dei letterati che contano: si prende una scatola, ci si mettono un po’ di oggetti, qualche forcina dei capelli, qualche paesaggio de-ossigenato, un po’ di quotidiano, magari un paroliere aggressivo e voilà, il gioco è fatto. A me sembra che le righe che compaiono in apice alla pagina di questo blog di quel distinto signore, Alessandro Ricci il quale scrive che ha la mano tra le cosce di una donna, siano terribilmente banali, spero che non tutta la sua poesia sia di tale tenore. Se questo è il modo di scrivere dei giovani letterati davvero dovremo rimpiangere i bei tempi andati!

        • Laura Canciani scrive:

          Ennio Abate scrive:

          «È come se fosse avvenuto un “fall-out della poesia” (o delle “patrie lettere”). Scuola di massa, industria culturale e ora il Web diffondono la “radioattività poetica” oltre la solita cerchia dei “cultori della materia”, in Italia sempre ristretta, raggiungendo strati sociali acculturatisi (da poco e come possono) ai saperi moderni. È questo il fenomeno che io chiamo dei moltinpoesia, ma si potrebbe parlare anche di un fenomeno dei moltincritica o dei moltineditoria.
          Da una parte assistiamo alla semplificazione, velocizzazione, moltiplicazione delle pubblicazioni e della loro (spesso incerta) diffusione. E, come detto, si pubblica con eccessiva facilità, si valuta all’ingrosso, si promuovono a tutto spiano reading e premi. Dall’altra la ruminazione lenta del poeta, la critica seria, la diffusione ragionata di opere valide sembrano eclissarsi. La critica, in particolare, è quasi azzerata o stordita».

          E questo è il commento di Giorgio Linguaglossa: «Bisogna partire dalla presa d’atto di una situazione oggettiva, storica, concreta: che gli unici luoghi di aggregazione sono quelli prodotti dagli apparati territoriali e istituzionali. Prendiamo la manifestazione di “Pordenone legge”: a guardare i facenti parte di questa kermesse editorial mondana, mi sembra che ci siano tutte le personalità della critica accademica e delle maggiori istituzioni editoriali di poesia, addirittura si stilano delle classifiche dei libri di poesia come si fanno le classifiche dei dischi di musica leggere più graditi al pubblico. Mi sembra che ciò che vale oggi sia nel campo della poesia che fuori di essa è la vetrina ufficiale della visibilità e della riconoscibilità. L’unica cosa che conta è Apparire tra i Vincenti e i Visibili. In questa corsa alla visibilità che tutto travolge e annega che cosa può fare un io tu (e pochi altri) isolati che cerchiamo di ragionare in termini di valori estetici? Nulla, sembriamo dei vecchi e buoni dinosauri erbivori lasciati alla mercé di famelici e aggressivi predatori dinosauri carnivori . Ma un conto è l’effimero e un conto sono i lavori seri. Direi di non occuparci e perdere tempo dietro la vetrina ufficiale della visibilità e continuare a fare le cose serie e disinteressate».

          io per parte mia ritengo che Ennio Abate e Giorgio Linguaglossa debbano andare avanti nella loro ricerca critica senza farsi intimidire o scoraggiare dalle alleanze trasversali che si compongono in modo quasi automatico tra apparati editoriali e quelli accademici.

Lascia un commento