La dissoluzione del discorso poetico: Dante Maffìa “Io poema totale della dissolvenza”

iopoemadissolvenza_bigDue secoli fa Feuerbach scriveva: «dimmi quello che mangi e ti dirò chi sei»; un altro filosofo, Hegel, ha scritto la famosa sentenza: «il reale è razionale»; un altro filosofo più vicino a noi, Adorno, ha scritto: «l’arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità» e «veri sono solo i pensieri che non comprendono se stessi», «il tutto è falso», «non si dà vera vita nella falsa»; Wittgenstein ha scritto: «il mondo è tutto ciò che accade». Dante Maffìa li ha presi tutti in parola: fa una poesia della totalità compossibile, crea un megamondo, una megabomba e lì ci concentra tutti gli «ego» umani come in un immenso campo di concentramento: per far questo ha bisogno di amplissimi spazi e di amplissimi tempi, il futuro e il passato si scambiano di luogo, i luoghi traslocano, e così i tropi, l’«io» si dissolve in una miriadi di «ego» che fluttuano in un magma primordiale di stalagtiti e stalagmiti, di batteri unicellulari e elefanti colossali, di umani super umani e contro-umani, mostri e minotauri; Maffìa fa poesia tentacolare, è un polipo mostruoso, di mostruosa vitalità, che lancia i suoi tentacoli nella confusione del mondo, o meglio, nella «dissolvenza» del mondo; fa poesia con una immediatezza sconcertante, una immediatezza che fa a meno di ogni mediazione: non media alcun linguaggio poetico del Novecento perché li ha tutti interiorizzati, metabolizzati, dissolti nella «dissolvenza»; fa poesia come mangia: con voracità, gusto, lussuria, abbandono, intemperanza e rabbia, con un linguaggio luculliano e postribolare che mesce il Falerno della sapienza e la insania dei folli, il pedestre della cloaca con il sublime dell’empireo, l’irruenza dell’iperbole con l’equilibrio della metafora; fa poesia come si gettano le arcate dei ponti e dei cavalcavia sugli abissi del «non-senso»; fa poesia come la terra nel suo moto rotatorio genera le cascate del Niagara e le alluvioni del Nilo, come l’oscillazione dell’asse terrestre produce ogni ventimila anni deserti e fertilizza pianure; fa poesia che inghiotte tutta la materia verbale e immaginifica e la espelle come da un buco nero dell’universo; fa poesia senza preoccuparsi di costruire un «oggetto» che deve essere elaborato in forma locutoria, in un linguaggio per quanto possibile orientato ad esprimere col massimo rigore le idee; Maffìa intende uccidere le idee e gli uomini-mostri che hanno generato quelle idee: semplicemente, è giunto alla stazione ultima del dicibile e dell’indicibile, frattura il pensato mediante l’urto dell’impensabile; Maffìa non crede in alcuna rifondazione del poetico e nemmeno dei suoi linguaggi, i linguaggi del Moderno, quella secondarietà di seconda mano di cui abbonda il secondo Novecento, linguaggi poetici ormai esautorati, frutto di razionalizzazioni e ideologizzazioni:

pasoliniare sul potere
pascolare nella zona neutra del manierismo,
zanzotteggiare su scampoli di scienza
e insudiciarsi…

In questo poema della «dissolvenza» tutti i linguaggi poetici del secondo Novecento sono  rinvenibili, come in un grande calderone bollente, ma, in forma, appunto, biodegradata, nelle forme, appunto, del decadimento degli elementi in isotopi impoveriti;  il mondo non penetra la poesia se non nelle forme edulcorate e beneducate della poesia sciacquata al bucato delle istituzioni stilistiche. L’epoca della «dissolvenza» viene scandagliata in ogni minima particella, in ogni aspetto del reale (il «reale», che parola è questa?): maggiordomi e lacché popolano i paraggi della poesia della «dissolvenza», Maffìa utilizza tutti gli strumenti retorici della parodia e della riscrittura liberata dall’onere improprio di mimare le scritture precedenti, dalla ballatetta al sonetto:

Un giorno sognai una bizzarra filastrocca
che camminava furiosa sopra una vacca
dicendo incomprensibili parole
sulla tenerezza e sulla freschezza
dei fiori appena nati.
Poi mi trovai a cavalcioni
di una farfalla, povera bestiola,
che non reggeva il peso e mi catapultò
in un campo di girasoli.
Trovai molte cicale in quel campo
e perciò vi rimasi per secoli,
tanto la Comare si era scordata di me.
E se non fosse stata per la Formica Zoppa,
che odiava gli umani, ancora sarei
vivo e libero a scorrazzare
con mille cicale e godermi il concerto.

*

Non mi cale appurar cos’è cambusa,
né poi verificar l’ipotenusa,
tanto ormai scema è diventata Musa
che butta tutti i cocci alla rinfusa.

 Per gatti non c’è trippa né scusa
neppure quando un topolo egli annusa.
E se del tuo fulgore è circonfusa
la pasta di Gragnano presa sfusa,

la morte morirà sempre delusa
e Frate Vento straccerà la blusa
di lei che nell’eterno è stata fusa.

La strada dopo pioggia  sempre nfusa,
dunque non roccolare ancora scusa
per restare inchiodata a Siracusa.

 Numerosissime le dediche a poeti e critici del mondo «poetico». Il libro è ragguagliabile all’Arca di Noè: in esso c’è di tutto un po’, c’è la speranza che qualcosa di questo universo in «dissolvenza», di questo diluvio di mediocrità postribolare qual è diventata la nostra Italia possa bucare la cortina di buio della nostra epoca; la medietà e la mediocrità dell’Italia di oggi penetrano osmoticamente nella forma-poesia portandola alla «dissolvenza» delle leggi interne e di quelle esterne: quello che ne resta è il precipitato chimico biodegradato di un trentennio di mediocrità e di corrività che ha avviluppato i linguaggi del nostro paese e tutta la vita nazionale: le invettive  e le intemperanze si susseguono senza sosta, senza un attimo di tregua. Dante Maffìa è forse il poeta che ha assimilato la più grande quantità di prodotti tossici, le diossine di questi ultimi decenni, colui che ha usato la diossina dei linguaggi della menzogna per fertilizzare le facoltà imaginali della sua poesia, ma è anche il poeta artifex che fabbrica menzogne perché ritiene che compito del poeta sia appunto fabbricare una «finzione» di discorso poetico che vuole raddoppiare ogni infingimento.

Ecco allora l’imperiosa necessità di costruire un volgare con il quale parlare nei postriboli, nelle accademie e nelle scuole della Repubblica, nei tribunali, nei gironi della politica, nel caminetto del nostro salotto, al bar e dal barbiere mentre sfogliamo le insulse riviste della ciarla. Un volgare-cardine della nostra incomunicabilità, delle miserie municipali  e nazionali in quanto cittadini del paese che ha introiettato la crisi come forse nessun altro paese d’Europa..

Nella poesia di Maffìa vale un unico motto: Loquor ergo sum, parlo dunque sono, le cose esistono ma in dissolvenza mentre le pronuncio, nella dissolvenza dell’«io» che si auto produce e si riproduce come una metastasi invincibile: la poiesis come metastasi dunque che intacca e corrode la falsa poesia. È questa la poetica di Maffìa.

Certo, la grammatica garantisce un ordine, una ratio, una civiltà. Essa può essere da tutti compresa. La sintassi è la legislazione della lingua, è il patto che tutti i cittadini devono rispettare. A volte, leggendo la poesia dei miei contemporanei, mi chiedo se la «poesia» voglia veramente essere compresa da tutti. Il vero problema è se mai si potrà continuare ad esprimere nello pseudolatino internazionale del minimalismo dei nostri tempi i drammi dei tempi nuovi, la vita delle nostre città, i conflitti interpersonali tra gli uomini, la scandalosa morte di Dio, la mutazione indotta dalla rivoluzione mediatica in atto. Le idee e i conflitti di questa età devono trovare il proprio linguaggio, così come il nuovo ordine costituzionale di Augusto l’aveva trovato in Virgilio e il volgare di Dante aveva espresso i conflitti della civiltà delle città-stato. Ma c’è oggi un nuovo «ordine»?, c’è una lingua da adottare come proprio linguaggio poetico?, non è  diventato già l’italiano poetico in auge una lingua artificiale?, mi chiedo se non siano diventati anche i linguaggi poetici in idioma altrettanti linguaggi artificiali. Impossibile – mi si risponde – perché essi affondano nella matrice matria,  radicati, prima di ogni parola, nella nostra infanzia. Dobbiamo davvero credere a questa leggenda?, dobbiamo ancora credere alla deità di una lingua inconsapevole dell’infanzia?, dobbiamo ancora credere alle tesi prescientifica espressa da Dante Alighieri nel De vulgari eloquentia secondo il quale insieme al dono stesso della libertà, Dio infonde nella nostra anima quella forma locutionis, che ci rende capaci di assumere, senza nessuna regola, qualsiasi lingua con cui la madre ci chiami?. Non c’è nessuna forma locutionis che ci è data per legato testamentario o per eredità, ogni nuova generazione deve lottare, ogni giorno, contro i conformismi della propria cultura e contro i truismi della propria lingua per potersi esprimere in un linguaggio forte e autentico. Questo è l’apprendistato poetico e umano che ha condotto Maffìa alla stesura di questo poema-mostro, la cui ambizione è quella di annichilire ogni altra opera che voglia affrontarla; la stessa mole del poema è qualcosa di inimmaginabile, di incontestabile per un essere umano: trentunomila versi che si snodano come una muraglia cinese per i campi e le alture dell’«io» in «dissolvenza»; è presumibile pensare che dopo di esso non ci sarà più nulla, si estenderà il deserto di una civiltà che voleva possedere il mondo e si ritrova invece tra le mani un pugno di mosche: vanitas vanitatum, povertà spirituale e materiale. Le discontinuità e irregolarità metriche e stilistiche del poema sono indice dello scacco matto del poeta moderno, ma è anche la sua vittoria, anche se una vittoria di Pirro: la lingua bastarda e imbastardita del poema è la sola lingua che un poeta degno di questo nome può fare in questo tempo mediocre: è la sua lingua, non ne ha una di riserva. La lingua della poesia non riscatta la poesia: è la sua squallida tomba.

Il problema che il poeta calabrese si trova ad affrontare è che oggi abbiamo a disposizione un medio linguaggio poetico che è diventato un linguaggio artificiale, conformistico, clericale, non più adatto ad esprimere i grandi conflitti del nostro tempo; ci si accontenta di esprimere le piccole tematiche, i tematismi, i trucioli, le tematiche edulcorate del cuore, il paesaggismo più trito e triviale, il quotidiano più becero; e a tutto ciò si dà il nome di poesia. Il grande problema cui si trova a far fronte la «poesia» di Maffìa è la costruzione di un linguaggio poetico non artificiale, non finto, non posticcio, non frutto di espedienti linguistici e tematici; non un problema da poco, nel senso che occorre ritornare al concetto di poiesis, capacità fabbrile, forza di incudine e di martello, forza di comunicazione. Appunto, il linguaggio esondante di Maffìa  trova il proprio varco, scava un cunicolo nel sottosuolo dei linguaggi circonvicini. Linguaggio di una non-poetica, un linguaggio che rinuncia a priori alla ri-fondazione della lingua; e poi, perché mai rifondare la Lingua?, per quale comunità di parlanti?, perché mai parlare di poetica?, per quale poesia?, per quale continuità?; Maffìa, è chiaro, opta per l’affondamento del Titanic, del linguaggio poetico sclerotizzato e narcotizzato della stagnazione stilistica e spirituale dell’Italia di oggi, forse vuole presidiare, con un proprio contingente stilistico, i  ponti che portano al futuro, vuole inficiare stilisticamente che altri costruiscano ponti fittizi, o fortilizi istituzionali, e per far questo impiega settecento pagine fitte di poesia. Una follia?, forse.

Ma non è soggetto alla mutazione continua questo «parlare»?, come dargli una forma?, e non è questo suo continuo fluire un ente nell’ente?, quell’uomo «instabilissimum atque variabilissimum»? (come scriveva Dante Alighieri) come può raccordare la propria instabilità alla instabilità universale?; come «curare» le infinite varietà delle lingue e le varietà interne ad ogni singola lingua?; è ancora necessario cercare una Patria?, costruire forme di intesa e di comunicazione?, la Patria di questo gigantesco poema della «dissolvenza» va de-costruita attraversando la concretezza vissuta della disintegrazione dell’«io»; nessun lavoro «a tavolino», ma ricerca appassionata della «dissoluzione» di tutte le «forme», a cominciare dalla dissoluzione della ottimistica cultura dello sperimentalismo e dello scetticismo, dell’ironia e della mitopoiesi. È il tramonto definitivo della «grande forma» che qui ha luogo: le «grandi forme», come le «grandi idee», come le grandi utopie sono opera del passato; ed è tramontata anche l’illusione che si possa riformare la poesia con i mezzi della poesia.

In epoche come la nostra in cui la lingua è ridotta alla funzione servile per scambiarsi informazioni circa i titoli di borsa delle quotazioni e delle appartenenze, in cui la sua forza simbolica viene strapazzata e umiliata, in cui municipalismi e interessi di parte minacciano di dissiparne l’energia comunicativa universale, Maffìa risponde con il metodo della «dissolvenza» universale. È il suo appello a tornare alla lingua di Alighieri, l’appello in onore del volgare, sì, ma perché si faccia terrestre, che sappia parlare come si mangia e si beve tutti i giorni alla mensa dei poveri, a tutti: poveri e ricchi, sordomuti e cittadini vilipesi, letterati spocchiosi e i pochi che ancora conservano la propria dignità.

Giorgio Linguaglossa
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2 Comments

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  • Caro Giorgio Linguaglossa,

    ho letto con vivo interesse questo articolo sul “Poema”, grandiosa opera di Dante Maffia, recentemente uscita per i tipi di Edilet.

    Vorrei dire due parole mie e semplici in proposito.

    Mi colpiscono due termini che hai usato “ego” e “dissolvenza”. Contenuti nel titolo stesso e usati come ossimoro, tutto il poema è un gioco di opposti e contrari. Nel Poema c’è tutto, c’è tutto Maffia, e c’è tutto il suo mondo interiore ed esteriore, i luoghi, le persone, i fatti, gli autori, gli ambienti: tutto è profondamente assimilato e rielaborato dall’esperienza personale di vita. Ecco io non parlerei di una molteplicità di “ego”.

    ” fa una poesia della totalità compossibile, crea un megamondo, una megabomba e lì ci concentra tutti gli «ego» umani come in un immenso campo di concentramento: per far questo ha bisogno di amplissimi spazi e di amplissimi tempi, il futuro e il passato si scambiano di luogo, i luoghi traslocano, e così i tropi, l’«io» si dissolve in una miriadi di «ego» che fluttuano in un magma primordiale di stalagtiti e stalagmiti, di batteri unicellulari e elefanti colossali, di umani super umani e contro-umani, mostri e minotauri; Maffìa fa poesia tentacolare, è un polipo mostruoso…….”Linguaglossa.
    Secondo me, questo mondo più o meno aderente al reale, è il mondo di Dante Maffia: visto e vissuto con il suo cuore e la sua ragione e in profondità. Un mondo che acquista poi una valenza universale perché Maffia ne coglie l’elemento universale , quello comune a tutti gli esseri senzienti: “al macero dell’invisibile”, rincorre quel pezzo di realtà che è possibile acchiappare prima che svanisca nell’invisibile. Sì gli ego sembrano diversi, ma sono frutto della mente e della fantasia di Maffia, eteronimi che il poeta crea ( anche senza dare loro un nome definito) e che fa suoi immedesimandosi, sono lui e non sono lui, ma non sono nemmeno qualcun altro. Assomigliano ai Bernardo Soares, Alvaro de Campos, Riccardo Reis, ed altri, immaginati dalla fantasia di Fernando Pessoa. Perché alla fine :
    “Il poeta è un fingitore.
    Finge così completamente
    che arriva a fingere che è dolore
    il dolore che davvero sente.” (Pessoa)
    Dante Maffia immagina e descrive il mondo mettendoci dentro realtà e fantasia pienamente. E’ fortemente vitale ed anche ingordo di emozioni e di vita, è un uomo che vive la vita e la realtà pienamente, senza scartare nessuna emozione, e trasfondendo grazie alla sua enorme sensibilità e al suo talento unico, tutto e integralmente in ciò che scrive. Io però non vedrei tutto questo in chiave filosofica richiamando Hegel e Adorno, ma più semplicemente poetica ed umana: Maffia è così, vive la realtà in modo “totale”, in modo totale la assimila. E quando non sarebbe più possibile reggerne degnamente l’esperienza si inventa un altro Maffia, diventa altro da sé e dalla realtà e la vede da fuori in chiave fantastica, metaforica ,o per dirlo meglio: paradossale. Tutti gli ossimori usati i contraddittori e i contraddicendi del Poema, ci dicono anche: la realtà non può essere interpretata in chiave meramente razionale. A un certo punto non arriva la ragione, non arriva l'”io”, ma occorre una lettura per opposti e paradossi, un po’ come nella tradizione sapienziale orientale (si vedano i libri del Tao), o ancora nella filosofia greca presocratica (Eraclito, Parmenide) . La dissolvenza è la fine dell’ “io” così come lo conosciamo.
    “Tutto finisce nella dissolvenza”, dice Dante Maffia. Ecco a questo punto non so se la dissolvenza sia visione del dissolversi di un’epoca e del linguaggio, anche poetico, o invece una visione filosofica e poetica del dissolvimento cui vanno incontro le creature e le cose. In fondo alla fine di tutto c’è la dissolvenza. Gli “ego” si fondono in un unica sostanza universale che li accumunano, ritornano a far parte di quell’unica natura da cui sono nati…..e lì……..forse ritrovano senso e quiete, nel tutto dell’universo. Ma forse, caro Giorgio, come sempre la mia immaginazione mi porta un po’ fuori dal seminato.
    Un’opera unica, imponente e completa. Semplice, apparentemente, come semplice e colloquiale è il linguaggio di Maffia. In realtà opera complessa e grande da tutti i punti di vista. Fonte di stimoli e accrescimento e discussione acuti.
    Sandra Evangelisti

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