Appunti n.25 – Elio Pagliarani: retrospettiva

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[Ho conosciuto Elio Pagliarani nell’inverno del 2005. Avevo deciso di inviargli un mio testo, un lungo poemetto che aveva per soggetto delle giovani donne, mi sembrava che ci fosse un’affinità con La ragazza Carla. In quel periodo mi trovavo a Napoli ed inaspettatamente ho ricevuto sul cellulare una telefonata del poeta. La cosa mi ha sorpreso, ero felice, emozionato. Dopo quella telefonata, ce ne sono state tante altre. Mi parlava dei suoi progetti, avrebbe voluto curare un’antologia di giovani poeti e inserire anche i miei testi. Ma era stanco e malato, non era sicuro di volersi cimentare nell’impresa.

Ho avuto modo di incontrarlo di persona una sola volta, in occasione della festa per i suoi ottant’anni. Eravamo al teatro Colosseo di Roma, ho letto in sua presenza le Ottave milanesi. Lui era seduto in prima fila e accompagnava la mia lettura, come quella di tutti gli altri accorsi per festeggiarlo, con un sorriso entusiasta e un ampio movimento delle mani. Non sembrava sentire il peso dei suoi anni e della malattia, è rimasto con noi in teatro fino a notte tarda. Baudelaire diceva che la generosità è propria dell’uomo di genio ed io non posso che ricordare Elio Pagliarani per la sua enorme generosità. La sua poesia è tra le poche all’altezza dei tempi, tra le poche che riesca a reggere l’urto di un’epoca antipoetica. Mi auguro che questi miei brevi saggi riescano in qualche modo a spiegarne il motivo.

I tre scritti che presento in questo numero monografico dedicato ad Elio Pagliarani fanno parte di un lavoro esegetico più ampio su Lezioni di Fisica e fecaloro. Qui presento la mia interpretazione della prima, della seconda e della quinta lettera comprese nella prima sezione del libro del 1968. Altri interventi sulle “egloghe” sono stati pubblicati in riviste e su blog di critica letteraria. V.F.]

 

Proseguendo un finale.

Il libro del 1968 Lezioni di fisica e Fecaloro inizia con un capitolo composto da sei Lettere o egloghe, come le chiama lo stesso Pagliarani, inviate ad amici e importanti personaggi della cultura del tempo[1].

In queste lettere si discutono questioni di poetica e di estetica fondamentali.

Il nucleo tematico che interessa questa prima parte del libro si può racchiudere in due punti: in primo luogo, con queste lettere Pagliarani riprende il coro finale di La ragazza Carla ed è come se lo dilatasse, trasformandolo in una lunga trattazione di estetica; si passa così dall’epica del poema del 1960 all’epica didascalica delle Lettere[2] in secondo luogo, nel fare questo, il poeta tiene presente il dettato della poesia sperimentale che lui stesso ha pronunciato nel 1965[3].

Nella prima lettera, rivolta a Fortini, Proseguendo un finale, Pagliarani riprende espressamente, come dichiarato nelle note al testo, la parole finali del suo poema facendo del rapporto che unisce l’amore, la conoscenza e la forza il centro della sua missiva; la seconda lettera, rivolta a Pestalozza, dal titolo La pietà oggettiva, si concentra sul senso di una pietà laica nata dall’aver osservato le estreme possibilità dell’“essere” uomo; la terza lettera, rivolta a Alfredo Giuliani, dal titolo Oggetti e argomenti per una disperazione, discute sul senso stesso del fare poesia; la quarta egloga, Lezioni di fisica, rappresenta il centro di tutta l’operazione poetica di Pagliarani, è indirizzata ad una non ben identificata donna dal nome Elena; la quinta, dal titolo Dalle negazioni, si concentra sulla possibilità della raffigurazione in arte e nasce da uno sodalizio con il pittore Giò Pomodoro; la sesta, Come alla luna l’alone, inviata ad Achille Perilli, ruota tutta intorno al significato della parola rivoluzione.

Tra questi testi c’è una diretta relazione. Lezioni di Fisica è inaugurato da un testo che si intitola Proseguendo un finale e sembra essere una dichiarazione di continuità, almeno sul piano etico, rispetto a quanto cantato nel coro finale di La ragazza Carla. Ciò che muta in modo sostanziale in questo nuovo libro, pubblicato otto anni dopo il poemetto sull’impiegata dell’Olivetti, è il riaffacciarsi dell’io del poeta e l’ipermetropia del verso. La poesia di Pagliarani si avvicina sempre di più alla prosa, ma non è una prosa poetica è poesia a tutti gli effetti. È come se il poeta continuasse il coro del finale e allo stesso tempo indagasse le ragioni per cui quel coro non cessi e non permetta nuovamente alle eroine del quotidiano di tornare in scena. Il poeta, l’io poetico, l’ “io personaggio”[4], occupa il testo con i suoi dubbi. Se parlassimo di tragedia greca dovremmo dire che il dionisiaco domina, e in effetti adesso si iniziano ad indagare, con strumenti modernissimi, le ragioni della dismisura. Il testo è indirizzato a Franco Fortini, al poeta che più di tutti in quegli anni, ha analizzato gli istituti e gli strumenti poetico-letterari alla luce della società di massa e delle sue forme di potere. E forse il finale che continua è anche una risposta che ancora si deve al grande critico e poeta.

Fortini proprio nel 1968 ha pubblicato due saggi polemici nei confronti delle Nuove Avanguardie nei quali si rimprovera il gruppo di concepire la poesia come “negazione radicale” contro “il compromesso dell’incarnazione” o della “mediazione formale”[5]. Il limite intravisto da Fortini in questa posizione è appunto quello di “congelarsi nella negazione”. Fortini ragiona secondo un’ottica hegeliana, filtrata dalla critica di Lukàcs, secondo la quale la poesia deve approdare dopo la negazione ad una Vermittlung (mediazione), ossia ad un momento di sintesi. La condivisione, che è poi l’oggettività dell’opera poetica, è insieme conoscenza e superamento del reale. La colpa delle neo-avanguardie, a parere di Fortini, nasce invece dalla negazione radicale che testimonia “un forte istinto di autodistruzione”. La negazione della forma nelle neo-avanguardie, ha, secondo Fortini, le sue radici nelle avanguardie storiche, ma, contrariamente a queste, si preparava all’inserimento immediato nel mercato. L’arte priva di Vermittung è anch’essa merce[6].
Con i suoi argomenti, Pagliarani risponde alle critiche di Fortini. Lo fa con i suoi argomenti. La questione estetica è la raffigurazione di un corpo in un contesto di alienazione radicale, di sradicamento dal mondo dovuto alla mercificazione della vita.

Rispetto alla critica di Fortini bisogna dire che la poesia di Pagliarani, più che funzionare come arte d’opposizione alle forze del reale, funziona come intensificazione poetica di questioni laceranti. Pagliarani, come lui stesso ha affermato, assume su di sé le contraddizioni del mondo contemporaneo. La risposta a Fortini impegnerà Pagliarani anche nel finale della sezione sulle Lettere[7].

La propensione di Pagliarani, anche se frustrata, resta quella realistica. La lettera a Fortini rende ragione di questo. Scrive Pagliarani:

L’angoscia intellettuale della gioventù quando scopre insufficiente

L’intelletto, cioè la capacità della ragione di distinguere
Com’è lontana, Franco: era quella che chiamavamo
angoscia esistenziale?

La lettera comincia con una domanda retorica. Il poeta giunge subito in media re e sembra descrivere lo scenario sociale dell’inizio del ventunesimo secolo. Ciò che manca alle nuove generazioni è l’angoscia esistenziale, la percezione della propria morte, della propria essenza finita. Questo il motivo della mancanza d’intelletto ossia la capacità di distinguere le cose. Manca la capacità distinguere e quindi di individuare le identità. Ma “ancora più grave” è “la carnale scoperta dell’amore sintesi”:

[…] Perché è lontana anche la carnale
Scoperta dell’amore sintesi
E dell’insufficienza anche di questo
Sapendo perfino che cosa vuole di più
-Ma più capisci e più ami più pesa la tua parte d’Atlante
Lo so perché lo dirò ma in un certo contesto
Solo a dirlo mi sento grottesco
La forza. Senza forza
Amore e intelletto nemmeno servono
A definire se stessi, ma per quant’altro poco sappia della vita
Quanto attrito che brucia, assieme come sono stridenti![8]

Ciò che non permette la forma come Vermittung, è che non esiste un corpo, una presenza carnale. Il corpo è la spia delle differenze e quindi dell’individuazione, dell’identità. Il poeta, che ha cantato la fine del corpo ideale con la ragazza Carla, presenta uno scenario storico e letterario in cui la presenza del personaggio e dello spazio mondo che ad esso si riferisce non è garantito né dalla “progettualità esistenziale” (dall’angoscia di fronte alla morte), né dall’intelletto, né dall’amore. I corpi che mancano d’amore, angoscia ed intelletto non hanno figura, sono privi d’immagine. Questi versi spezzati ed ipermetropi riproducono lo spasimo dell’alienazione, il reiterarsi della dispersione. L’unico elemento che il poeta ora riconosce in quanto agente del reale e della stessa versificazione è la forza. Ritorna la forza come centro della poesia. Pagliarani lascia scritto in un verso apodittico e sublime allo stesso tempo che “senza forza [,] amore e intelletto nemmeno servono a definire se stessi”. Per sostenere un mondo, “la tua parte di Atlante”, c’è bisogno di forza. Nell’epica antica, la dispersione e la conservazione si riconoscono in quanto forze quando nel polemos raffigurano un corpo, frutto della resistenza. Ciò che agisce nel mondo e nella forma della nuova poesia è la forza della dispersione perché manca la scoperta carnale. Ma la dispersione, da sola, non è una forza. Senza polemos non c’è forza. Alla critica di Fortini Pagliarani non può che rispondere con il risultato formale del nuovo che avanza. La messa in versi della dispersione radicale. Siamo in circolo vizioso che il poeta si ripromette di spezzare. La poesia assume il nuovo compito di conoscenza del reale e di azione sul reale, il poter ridare fiato allo scontro. L’incognita resta radicale. Solo ora il poeta ci dice che l’amore e la forza e l’intelletto, ossia la consapevolezza di questa radicale esposizione sul futuro, devono essere rintracciati. Questa indeterminazione deve raggiungere un punto comune di visione e una forza tale da sostenere questa visione.

Questo punto, questo centro Pagliarani lo raggiunge all’altezza della lettera sulla fisica e sul corpo nero. Solo lì l’inconciliabile ha una sua piena espressione.

Nei versi centrali di Concludendo un finale Pagliarani passa dall’interrogativo filosofico alla narrazione della storia di Tommaso, ragazzo povero del Pavese che può studiare perché considerato il più bravo tra i ragazzi del posto ed è mantenuto all’Università grazie all’autotassazione dei contadini.

Dopo il boom economico e la reazione di Carla a quel rivolgimento, Pagliarani osserva la possibile risposta a quella accelerazione sociale messa in atto da una collettività che segue i dettami del comunismo. Ma il poeta si chiede o meglio chiede a Fortini: e dopo, quando la cornice sarà caduta e Tommaso si troverò fuori da quei confini? Cioè quando il comunismo mostrerà d’essere rimasta una realtà locale e fuori c’è solo il fuori ossia l’esposizione a nessuna garanzia sociale?

[…] È più brusco

Trovarsi a tu per tu con le strutture tutto in una volta.[9]

Il pensiero di Pagliarani non è reazionario, come i versi ci tengono a precisare, il poeta non fa altro che scendere a fondo volgendo il canto contro se stesso, ritornando all’origine della forza e di chi o cosa la possa garantire. Concludendo, ci regala un bel finale ritornando sulla forza e sulla capacità di resistenza:

Parlo troppo di una vicenda personale lo so,
ma cosa devo dire se credo fermamente
che ho tenuto duro di cuore e di testa finora soltanto perché
mi hanno generato genitori giovani e robusti
come non potrà più essere per i miei eventuali figli?
Vero è che l’età nostra privata e più quella del tempo
Ambiscono a ridurci in solitudine.
E un essere solo
Non è mai forte, né può amare o misurare l’intelletto.[10]

E rivolgendosi all’interlocutore Fortini, scrive:

Pensa che avevo scritto un uomo solo
Poi con rigore ho cancellato l’uomo
Per essere.[11]

Pagliarani quindi non parla dell’uomo ma dell’essere. Si è ormai oltre l’umanesimo e l’umanismo. Questi versi finali valgono come sintesi di quanto finora si è cercato di dire: l’essere esposti del singolo di fronte alla struttura sociale, perché non è più una struttura che accoglie; la vicenda personale che in realtà è universale ma pur essendo tale non è garantito che diventi comune. La necessaria compresenza di forza, intelletto e amore come armi di resistenza; l’antiumanismo che deriva non da una posizione ideologica del poeta ma da una constatazione antropologica che riporta l’uomo alla sua essenza creaturale.

Pagliarani vede i limiti delle ideologie e dei generi letterari. Al poeta emiliano interessa scandagliare la possibilità della parola, verificare come essa possa essere il nucleo di forza che trattenga i destini di un corpo e del suo spazio, ossia di un mondo. Per questo alla fine del primo testo si rivolge all’autore di Verifica dei poteri chiedendogli una risposta: Intanto se tu/ volessi rispondermi?

La pietà oggettiva.

La seconda lettera è indirizzata a Luigi Pestalozza critico musicale che ha pubblicato importanti studi sulla musica del novecento. Pagliarani però non si occupa di musica in questa lettera, parla d’amore e di come questo sentimento sia poco adatto a definire se stesso senza la forza e l’intelletto. Con questo secondo componimento il poeta esprime il suo sentimento dominante. Tutto lo scritto cerca di analizzare la possibilità di rendere comune il sentimento di pietà. Una pietà laica nata dall’aver osservato le estreme possibilità dell’uomo ora definito essere, creatura. Il testo in questione inizia dicendo:

Lei personalmente non è che faccia pena, anzi
Ma fa rabbia vedere come una
si butta via così. Quanta violenza
scatenata su sé, quanta passione di bruciare in fretta
senza averne sospetto od ambirne ragione.[12]

Qui l’ironia di Pagliarani ha lo stesso effetto del riso in Baudelaire o, ancora prima, del Witz in Novalis che scriveva a questo proposito: «Nelle anime serene non esiste l’ironia. L’ironia è il segno di un equilibrio disturbato: è la conseguenza del disturbo e al tempo stesso un mezzo per porvi riparo. Le condizioni del disfacimento di tutti i rapporti umani, la disperazione o la morte spirituale, sono le cose più atrocemente comiche.»[13] Lo spazio poetico dunque diventa indagine crudele ed ironica sulle ragioni profonde delle relazioni umane. Proprio perché queste relazioni non sono più garantite dalle strutture sociali tradizionali, la poesia, lo strumento di un io lacerato, deve reinterrogarne il senso. Il primo dei sentimenti che Pagliarani indaga è quello della pietà. Il poeta scrive che la pena non è personale. C’è subito questa presa di distanza dal sentimento della pietà inteso in senso ingenuo, immediato. Il sentimento della pietà era già comparso come incipit di un’altra poesia di Pagliarani. Si tratta di un suo scritto giovanile, Due ottave del diario milanese che risale addirittura al 1948. La poesia ritrae lo scenario di una Milano che cerca di ritrovarsi dopo la fine della seconda guerra mondiale. Le certezze sono crollate e si prepara l’avvento di qualcosa di nuovo. In questo testo troviamo scritto:

Non ho avuto pietà di questa gente
Che mi offende ogni mattina.
Fanciulle senza petto e con la schiena
-come farà a godersele l’amante-
E madri senza petto e con la schiena
Che se un goccio ce n’era l’hanno preso
Uomini con le facce disegnate
E la pelle color di vesti usate.[14]

Ecco, questo incipit somiglia molto a quello di Pietà oggettiva. Cambia però il tono. L’incipit è solenne, perentorio. Il testo accenna all’ottava, la strofa della narrazione epica in Italia, anche se non ne segue lo schema di rime di versi alternati e baciati. Restano solo gli ultimi due versi baciati a dare forza alla chiusa della strofa. Si tratta di due ottave che presentano lo scenario del dopoguerra a Milano, dove il poeta si è trasferito per lavorare prima in azienda e poi nella scuola. L’ultima ottava recita:

Tipi di questa fatta dove ho visto?
Ho visto dei barattoli di latta
(a Porta Ticinese, in baracconi
Come casini pieni di soldati)
Drizzati su una mensola, il pupazzo
Meccanico invitava: Tira, tira,
tre palle un soldo e in premio una bottiglia.
Ma la mia faccia, mamma, gli assomiglia.[15]

Le due ottave rappresentano qui la personale fenomenologia di un sentimento. Alla fine della composizione troviamo i bei versi staccati e apodittici che recitano Ma la mia faccia, mamma, gli assomiglia. Si può leggere in questi l’identificazione dell’io poetico con il pupazzo costretto a subire i tiri delle palline. I suoi occhi sono quelli che vengono trafitti dalle brutture del quotidiano e la sua faccia prende le sembianze del quotidiano. Anche in questo componimento la pietà non è quella per le persone, come è detto nei primi due versi del componimento, bensì è la pietà oggettiva per tutto ciò che accade nel suo spazio visivo: pietà per gli oggetti, per il pupazzo, per lo spazio, per il suo tempo. Ciò che avviene in questo testo è una rivoluzione copernicana in cui non è più lo spazio infinito che il poeta sperimenta grazie alla scoperta dell’immaterialità delle cose assorbite nella temporalità dell’io ma viceversa sono le cose del mondo che ora minacciano l’io con la loro spazialità (un rovesciamento del famoso infinito leopardiano quindi). L’epos di Pagliarani allude proprio a questa svolta fondamentale. L’ottocento viene lasciato alle spalle grazie o a causa di questo passaggio. In Pagliarani agisce la lezione di Eliot, Brecht, Pound e Majakovskij (come non pensare ai suoi versi Ma io parlo solo con le insegne…). Lo spazio però non è ancora quello che si sottrae così come inizia ad intravedersi nella Ragazza Carla. Potremmo dire che il poeta agisce in un mondo in cui la comunità è in crisi ma ancora esiste, perché ancora esiste uno spazio, seppur distorto, che si organizzava intorno a corpi distorti (fanciulle senza petto … madri senza petto … uomini con le facce disegnate e la pelle color di veste usate.)[16] Nel 1960, è stato Italo Calvino a richiamare l’attenzione sui mutamenti che stavano avvenendo in letteratura con la poetica dell’informale delle neoavanguardie. In questa occasione Calvino dà vita alla famosa espressione il mare dell’oggettività accusando la tendenza della nuova poesia di osservare la storia a partire “dal punto di vista del magma”[17]. La polemica di Calvino riguardava evidentemente la perdita di una visione razionalistica della storia. Nelle pagine del suo famoso intervento troviamo ancora scritto: “Anche qui è il mare del tutto che dilaga e la poesia non può essere che mimesi extra soggettiva della totalità, come la critica mimesi della poesia. Se il tutto diventa metro e ragione dell’uno, se la ragione dell’universo trionfa su quella dell’uomo, è la fine del fare, della storia. Il barbaglio della ragione dell’universo è la luce quando giunge a illuminare la vicenda limitata e ostinata del fare umano; ma se si sostituisce ad essa è ritorno all’indistinto crogiuolo originario.”. Alla critica di Calvino rispose immediatamente Renato Barilli sul Verri opponendosi allo “stoicismo” di Calvino definendolo un “velleitarismo moralistico” perché espresso da un autore che si credeva scisso dalla realtà.[18] Ora l’egloga sulla pietà oggettiva di Pagliarani risente di questa disputa teorica. L’io di Pagliarani non scompare del tutto dalla pagina, si fa piuttosto diapason doloroso che registra le presenze che lo circondano, attesta lo spazio che lo circonda. L’io del poeta emiliano non è quello borghese, razionalista e cartesiano, né però scompare dalla pagina lasciando emergere il magma informe della storia, come pure è accaduto in alcuni testi delle neo avanguardie, in particolare nei primi testi sperimentali di Balestrini. In Pagliarani l’io si presenta come frattura dolorosa. L’io è lo spazio che risulta da una differenza tutta interna alla storia. La misura della differenza non è data da una certezza propria dell’io (che essa sia cognitiva, ontologica, psicologica) ma dal sobbalzo che l’io affronta ogni volta che si trova ad affrontare una presenza. Ora bisogna chiedersi: rispetto alla pietà del 1948, cosa cambia nella Pietà oggettiva di Lezioni di fisica? È subentrata intanto nella poesia di Pagliarani la legge che regola il macrocosmo ossia la legge dell’indeterminazione (soggetto non casuale della lettera su il corpo nero e la fisica quantistica) e con essa la frammentazione dei corpi e dello spazio. Il poeta per applicare la pietà deve interrogare le forze, deve rimettere in discussione la sua stessa capacità di patire il reale. Nei versi iniziali della Pietà oggettiva la rabbia scaturisce proprio perché il buttarsi via, dell’amante, non permette un’equivalenza di destino. Nel suo amore, non c’è ragione, non c’è uso d’intelletto e quindi di forza che permetta il riconoscimento dell’unicità di destino nella sua vicenda personale. L’amore stilnovistico non basta perché il corpo dell’amante non si vede, c’è bisogno di forza ed intelletto:

E lei da tempo non fa pena
Anzi discosta, paralizza, perché pena
Presuppone una sorte che tu senta
Compagna, che ci sia un’equivalenza
Accetta, la serie dei possibili impostata
Come gli addendi in somma, che il totale
Non muta se mi trovo io al tuo posto.[19]

Subito dopo questi versi troviamo ancora due versi fantastici per precisione e che potrebbero essere sottoscritti da un Nietzsche o da un Wittgenstein:

Ma non capisci che ogni sua bugia
Non è menzogna e che perciò m’offende?[20]

Ciò che offende è ciò che ferisce e ciò che ferisce è ciò che fallisce. Il fallimento è nel credere nella casualità delle esistenze e delle proprie strategie di sopravvivenza. Il poeta non è né ingenuo né sentimentale, il poeta ora si presenta come continuo fondatore di mondo. Il suo sforzo, la sua forza, consiste nel salvare un mondo e non il mondo. Ma questa è anche la sua menzogna. Dopo aver abbozzato frammenti di una storia d’amore, Pagliarani ci regala altri cinque versi che spiccano in quanto a pensiero negativo. Qui viene confermato quanto si è detto riguardo alla svolta che il poeta avverte rispetto alle poetiche dell’800:

Lo vedi anche tu
Siamo in un ottocento d’appendice; non si può cavarne una storia
Nemmeno da mettere in versi: ci sono esperienze
Che non servono a niente che si inscrivono
Come puro passivo.[21]

Il finale della composizione arriva con un “brutto commiato”:

[…] Certo
qui non si salva la tua età né la mia faccia
vorrei vedere che non fosse così
che si compisse nei versi la catarsi che bastasse
questa pietà oggettiva che ci agghiaccia.

La faccia del poeta e quella dell’amante non si salvano, contrariamente a quanto accadeva nelle Due ottave dal diario milanese, dove c’era riconoscimento. Qui il poeta invoca la pietà oggettiva che agghiaccia, invoca lo spazio della poesia come luogo di forza e di resistenza alla dispersione. L’atto d’amore finale del poeta è nella riflessione poetica. Non si salvano i corpi ma lo spazio e quindi l’amorosa riflessione sulle identità in gioco. La pietà oggettiva è appunto questo.

Logica e poesia. Le negazioni.

Questo testo di poesia pensante indirizzata a Giò Pomodoro si mantiene in bilico tra due necessità, che spero a questo punto siano chiare: rispondere ancora a Fortini sulla questione della “negazione radicale” e il problema della forma. Con lo scultore Pomodoro quest’ultimo problema si traduce nella questione della misura[22]. L’interrogativo di Pagliarani si mantiene su note di questioni estetiche tra la raffigurazione come mimesis o come hybris. La carica etica del poeta emiliano è espressa in modo diretto e sfacciato. Con un pensiero alle parole di Fortini: «Credo fermamente che ogni troppo rapido assenso alla negazione, alla svalutazione e al disprezzo del mondo-così-com’è –soprattutto da parte di intellettuali e di giovani nei paesi come il nostro- possa celare entro di sé, incontrollato, un accordo con quella realtà, una dipendenza filiale; e che occorre essere coscienti dell’unicità della vita, del valore del mondo e della positività che s’accompagna anche alla peggiore decadenza e oppressione e corruzione, se si vuole negare la figura presente. In altri termini: non saprai chi sono veramente i tuoi nemici se non sai, nello stesso momento, chi sono i tuoi amici. La negazione istituzionale, romantica o avanguardistica, vive, certo vive, nei singoli eroi tragici. Ma pochi –anche fra quelli- sfuggono al risarcimento estetico.»[23]

A questa critica sembra appunto pensare Pagliarani quando invia la sua missiva a Pomodoro per intrattenerlo sul problema della raffigurazione del corpo. Le sue negazioni sono effettivamente categoriche. Il poeta testimonia di conoscere chi sono i suoi nemici o quanto meno di sapere cosa può o non può fare, cosa del resto gli è permesso in termini di estetica e cosa invece gli è proibito:

No a Michelangelo se debordava sangue da ogni canale
Corporale no al riscatto dell’usura in termini di spazio e di volume
No a un’idea di figura come doppione
Delle due l’una o s’è persa la misura
ogni rapporto fra uomo e la sua morte o se la sorte
resta di noi somiglianza e immagine è alla sorte
che dobbiamo rivolgerci
per ogni nostra descrizione.[24]

Pagliarani si oppone all’idea della raffigurazione come mimesis. Ma se c’è il rifiuto di un’idea preconcetta di armonia c’è anche un rifiuto preconcetto di hybris. Il poeta nega anche la visione michelangiolesca del corpo tragico debordante sangue. Ciò che il poeta rifiuta categoricamente è qualsiasi Idea pre-concetta, qualsiasi Significato, compresa la mediazione hegeliana. Nessuna figura come doppione, perché la figura non esiste prima dell’incontro o della relazione. Non esiste un volume del corpo e quindi uno spazio antecedente le relazioni. No, appunto, all’estetica di platonica di un’idea di figura come doppione. La figura di un corpo è data solo da un incontro-scontro con un altro nucleo di resistenza. Gilles Deleuze lo dice con grande chiarezza in Cosa può un corpo quando afferma che è l’aumento o la diminuzione di potenza determinata dagli incontri a determinare un corpo.[25] Bisogna conoscere la propria sorte e nella sorte trovare una matrice di vita comune. Conoscere la propria sorte significa sapere che si è creature essenzialmente storiche. Ma con questo s’intende che bisogna conoscere la propria essenza temporale. Noi siamo assoggettati agli eventi del nostro tempo, della nostra epoca. La sorte resta di noi somiglianza ed immagine. La nostra unica descrizione è l’incondizionato; la nostra unica condizione. La forza è la perseveranza dello sguardo, che è poi un estremo atto d’amore. Ma se non ci sono le Idee e le ideologie, se le utopie concrete non sostengono più l’uomo, se la stessa tradizione storica e culturale è crollata come un paravento teatrale, su cosa dobbiamo o possiamo puntare la perseveranza dello sguardo? Lo sguardo è sempre assorbito da qualcosa. Pagliarani in Lezioni di fisica ci ha lasciati la sola certezza del corpo nero. Lo sguardo si fissa sul corpo come essenziale negazione. Così chi cerca di fissarsi nella Storia come doppione, come immagine di una Idea, sembra di plastica agli occhi del poeta:

Vanno molto
Le parrucche per cani la febbre da plastica, anche Kruscev a parere di Mao è una tigre
Di carta, anti boom nucleare nella california centrale […] mi ha detto Fortini che Kruscev ha pianto
A lungo per l’assassinio di Kennedy, e quanta luce su Kennedy
Specchiato nella sua sorte
Non contano nulla vedi
Le parrucche per cani la febbre da plastica
Ma sì certo quel dissidio quelle sorti
E a parità di nutrimento
È senz’altro più duro vivere oggi
Nessuno ebbe mai come noi abbiamo la certezza che è attuale
Il possibile di una sorte universale […][26]

Come spesso accade in Pagliarani con un ritmo cantabile e il piglio ironico l’io-poetico affonda il suo dettato su questioni universali. Significativo il passaggio su Fortini e Kruscev, il riferimento alla realtà statica della politica sovietica e la luce che illumina il politico americano specchiato nella sua sorte. È un passaggio cinematografico che fa riferimento alle immagini dell’assassinio di Kennedy ma è anche il richiamo alla luce che illumina un corpo per modificarlo. Fortini resta dalla parte di Kruscev e Mao, il poeta Pagliarani invece si sofferma sulla sorte di Kennedy. È l’Idea della Storia contro la storia come sorte che ci è affidata. Non che il presidente americano sia politicamente più vicino al poeta ma è la sua sorte a renderlo emblematico nello scenario planetario. Il corpo di Kennedy si fa emblema della sorte universale, cioè della sorte di chi vive al tempo della minaccia nucleare. È un eroe colto nella piena luce, nella visibilità emblematica degli eroi omerici, ma al contrario di quelli non resta nessuna fama postuma nella narrazione poetica di Pagliarani. Il corpo del presidente è colto nella luce per poi scomparire del tutto così come può accadere a chiunque nella metafora universale del corpo nero. Il suo testo poetico, il suo pensiero poetante, continua invece sulla riflessione dello spazio come “risparmio” dei “farisei”:

Farisei, e propagandate il risparmio
Noi esigiamo ulteriori aperture di credito
La deflagrazione favorisce soltanto gli ex-elettrci.[27]

Chi crede nelle costanti o nella permanenza di uno spazio che si organizza intorno ad un corpo doppione di un Idea, idealisticamente e ideologicamente inteso, lo fa per ragioni di lucro, di convenienza. E qui il poeta introduce quelli che saranno gli argomenti di Fecaloro e altri recitativi. Queste sono corrispettivamente la penultima e l’ultima sezione di Lezioni di Fisica. Lo spazio, non è niente di prefissato, lo spazio è sempre un risultato. Come detto, lo spazio scaturisce dagli incontri di forze, ed è uno spazio, un volume, che crea mondo nel mentre si presenta un corpo: ma il corpo che si raffigura non potrà mai essere colto nel suo isolamento, ma sempre in una relazione modificante. Vedere un corpo significa quindi “barare” cioè simulare la realtà. E qui ritorna il tema della menzogna:

Moi, je non ho niente
Contro la specie dei bari
Oui, je le sais di che cosa
È lastricato l’inferno
Et moi frequentando le chiese
Medito sulla variabile.[28]

Il corpo però c’è, esiste, altrimenti non ci sarebbe neanche l’incontro, lo scontro. Il corpo c’è in quanto differenza, il corpo c’è in quanto negazione. Qui si anticipano le ragioni meta-fisiche degli Esercizi platonici. Ma le anticipiamo a partire dall’elementare. Ancora una volta il poeta infatti passa dall’immagine del mondo e del suo destino al microcosmo, indica i nessi nascosti della rete di relazioni che esistono nella trama umana.

Dai capi politici del tempo, il Mao di Fortini, il Kruscev del disgelo, il Kennedy della sorte universale, al valore della “variabile” nella Sintassi logica del linguaggio di Rudolf Carnap. Pagliarani passa dalla fisica alla storia, dalla storia alla logica che è preludio del confronto con il linguaggio della meta-fisica. Per ora c’è l’analisi della lingua in cui rintracciare il seme dell’indeterminato. Pagliarani affronta poeticamente le cose dell’uomo non classificandole aristotelicamente ma come se fossero parte di un unico organismo che è soggetto ad una legge non prescrivibile:

Non una grandezza che varia o un concetto che varia
Perché concetto, grandezza, numero, proprietà
Non possono variare (per quanto è ovvio una cosa
Possa avere differenti proprietà in tempi diversi)
Una variabile
È piuttosto un simbolo con una determinata proprietà
Ma quale
Se la variazione di significato di un simbolo non è possibile entro un linguaggio
Dato che ciò rappresenterebbe il passaggio
Da un linguaggio all’altro
Se “Q” è un pr costante da “Q(x)” sono derivabili
Le proposizioni “Q(Praga)”, “Q(a)” e “Q(b)” che sono
Però derivabili da “Q(a)”. Ciò mostra che mentre x è una variabile, “a” pur indeterminata
È una costante: in altre parole “a” designa una (certa) cosa
Soltanto per il momento non è detto quale.[29]

Il corpo stesso è una variabile. Nella logica di Carnap l’unico simbolo che non cambia, ma che fa cambiare di senso alla proposizione nella quale è inserito, è la variabile. Questo è il paradosso stesso del corpo. Non si dà mai una volta per tutte ma resta immutato nel suo negarsi. Pagliarani “ragiona sulla variabile” ma in realtà ragiona ancora sullo stesso corpo umano a mutamento. Siamo ancora, anche se nel microcosmo della logica e della riflessione sulla lingua, nel finale corifeo di La ragazza Carla. Anche se non sembra, è ancora il corpo dell’impiegata dell’Olivetti che ci interroga[30].

L’incontro delle forze ora si traduce in una regola assunta dal poeta dalla logica carnapiana. Sembra che questa regola si possa così tradurre: ogni proposizione è fatta di costanti che hanno senso solo in quanto negazione di se stesse e di una variabili che hanno significati propri in quanto simboli della negazione. Ogni corpo è tale solo in quanto negazione di se stesso, mentre di fronte agli altri da sé resta fisso nel suo valore di negazione. Il corpo è percepibile solo in quanto negazione, è quindi un valore vuoto ma fondante. Di fronte a questa verità, qualsiasi affermazione diventa frutto di un’intenzione. Qualsiasi determinazione è intenzionale. Così, come aveva dimostrato la fenomenologia husserliana ricordata da Barilli contro Calvino.

Nessun atto è puro o trasparente:

Per durare a vivere intendo realizzare
Di nuovo un atto che sia un affermazione
Giò robusto
E chiaro: ma non puoi garantirci
Altro che la tua intenzione
Niente oggettivamente ci distingue baro da non baro.[31]

Si passa dalle questioni della fisica quantistica a quelle logiche e meta-fisiche. Il motivo non è di un passo indietro verso l’origine del pensiero, ma un passo in avanti verso lo sfondamento dell’essenza stessa dei corpi. Tutto è dovuto all’insistenza dello sguardo, dal soffermarsi sofferto e amoroso del poeta sul corpo della sua eroina. In Pagliarani il corpo, e la questione del corpo, non è mai trattata in termini fisiologici o medici. Qui diventa un problema nominarla, la questione dello spazio, della località, diventa una questione topologica. Ogni nome (in questo caso Giò), nel suo restare uguale a se stesso, è portatore di una differenza, di una sottrazione, di una negazione. Nel predicare quel nome, io non faccio che affermare delle negazioni, ossia delle affermazioni intenzionali. Il nome di una determinata identità, non fa altro che essere indizio di una differenza. Si traduce nei termini della logica di Carnap la legge d’indeterminazione di Eisenberg. Se è la luce a mutare il corpo di Elena, mentre la illumina, qui è il nome Giò che muta ogni volta che lo si nomina. Giò è la variabile, ossia è il simbolo che resta uguale a se stesso ma cambia di senso a secondo della proposizione in cui si trova. Giò muta di senso ogni volta che lo si appella.[32] Si potrebbe pensare anche alla logica di Frege e al suo mettere l’accento sulla differenza tra Sinn und Bedeutung, tra senso e significato. Frege è stato il primo a dire che “per una totale conoscenza della denotazione (Bedeutung) bisognerebbe poter subito stabilire, dato un qualche senso (Sinn), se esso appartiene alla denotazione. Tuttavia, non arriviamo mai a questo punto”.[33] Un nome apre il bivio tra senso e significato, un nome trattiene lo spazio semantico che si apre ogni volta tra questi due termini. Giò, in quanto nome, non si identifica né con un Senso extra storico né con i Significati. Il nome Giò denota sempre e comunque quella persona, quella identità (il Significato del nome) ma nell’appellarla si darà sempre una connotazione particolare a quel nome (un senso emotivo, sentimentale, ideologico proprio). La verità del nome Giò non si trova né in un Significato astratto, né nella sua connotazione di Senso. La verità di quel nome sta nella differenza che si apre tra senso e significato. Questo è lo spazio proprio del nome, ma è uno spazio non geometrico. Siamo ormai lontani dalle concezioni della fisica meccanica. Anche gli aggettivi usati per designare Giò, anche se non definitori, non sono casuali: “Giò robusto e chiaro”. C’è in ogni nome, una chiarezza ed una resistenza propria. Ogni nome si fa portatore di uno spazio proprio. Il poeta non dovrà fare altro che coglierlo. Questa è la risposta che Pagliarani dà al problema della raffigurazione e dello spazio, questa è la risposta che sembra voler dare a Fortini. Questo alla fine dei conti distingue il baro dal non baro. Lo spazio della poesia, della versificazione, è lo spazio che si apre da una negazione e dalla verità di questa negazione:

No, no, è vero ma è solo una premessa, è vero epperò c’è una distinzione
Non te ne accorgi e non c’è nei vent’anni necessaria incontinenza
Ma poi s’impara dai polsi che il discrimine è nell’ottusa pazienza
Dell’artigiano, nella follia puntuale di un artigiano senza committente[34]

Il distinguo tra il “il baro e il non baro” sta nel conoscere i momenti di ogni identità logica, nella “puntualità” di fronte al dilemma che ogni nome apre. Il piglio etico (la forza) fa la differenza, ma il piglio etico nasce dall’amore e l’amore a sua volta nasce dalla conoscenza. La poesia è proprio lo spazio aperto dalla lacerazione di un corpo, dal lascito semantico che quell’identità ci affida:

E si può con certezza esibire questa e solo questa patente
La tua mostra
Nel nome dei costruttori (Matrice uno, Matrice tre, Grande Bandiera
Per Vladimiro, Folla, Folla, Frattura, Grande Frattura –in bronzo
generatori)
la grammatica epica di Achille
il rischio calcolato
della retorica nei recitativi
non precettistica
è materiale
del tempo
contro il tempo in scommessa di struttura
banale perché ogni progetto è banale
perché ogni volta è detto quale
banale con la x.
No a Michelangelo se si fosse amministrato
I profitti e le perdite del sangue.[35]

Bisogna accogliere nei versi la “retorica dei recitativi”, ossia le voci che rischiano la dispersione. Il rapsodo contemporaneo vede con gli occhi della fisica quantistica e della logica carnapiana l’essenza dell’epica, “la grammatica epica di Achille”. Per questo nuovo rapsodo ogni verso è la presa d’atto della differenza di cui è fatto un corpo, ogni testo è l’attuazione del “progetto banale della x”, ogni poesia è località della differenza. Ogni poesia che si fa carico di questo compito, che dimostra di saperne sopportare lo sforzo, è poesia epica.

(già su Versante Ripido)


[1] È proprio Pagliarani ad avvertirci del senso della sua scelta formale nelle note che troviamo a conclusione di Lezioni di Fisica, Pagliarani Elio, Lezionidi fisica e Fecaloro, Tutte le poesie, Garzanti, 2006, p. 225: «Ho qui riunito Lettere in versi e/o Recitativi drammatici che costituiscono la parte più immediata del mio attuale lavoro, sia per quanto riguarda la partecipazione civile alle vicende della nostra società, sia per quanto riguarda la sperimentazione di linguaggi scientifici, come quelli dell’economia e della fisica, sia relativamente al dibattito in corso sulle poetiche. Ho già avvertito altrove (“Nuova Corrente”, n. 27, 1962) che il genere lettera in versi, o egloga, mi serve per esempio perché postulando, in teoria, risposta, cioè un prosieguo di discorso, permette di lasciare impregiudicate quelle conclusioni che non so o non mi sembra possibile trarre ora. Così ho preferito cadere in contraddizione, piuttosto che evitare artatamente la contraddizione, credo.»

[2] In sostanza Pagliarani continua sulla strada della rielaborazione dei generi poetici che lui stesso aveva formulato in Funzione e ragione dei generi, in «Ragionamenti», n. 9, 1957 e che aveva sintetizzato nella formula finale: POEMETTO (genre)+POESIA DIDASCALICA E NARRATIVA (kind). Dove i due addenti rappresentavano anche il punto in cui era arrivata la lingua poetica italiana: una sintesi di astrazione ermetica e arricchimento lessicale neorealista.

[3] Pagliarani Elio, Per una definizione dell’avanguardia, letto al congresso COMES (Comunità europea degli scrittori), svoltosi a Roma nel 1965, ora in Barilli-Guglielmi, Gruppo63. Critica e teoria, op. cit. p. 312. «1) […] critica consapevole dei mezzi espressivi in situazione; 2) […] critica, a tutti i livelli, della funzione dell’operatore e del rapporto operatore-consumatore; […] 3) […] critica della finalità dell’opera e/o funzione dell’arte.»

[4] Come ha sottolineato Luigi Ballerini e ricordato di recente Andrea Cortellessa.

[5] Fortini Franco, Avanguardia e mediazione, in Verifica dei poteri, Einaudi, Torino, 1989, p. 77. Cfr. inoltre Fortini Franco, Due avanguardie, op. cit. pp. 60-72. Fortini, prendendo di mira Perlini, che sostiene le poetiche delle Nuove Avanguardie, scrive: «Il paradosso dell’Avanguardia […] è quello di non accettare l’incarnazione (è peccato di spiritualismo, sempre…), di rifiutare quello che qui viene chiamato il “compromesso” (connotandolo come spregevole e ambiguo) e che è invece, molto semplicemente, l’opera nella sua oggettività.»

[6] Scrive Fortini a questo proposito, Ibidem p. 78, «”La realtà viene negata nella sua empirica immediatezza per venire riaffermata attraverso la mediazione”. Certo la creazione artistica e letteraria non è altro che uno dei modi con i quali si “riafferma, ad un grado più alto, una realtà negata nella sua empirica immediatezza. È, esattamente, intermediaria (una delle possibili) fra la realtà “nella sua empirica immediatezza” e la “realtà” successiva e superiore non-immediata, quella che la presenza delle opere d’arte (nel caso considerato) contribuisce a determinare, a portare alla luce. In questo caso è verissimo che l’Avanguardia ignora la mediazione perché si situa “prima” del momento del diniego. Ma, se vi si arresta, non è; si congela nella sua negazione. O, se è, si media (si esprime) in forme altre da quelle artistiche-letterarie.»

[7] Il dialogo con Fortini è motivato anche dal giudizio positivo che quest’ultimo aveva espresso nei confronti della La ragazza Carla. Tra i due si era istaurato un dialogo promosso dal critico che vedeva nel poeta emiliano una felice eccezione rispetto alle neo-avanguardie. In quell’occasione aveva scritto Fortini Franco, Le poesia italiane di questi anni, in Il Menabò, 2, 1960, citato dall’antologia critica a cura di Andrea Cortellessa in Pagliarani Elio, Tutte le poesie, op. cit. p. 474: «Semmai quello che manca ancora a Pagliarani è la sicurezza e la plausibilità narrativa: probabilmente perché lo schema narrativo è già slogato, già posto del tempo cronologico, prima che gli inserti lirici provvedano alle transizioni; di qui la mancanza di ogni progressione.»

[8] Paglirani Elio, Lezioni di Fisica e Fecaloro, op. cit.., p. 161-162.

[9] Pagliarani Elio, Lezioni di Fisica e Fecaloro, p. 164.

[10] Ibidem.

[11] Ibidem

[12] Lezionidi fisica e Fecaloro, Tutte le poesie, Garzanti, 2006, p. 166.

[13] La citazione di Novalis è ripresa dal saggio di Montesano Giuseppe, Il ribelle in guanti rosa, Milano, Mondatori, 2007, p. 303, che tratta l’aspetto insolito di un Baudelaire rivoltoso e deluso dall’esito dei moti rivoluzionari del 1848.

[14] Pagliarani Elio, Cronache e altre poesie, 1954, in op. cit.

[15] Ibidem.

[16] Cortellessa Andrea, La parola che balla, in Pagliarani, Tutte le poesie, op. cit. p. 11, scrive a questo proposito: «La percezione dell’uomo-cosa, a differenza che in tanto espressionismo e crepuscolarismo, non risparmia il soggetto. È questo il più forte elemento di novità, anche perturbante, di Cronache.»

[17] Calvino Italo, Il mare dell’oggettività, in «Il menabò di letteratura», n. 2, Einaudi, Torino, 1960, ora in Una pietra sopra, Mondatori, Milano, 2002, p. 47, scriveva: «Non mi pare che ci siamo ancora resi conto della svolta che si è operata, negli ultimi sette o otto anni, nella letteratura, nell’arte, nelle attività conoscitive più varie e nel nostro stesso atteggiamento verso il mondo. Da una cultura basata sul rapporto e contrasto tra due termini, da una parte la coscienza la volontà il giudizio individuali e dall’altra il mondo oggettivo, stiamo passando o siamo passati a una cultura in cui quel primo termine è sommerso dal mare dell’oggettività, dal flusso interrotto di ciò che esiste.»

[18] Ibidem p. 52. Barilli polemizza con “l’umanesimo acronico” di Calvino che esercita la ragione come se questa fosse un organo avulso dalla storia, come se la stessa ragione non dovesse di volta in volta essere riconfermata con i materiali che la storia ci offre. Barilli scrive a questo proposito, Barilli Renato, Il mare dell’oggettività, «Il Verri», n. 2 1960, poi in La barriera del naturalismo, pp. 271-275 ora in Barilli R.-Guglielmi A., Gruppo 63. Critica e teoria, Testo&Immagine, Torino, 2003, p. 136: “Converrà al contrario che non esiste un’unica ragione, un’unica consapevolezza, che ogni tempo se ne è dovuta costituire una tutta sua peculiare, con duri stenti e fatiche, provvedendo a rimuovere le forme lasciate in eredità dai precedenti divenute frattanto vuote, pseudorazionali.” Nello stesso intervento Barilli, Ibidem p. 137, sollecitato dalle citazioni di Calvino, parlava dell’intenzionalità di Husserl ripresa da Sartre come “la scoperta delle cose nel loro esserci, nel loro darsi alla coscienza in carne ed ossa (e non già attraverso simboli, segni di un noumeno, di un misterioso e inconoscibile in sé.”

[19] Pagliarani Elio, Lezioni di Fisica e Fecaloro, op. cit. p. 164.

[20] Ibidem. 166.

[21] Ibidem

[22] Giò Pomodoro compose quindici acqueforti alle quali s’ispirò successivamente Pagliarani per scrivere “il recitativo” in questione. Ma lo scritto non sembra avere nulla d’occasionale e sembra perfettamente inserirsi nel contesto delle altre lettere.

[23] Fortini Franco, Avanguardia e mediazione, in Verifica dei poteri, op. cit. p. 79.

[24] Pagliarani Elio, Lezionidi fisica e Fecaloro, Tutte le poesie, Garzanti, 2006 p. 179.

[25] Deleuze Gilles, Cosa può un corpo, Ombre Corte, 2007.

[26] Pagliarani Elio, Lezionidi fisica e Fecaloro, Tutte le poesie, op. cit. pp. 179-180.

[27] Ibidem. p. 180.

[28] Ibidem p. 181.

[29] Ibidem

[30] L’esempio classico di una variabile ossia di un simbolo che non cambia ma che nel suo essere utilizzato in proposizioni diverse ne condiziona il senso è il segno algebrico meno (−). La negazione per la logica algebrica è la variabile tra le più importanti. La negazione pur non mutando il proprio segno può creare diverse connessioni a seconda del contesto in cui si trova ad operare.

[31] Ibidem p. 182.

[32] A questo punto Pagliarani tira le somme metafisiche sua quanto ci permette la tradizione. Una tradizione ridotta all’osso. Lo dirà chiaramente in Esercizi platonici con un aforisma E. Pagliarani, Poesie, Milano, Garzanti, p. 241, 2006: « Ecco il dono secondo tradizione:/ tutto ciò che diciamo essere/ consta d’uno e di molti e in sé contiene/ un elemento determinante e una/ indeterminazione.»

[33] Frege G., Sinn und Bedeutung, in AA.VV. La struttura logica del linguaggio, a cura di A. Bonomi, Milano, Bompiani, 1995. Ivi, p. 1.

[34] Pagliarani Elio, Lezionidi fisica e Fecaloro, Tutte le poesie,op. cit. p. 182.

[35] Ibidem pp. 182-183.

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Vincenzo Frungillo
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