Quattordici tesi per una poesia esodante

 

di Ennio Abate

CARENA Felice, 1879-1966, l’esodo

Ho tentato varie volte negli ultimi anni a lato dell’attività del Laboratorio Moltinpoesia di Milano di definire cosa intendere per poesia esodante. L’ho fatto partendo da alcune mie poesie, e in particolare da un testo, Ultimo dialogo tra il vecchio  scriba e il giovane giardiniere (2002-2009)[1], dove ho fissato il passaggio dal mio giovanile, fiducioso, accostamento alla cultura umanistica (unica stella osservabile e accostabile allora per me dal Sud d’Italia) a una fase successiva di contestazione delle idee ricevute e di ricerca poi di un tipo di poesia che tenesse in conto l’esperienza “demitizzante” fatta da immigrato in una città moderna e industriale come Milano (e la sua periferia). Potrei riassumere il percorso come un passaggio da una  (istintiva) poetica dell’io a una (meditata) poetica dell’io/noi.

Oggi chiamo questa ricerca con un nome  un po’ complicato: «esodante» (da ‘esodo’, che  fa riferimento sia al libro della Bibbia sia al dibattito sul concetto di esodo, sviluppatosi in Italia attorno agli anni ’80-’90 del Novecento, condotto con varie sfumature da autori che andavano da Walzer a Negri, a Virno a De Carolis e che ho seguito dalla mia collocazione di “intellettuale periferico”). Potrei  più semplicemente dire, per farmi intendere dai veri ingenui (non dai falsi ingenui): esodo come fuoruscita dai discorsi da cui si proviene; e, nel campo di cui ci stiamo occupando, poesia che non si ferma alla poesia.

In successive altre poesie e riflessioni ho tentato poi, dopo lo shock di quello che ho chiamato immigratorio,[2]di elaborare quello delle nuove guerre “umanitarie”, tenendomi a distanza sia dal dogma dell’autonomia della poesia sia da certa “poesia civile” o “avanguardista” a mio parere standardizzatesi. Ho ridotto il tasso di liricità (senza mai abolirlo, però) e assunto  i temi di un noi o, più precisamente, di un inquieto io/noi  permeabile all’orrore della storia e delle società e in distacco crescente dalle tradizioni culturali del periodo storico in cui mi sono formato (che possono indicare sempre coi nomi comuni e ideologici di destra/sinistra  e cattolicesimo/comunismo). Con l’occhio a questo mio percorso esistenziale, poetico e intellettuale,  propongo qui, schematicamente, queste definizioni-tesi  sulla poesia esodante:

1. La poesia esodante, essendo scritta in Italia, dunque in città occidentalizzate, si sofferma per forza di cose sull’ovattato orrore quotidiano (di “pace”, parcellizzato, quotidiano, normale), ma si sporge  sull’orrore storico del mondo, quello passato e  quello presente e si sofferma sulla politica dei potenti, su guerre,sofferenze, fatti di sangue.

2. La poesia esodante  si sforza di destarsi dal sogno della poesia. Almeno un po’. Ma questo po’ conta. (Perché una certa poesia ha messo radici nel sogno e là vuole unicamente o soprattutto  permanere).

3. La poesia esodante è tentativo di rompere gli steccati (tutti e non solo quelli che comodamente attribuiamo agli altri) in cui oggi sta una certa poesia (minimalista, orfica, formalistica, verginale, adamitica, fatua o agghindata di tecnicismi e manierismi). E rimettersi a contatto con la realtà  e i conflitti sociali, come fecero a suo tempo le avanguardie, i neorealisti e più di recente le neoavanguardie.

4. La poesia esodante rifiuta la netta distinzione tra poesia e politica (pur sapendo i pericoli di una cattiva mescolanza tra le due attività,  non evitati dai sunnominati movimenti: surrealisti, neorealisti, neoavanguardie). Non chiede ai poeti di tramutarsi in politici o di  mescolarsi con loro, ma di maneggiare la politicità del linguaggio (anche di quello poetico) e farla incontrare con quella di veri costruttori di polis.

5. La poesia esodante abbandona l’oasi di piacere-libertà-bellezza della Poesia. Che non esiste. Che è un’ideologia della poesia, non dissimile dal vischioso petrolio di brutti pensieri-teorie-ideologie –  prodotto a barili dagli specialisti dell’orrore del mondo e della storia.

6. La poesia esodante mira a ciò che la poesia migliore – che parta dall’io lirico  o da un noi epico – ha sempre fatto: pensare l’orrore del mondo e della storia. Non ha cambiato il mondo, ma la testimonianza dell’orrore l’ha sempre data e in modi spesso più penetranti di altri saperi. La poesia esodante non cambierà il mondo? E con questo? Può però pensarlo. Non ha armi per rivoltarsi assieme ad altri? Forse, ma  sa che nel passato ci sono stati poeti capaci di  pensare, poetare e anche agire con altri, molti altri e non con le solite élite dei potenti.

7. La poesia esodante è quella di poeti che sanno di non essere liberi. Che non cercano nella poesia compenso individuale alla illibertà crescente delle società. Che non coccolano una loro presunta libertà,  che consisterebbe (come fossimo ai tempi della Controriforma) nello scrivere al di fuori delle “precettistiche”. Visto che il vero, unico, Precetto, cui siamo tutti  sottomessi, anche quando scriviamo poesie, anche quando assaggiamo un pizzico di “felicità” in poesia, è quello del Capitale, un Padrone e Nemico che pochi tra noi oggi sanno nominare, riconoscere e contrastare.

8. La poesia esodante sa che la bellezza, quella che ancora può esserci anche in poesia, è segnata dall’orrore e vi convive. La bellezza non è tutto, non viene neppure «innanzitutto»; e, se la si indaga senza innamoramento estetico, non può che mostrare anch’essa l’orrore del mondo e della storia. È segnata da quello. Gronda, pur essa, di «lagrime e sangue», che non si vogliono vedere. Lo sapeva bene, perché l’orrore storico stava per ghermirlo e la bellezza non gli fu scudo sufficiente dai colpi mortali in arrivo, Walter Benjamin. Affermare, come alcuni insistono a ripetere, l’inscindibilità di  poesia e bellezza è  non tener conto che la poesia, se copre con la bellezza l’orrore, di esso si nutre e si fa complice. Meglio che la poesia esodante sappia mostrare la fragilità e la forza dei desideri umani senza ricorrere al feticcio della Bellezza.

9. La poesia esodante non liquida la domanda fondamentale su quali siano i modi con cui la realtà può entrare in poesia. Sa che essa  “così com’è” non entra nelle parole della poesia come in una scatoletta preconfezionata. Come del resto non entra in una formula matematica o chimica o in un concetto filosofico. Sa che la realtà sfugge alla forma. Sa che la forma (e la forma in generale, non solo la “bella forma”) è in sé  già distanziamento (problematico), se non repulsione (problematica) della realtà.  Fortini ricordava che la forma è segnata dal marchio secolare dei dominatori. E lo stesso marchio segna pure la “non forma” (variante in effetti della forma), adottata da quanti (le avanguardie) hanno creduto così di aver trovato una scorciatoia per trasgredire e aggirare il potere della forma (che è potere,  da alcuni secoli, del Capitale).

10. La poesia esodante riconsidera dal suo punto di vista i tentativi sia dei poeti fedeli alle forme della tradizione, che  in quelle vecchie botti immisero nuovo vino sia dei poeti che hanno voluto slogare le forme tramandate facendosi camaleonti  e mimi di quelle caotiche o mostruose o “patologiche” accumulatesi in epoca moderna e postmoderna. Pensare in poesia l’orrore del mondo non può significare cedere a tale orrore, al  Niente, all’«enorme, indomabile inconscio biologico, un inconscio preumano e postumano, dove tutto è in metamorfosi» (Berardinelli),  che troppi vedono scorrere e gonfiarsi nel fondo dell’abisso storico degli ultimi secoli o  di tutti i secoli. Non ne verrebbe un linguaggio (indispensabile approdo per il poeta) capace diaccogliere in sé  la “forma informe” o «senza limiti e senza confini» del mondo, ma la resa ad esso e la negazione del fare poesia.

11. La poesia esodante non  è surrogato o ripresa dell’impegno (etico, politico) in poesia. Guarda con rispetto a quelle esperienze, le difende dalla denigrazione degli odierni revisionismi, però non si fa riassorbire in quelle poetiche. Per la semplice ragione che sono venute meno tutte le condizioni sociali e culturali che negli anni del secondo dopoguerra e attorno al biennio ’68-’69 le permisero e sostennero. A riproporle artificiosamente (come si è tentato di recente con l’antologia «Calpestare l’oblio») si svela presto l’equivoco di ogni rifondazione. La poesia esodante sa  che la sua eticità e politicità sono da costruire e da controllare su un terreno più ignoto, non su quello di una qualche rassicurante tradizione.

12. La poesia esodante si distanzia sia dal formalismo (o estetismo) sia dal contenutismo (spesso mera propaganda dell’ideologia del Noi dominante). Il contenuto, però, va giudicato anche quando ben formalizzato! Contenuti che, con  i saperi in nostro possesso, giudichiamo nichilistici, prevaricatori, individualisti, antisemiti, razzisti, anche se raggiungessero in poesia una forma esteticamente originale o persino sbalorditiva, pur essendo de-realizzati (una cosa è ammazzare, altra rappresentare un omicidio) non diventano “altra cosa”, non vengono mai del tutto “sublimati”; e non devono pertanto sfuggire  a una verifica  critica rigorosa. La loro messa in forma  non li “riscatta” dalla melma storica. Restano latenti con la loro carica positiva o negativa (o ambigua) nell’opera. Tra tirannide e libertà, dominio e  lotta per liberarsi dal dominio (o ridurlo) il contrasto è ineliminabile (e storicamente irrisolto). La poesia lo può attenuare, svelare (Foscolo), occultare ma lo può anche sottilmente esaltare, non essendo mai del tutto neutra. La poesia esodante, dunque, è sempre accorta alla doppia faccia della poesia: oggetto estetico con un suo particolare fascino; grumo di contenuti storici conflittuali mai del tutto spenti.

13. La poesia esodante  resta poesia e si muove all’interno del discorso dell’«ambivalenza». Non è discorso diretto, ma indiretto. Non può essere mai immediatamente discorso politico (anche se – ripeto – è in rapporto con la politicità innanzitutto del proprio linguaggio). E non può essere neppure discorso immediatamente corporeo, emotivo, vitale.  Può muoversi in una zona definibile lirico-politica o dell’io/noi.  È/potrebbe essere poesia esodante quella che rivela  una sua politicità, anche quando parla di una rosa (Celan per tutti). O  quella che ha una sua liricità, anche quando  parla di un orrore storico ben preciso e nominabile con altri saperi. Riconosce che anche nell’io isolato ci può essere non solo  universalità generica ma politicità. E sa pure che il noi non è sempre e solo ideologia, negazione della individualità, comunitarismo più o meno fusionale e tribale.

14. La poesia esodante è critica continua, intelligente, tenace, di  tutto quanto ci impedisce di accedere a una maggiore comprensione della realtà (e della poesia e delle forme e delle tecniche per dir meglio e con più efficacia quello che abbiamo da dire su noi e sul mondo). Tale critica è in parte accompagnamento (musica di sottofondo) dell’atto poetico e in parte svolta proprio tramite esso.  La poesia esodante non si dà perciò un fine astratto da raggiungere (fosse la bellezza, la morale, l’impegno politico o altro)  Essa  critica di fatto  i Valori se si presentano come astrazioni pericolose, ideologie, impedimenti della stessa ricerca poetica. Per poesia esodante non s’intende  la propaganda di un valore qualsiasi, né una forma  laico-borghese di religione o un’autoterapia o un’autoconsolazione. S’intende, invece, un’attività intuitiva-pensante in sintonia per quanto  è possibile (come accade anche per le scienze e altre forme di conoscenza) con le trasformazioni del mondo reale (preciso: interno ed esterno; soggettivo e oggettivo).

 


[1] Ultimo dialogo tra il vecchio scriba e  il giovane giardiniere

 

Vecchio scriba –

 

I particolari del nostro incontro sui banchi di scuola o in fredde sagrestie del sud contano poco ora. E pure le ragioni del distacco. Il tempo che spendesti in mezzo a noi fu però di buona semina. Ti prendemmo sul serio. Ti demmo pensieri e sensi ordinati non solo divieti. Poi trasgredisti, ci odiasti e dovemmo precluderti i nostri cenacoli. Nulla nel loro corporeo conflitto con la Parola risolvono le rivolte affascinate dal disordine dell’infida parte di tutti noi che per sempre o a lungo resterà oscura. Da solo o con altri tu pure ne hai saggiato il grumo viscido. Esploralo quanto vuoi, se insoddisfatto dalle marmoree distanze delle nostre grammatiche e retoriche, ma non trascurare l’umano, cui in forma semplice mirò la nostra scrittura. Anche dopo il nostro naufragio non dimenticare i forzieri conservati nei nostri inabissati vascelli. Altri mondi sconvolti ti hanno attraversato e invaderanno. Ma scrivi sulle orme del nostro antico e logico disegno. Evidenziale, anneriscile, se hai solo il nero. Preziose sono anche le residue ombre.

 

Giovane giardiniere –

 

Il mondo-presepe contadino si sconnetteva e carbonizzava in simboli oscuri già mentre m’allontanavo dal vostro giardino di parole. Del mondo moderno, dai vostri seminari non previsto o temuto, spiavo in pochi libri forme, sintassi e ritmi irregolari. Parevano più vicini ai moti del mio corpo, al mio respiro affannato dalle corse. Ne divenni ladro studioso e ingordo. Fatti adulto! Fatti artista! Fatti politico! Fatti pratico! – ingiunsero poi voci autorevoli da accademie, partiti e università al giovane magro e silenzioso in fuga, che solerte tutte le ascoltava e teneva a bada pensieri di bimbo ingabbiato, reliquie di preti e professori di liceo, languori e pene di periferia. Accumulai appunti di parole d’amore e livore, grafismi di fiabe e carnevali pezzenti. Ma se scrivo di te, di voi miei lontani o vicini maestri, intendo subito ora addentro alla carne delle vostre parole le punte di complicità col discorso d’ignoti nemici. Non sbagliai perciò ribellione quando ne addentai con sarcasmo certi suoni soavi e interrogai diffidente quelle sincopi improvvise, quei crescendo crepitanti di Valori. Quell’umano ideale e il vigore ambiguo della vostra stretta autorevole discendevano da materiali e potenti domìni, da timori quanto e più dei miei arcaici di fronte ai Velati della Parola cortigiana e solo in apparenza clemente; e non dalle celesti Figure che predicavate. Sbagliai, invece, ad implorare ancora da voi e con ghigni da escluso la restituzione del tempo che pensai catturato e custodito nelle vostre sacrestie e biblioteche, nelle preghiere, nelle formule metriche apprese e che oggi vagamente ricordo. No, voi avevate giudicato trascurabile lo scarto tra il vostro educandato e le mie ansie predatorie, nessun ascolto deste alle memorie del dialetto o all’odio per la servitù subìta in nome dell’angelicata Fraternità che plasmaste. Il vero d’infanzia e gioventù lo ritrovai, assieme alle catene, negli anni della rivolta e poi della solitudine. Deperito ora lo shock del moderno, resisto senza la vostra antica Parola al mondo dell’Istante replicato in orride serie. Una più subdola e mondiale impostura viene impressa a sbalzo su noi tutti e ridimensiona pure il vostro potere di declassati signori di una volta. Sulle vostre orme e ombre ho scritto e a volte riapro i telematici forzieri dove seppelliscono, antiquaria mercanzia, la Parola e l’Uomo. Ma so che esse non sfamano i profughi e i migranti, che nella mente clandestina ho accolto. Né i pani e i pesci del vostro privilegiato convivio si moltiplicheranno per i molti reietti che incalzano. Altri immigratori ci attendono. Non comunità dialoganti. Dietro il simulacro dell’Uomo da voi indagato ben più ampio del prevedibile è l’orrore da pensare e scalzare.

 

[2] Vedi Ennio Abate, Immigratorio,  Edizioni CFR, Piateda 2011

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  • «questi poveri diavoli non capirebbero un parere negativo e la prenderebbero come un’offesa personale. E allora tanto vale non farsi dei nemici inutili».
    «sì, io scrivo solo in positivo degli autori che mi possono essere utili».

    Questo idealtipo di Poeta di regime, reale o inventato che sia, dice a suo modo su di sé due verità:

    1. l’attaccamento alla propria scrittura è attaccamento al “particulare” che essa permette di coltivare. Ma il “particulare” acceca. Non permette di vedere più gli altri se non come i “prossimi”, o “simili” o i più “vicini”, ovviamente plaudenti, approvanti, elogianti. Gli altri – oggi i “moltinpoesia” (dico io) – sono vissuti da questo tipo di poeta ( o critico) solo come minaccia. E così egli diventa sempre più miope e si autoreclude: non pronunciandosi sui testi o sulle idee altrui diverse o in contrasto con le proprie, è vero che non si fa «nemici inutili», ma non s’accorge più che, al di là del suo naso ( al di là del suo “prossimo”) in quella folla amorfa dei poetanti che egli respinge e inconsciamente teme, potrebbero esserci AMICI O NEMICI UTILI. Utili per la propria ricerca; e, più in generale, per la poesia che egli coltiva, ma secondo i vecchi riti dell’individualismo ( e quindi appoggiandosi, senza dichiararlo o parlarne, perché certi discorsi sono tabù, su una corporazione o cordata o clan).

    2. Scrivere soltanto «in positivo» sugli autori che possono tornare «utili» significa, appunto, rafforzare lo spirito individualistico (che é di parrocchia o di cordata o di clan) e rafforzare la propria posizione entro la parrocchia o cordata o clan, a cui si appartiene o si crede di appartenere.

    Difficile è sbarazzarsi di questa ideologia: da una parte l’Individuo ( il Poeta) e dall’altra la folla amorfa a cui appartengono sempre e soltanto “gli altri”.
    Suggerire di avvicinarsi a questa folla amorfa per vederci dentro altri individui e singoli, che si dibattono negli stessi problemi di autoriconoscimento e riconoscimento che ha il Poeta e hanno i suoi amici?
    Ma si può sempre provare.
    Anche se ci sono casi idealtipici di poeta di regime (democratico) davvero disperanti.
    Non ci credete?
    Leggete l’intervista di Magrelli su LE PAROLE E LE COSE (qui: http://www.leparoleelecose.it/?p=6763)e i commenti che ha suscitato.

  • si dice che oggi la scrittura (anche quella poetica) è rotta, spezzata, frammentata, dis-locata etc., si dice che la velocità del mondo induce la scrittura ad essere sempre più veloce, elettrica, galvanica, instabile, emotiva, sentimentale, elegiaca (dalla Tamaro a Moccia, dalla Patrizia Cavalli a Mariangela Gualtieri), si dice che la contemporaneità appiattisce sia il romanzo che la poesia perché appiattisce la prospettiva mediante la imposizione di un eterno e coesteso presente; si dice che la scrittura paratattica ed emotiva è imperante e onnipervasiva a discapito di quella ipotattica e riflessiva; si dice che oggi scrivere un romanzo o una poesia è diventata una cosa che più facile non si può… il risultato è che tutti scrivono romanzi e poesie. È diventata una vera alluvione che nessuno può più fermare. Ma poi, in fin dei conti, mi viene la tentazione e mi chiedo: «perché sprecare energie per tentare di arrestare questa valanga?», e così continuo: «tanto vale darle una leggera spintarella verso il basso, scrivere che tutti sono bravi e tutti sono bravi scrittori e poeti e così fare in modo che tutto vada alla malora il più presto possibile, nella pattumiera, nella spazzatura!».
    Poco tempo fa un noto poeta (di cui non faccio il nome) mi diceva che ormai a chi gli chiede un parere sulla propria poesia lui sciorina soltanto complimenti ed atti di assenso, «tanto – mi ha detto – questi poveri diavoli non capirebbero un parere negativo e la prenderebbero come un’offesa personale. E allora tanto vale non farsi dei nemici inutili».
    Devo dire che ho riflettuto a lungo su questa sua posizione. E devo ammettere che la trovo razionale, convincente, perfino condivisibile. Però io continuo a muovermi in senso opposto: a chi mi chiede un parere inviandomi un libro di peosia io rispondo scrivendogli il mio parere senza censurare le mie eventuali perplessità. È una questione, credo, di onestà. Non è che io mi illuda di voler arrestare la massa-fiume della produzione libraria italiana, è che non ritengo che nell’ambito delle mie facoltà ci sia anche quella di dire una bugia, una cosa per un’altra. Io, nella mia veste di critico, non posso che continuare ad esprimere il mio pensiero critico sulla enorme produzione libraria di poesia. Non ho altra scelta che questa. Non so se sia una questione etica o estetica o di semplice decenza, è una regola che mi sono dato. Gli altri facciano quello che credono sia meglio.
    Quel noto poeta mi ha detto: «ma non capisci che questo tuo comportamento ti porterà svantaggio e soltanto inimicizie?».
    Al che io ho risposto: «mio caro… e allora che cosa dovrei fare, dire che sono tutti bravi e tutti grandi poeti?».
    E lui candidamente ha replicato: «sì, io scrivo solo in positivo degli autori che mi possono essere utili».
    Stop. Fine della questione. Il Sig. Provenzale chiede dei testi? Prego, si accomodi: ce ne sono milioni sul web.

  • come i versi esondano nel mio blog, credo da nessun’altra parte 😉 d’altronde i manifesti, senza versi, hanno poco senso

  • Ringrazio tutti gli amici che hanno commentato questo post e rispondo:

    @ Lucio Tosi

    Siamo, anzi sono (perché davvero l’attenzione a queste tesi per ora è, come vedi, limitata ad alcuni amici) appena agli inizi di un discorso e sarebbe intempestivo e presuntuoso pensare già ad una antologia di poesia esodante.
    Verso le antologie che si vedono in giro e il bisogno di antologizzare la poesia contemporanea crescono le mie riserve. Ho avuto modo in un commento sul sito di LE PAROLE E LE COSE a proposito di un’antologia di “poesia delle donne” di motivarlo e qui riporto quanto da me scritto:

    «la collocazione pubblica della poesia in Italia negli ultimi 20 anni e’ veramente precipitata, assieme alla sua percezione presso i non specialisti. Molte migliaia di persone scrivono versi e alcune migliaia ne pubblicano ogni anno a pagamento. Ci sono decine e decine di case editrici regionali, provinciali, individuali che sono a tutti gli effetti vanity press. La gente si stampa, si fa leggere dagli amici di parrocchia, si costruisce un CV e si crede poeta. Dall’altra parte, le 2-3 case editrici dal catalogo storicamente importante si sono dedicate ad esperimentini su base sociologica (Einaudi) o a perpetuare una linea culturale ormai imbalsamata (Mondadori). Sia le une che le altre incidono zero su quel che sta all’esterno dello stagno poetico, inclusa la pubblicistica (che preferisce citare le canzonette invece dei versi dei poeti, che peraltro nemmeno conosce). Fra la cooptazione all’italiana e il todos caballeros di chi paga, non vedo grandi differenze di qualita’ letteraria, almeno nelle punte piu’ alte. Credo anche che la medaglia piu’ pesante sia oggi stare *fuori* da qualsivoglia antologia e *fuori* da qualsivoglia operazione editoriale a pagamento.». (Il fu GiusCo)
    Questa lucida diagnosi mi pare un buon punto di partenza per porre il problema di come essere positivamente molti in poesia oggi.
    Si può continuare imitando i vecchi riti dell’epoca dei pochi in poesia e darsi da fare, appunto, producendo antologie, che pescano qualcosa del mare magnum turbolento e in parte ignoto della produzione poetica attuale o che passa per poetica; e inevitabilmente, essendo comunque tante le antologie e spesso costruite approssimativamente (poiché il lavoro critico è stato dismesso o è anch’esso in condizioni precarie), il loro effetto sarà limitato: al vociare dissonante della massa poetante non si può che sostituire un vociare appena meno dissonante e incerto o pretenzioso, dei poeti selezionati o “emergenti”.
    Si può prendere atto di una cesura storica, evitare di proseguire coi vecchi riti, porsi seriamente o come singoli o come gruppi il problema di come essere positivamente molti in poesia oggi imponendosi i compiti che ne derivano: costruire una nuova estetica, una nuova critica, una nuova politica editoriale (e quindi frenare la voglia di pubblicazione a tutti i costi, frenare la produzione a catena di montaggio di testi, andare in direzione di quella ecologia della scrittura e della lettura che una volta F. Fortini consigliò…)
    Stare *fuori* (e non solo da qualsivoglia antologia o da qualsivoglia operazione editoriale a pagamento) ha un senso se si lavora pazientemente e con determinazione ad un’altra prospettiva. Altrimenti sembra che ci si metta da soli in castigo o ci si distingua moralisticamente dagli altri.
    Ci vuole un’altra prospettiva.

    @ Giorgio Linguaglossa

    L’aroma biblico nel termine ‘poesia esodante’ è secondario. Almeno per me pesa di più l’atto, la volontà di uscire ( ho scritto « esodo come fuoruscita dai discorsi da cui si proviene; e, nel campo di cui ci stiamo occupando, poesia che non si ferma alla poesia») e il soggetto concreto che lo compie (quell’«inquieto io/noi permeabile all’orrore della storia e delle società). Comunque mi pare che concordiamo in questa esigenza. Ed è la cosa più importante, per cui possiamo anche lasciar perdere polpette, uova sode e ostriche. Troveremo di meglio, spero.

    @ Beppe Provenzale

    Meno male che al dibattito tra «sempre meno pochi intimi» tu non manchi mai.
    No, delle tesi da discutere non sono dei comandamenti. E perciò faresti bene a discuterle nel merito.
    Mi chiedi se valgono anche per i non infelici e i «cretinetti». Ti rispondo ma esodare dal risaputo implica coraggio e tenacia e non è operazione per depressi o infelici o beati «cretinetti». Buona passeggiata.

  • Leggendo le “tesi” di Ennio ho scoperto di essere parecchio esodante, anche se ho sempre pensato di essere un poeta di periferia, montanaro e mezzo svizzero, che non ha nulla da dire che i milanesi e i romani già non sappiano (per questo mi metto coi terroni, con la grande sepolta poesia del meridione). Io credo che Ennio, nelle sue tesi, abbia dipinto il modello (a me molto caro) di come fare poesia se NON si vuole avere successo: funziona alla grande. Il successo infatti è pericoloso: compromette il proprio buon nome e l’autostima. Avere successo in questa koiné letteraria è davvero preoccupante, a mio avviso. Si potrebbe ancora migliorare, questo modello, aggiungendo alcune caratteristiche tipiche di chi concepisce la poesia come “pensiero poetico” (prima, o magari soltanto “insieme”, al cosiddetto “linguaggio poetico” che nessuno sa cosa sia – per fortuna) capace di alludere a qualche senso e capace di pro-vocare una qualche reazione a-logica o magari irrazionale in chi legge. In ogni caso, ben venga tutto ciò che aiuta a sovvertire l’idea di una poesia nata dal rinnegamento o dalla imitazione delle poetiche del ‘900, scegliendo una via (guarda caso ancora “umanistica”) di una poesia che non nasca per contrapposizione a qualcosa, ma per proposizione di qualcosa d’altro.

  • Non entro in merito a quest’altro dibattito per sempre meno pochi intimi, ma osservo: queste definizioni/decalogo/manifesto dal sapore di comandamenti (così sofferte da Ennio Abate che ce le pompa per condividerle) valgono anche per chi, non emigrato in città ‘occidentalizzate’, non é approdato in periferie d’infelicità?
    (… perché l’esodato non é tornato indietro? Perché l’Occidende é più permissivo ed esondando invece nel luogo d’origine rischia d’essere preso a pedate o peggio ignorato)

    Queste definizioni/ecc. sono proibite o valgono anche per quei cretinetti che interrogano cuore, sentimenti elevati e apprezzano la natura e la parte migliore dell’Umanità? L’interrogativo é urgente, ma si può vivere anche senza una risposta.

    Abbandonando desk e librerie, dalla cucina emergono mini-pensieri sulla Critica Zoppa (mai d’accordo con se stessa) che analizza le bucce delle banane per scrivere Bananari (ma tralasciando il sapore del frutto) e la Militanza a Senso Unico che vorrebbe sostituirsi a tutto. Rima casuale.
    Entrambe sono per palati sopraffini ‘ostriche e champagne’ (ma dai!) e anche se partite martellanti, adesso falciano l’erba dove la trovano. Polpette e uova sode sono sempre più rare; meglio mettersi a dieta e fare Salutari Passeggiate. Io, infatti m’interrompo e vado.

  • Tra l’afrore di polpette e uova sode di Giorgio e le argomentazioni di Ennio ognuno di noi dovrebbe farsi un bell’esame di coscienza ; dirsi se la propria poesia è confezionata dall’ego o se ( almeno in parte ) dall’urgenza di “leggere” una realtà becera con l’antagonismo di parole adeguate . Bisogna partire da una consapevolezza , quella affievolita/clonata da vent’anni di spazzatura culturale( segnatamente televisiva ) . Il web può fare molto e non va sottovalutato , anzi . Bisogna insistere perché un atto di opposizione alla miseria dei tempi faccia il contropelo all’odioso disimpegno che sembra inattaccabile ma non lo è ( utopia ? ) .

    Grazie

    leopoldo attolico –

  • caro Ennio Abate,

    l’amministrazione da economia domestica cui la borghesia sottopone l’arte non lascia a quest’ultima neanche una possibilità di sopravvivenza se non tende fino all’estremo l’arco con tutte le proprie forze. Mi sembra chein tempi come questi ci sia ben poco da dire. Le cose che tu dici sono condivisibili, le prendo come una piattaforma di idee, ma è il nostro tempo, caro Abate, che ha messo le idee nel frigorifero, in attesa di tempi migliori. Gli intellettuali intanto sono finiti in cucina, preparano vivande e pasticci per la mensa della borghesia mediatica, e i recensori srturano le bottiglie di birra che il vivandiere ha nella dispensa. C’è afrore di polpette e uova sode, mio caro Abate, c’è sentore di pietanze a buon mercato per palati non certo sopraffini. E in questo contesto, mi chiedo, e ti chiedo: a che pro offrire ostriche a clienti che si cibano di polpette e uova sode?
    Ha davvero ancora senso preparare le ostriche per i barbari che sono già entrati nella polis e che adesso discettano e pontificano della bontà delle loro polpette?

  • caro e generoso Ennio Abate,

    capisco la tua direzione di ricerca, apprezzo e stimo la ricerca che vai compiendo… la poesia esodante (il termine non mi piace molto per via di quell’aroma biblico della sua etimologia che me lo rende ostico e antipatico), condivido anche tutti i punti che hai esposto con dovizia di intelligenza teorica (in questi giorni cosa rarissima)… ritengo che la tua direzione di ricerca si iscriva nel solco di quella che io chiamo post-poesia, una “cosa” che si iscrive nel post-contemporaneo (dizione di Roberto Bertoldo)… tutti concetti che ho indagato in un libro di critica di prossima pubblicazione dal titolo inequivoco «Dopo il Novecento.Monitoraggio della poesia italiana contemporanea», dove passo in rassegna un certo numero di autori contemporanei, li attraverso in diagonale, per cercare di vedere in che direzione si muove la poesia (e in che direzione va ilmondo). Personalmente, io sono dell’idea che un critico più che alle esternazioni teoriche si debba calare nell’attraversamento dei testi di poesia, è lì che l’ermeneuta come uno speleologo deve tentare di rintracciare un filo conduttore, una carrucola che lo porti nel cuore dei problemi, al centro delle questioni.
    comunque, in questo deserto di idee che c’è in giro le tue proposte sono come un sasso gettato nello stagno.

    con stima, giorgio linguaglossa

  • Grazie per queste 14 tesi sulla poesia esodante. Nella confusa galassia poetante un punto di partenza per nuove riflessioni, per iniziare a ripensarsi in un progetto.
    Flavio

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