A proposito di Beppe Salvia

di Mario Benedetti

beppe salviaC’è qualcosa che Beppe Salvia sembra rimproverare agli uomini e ai poeti contemporanei: “Non luci non serene passioni di / nuda vastità dimorano gli uomini, / ma vagabonde mete ed improvvise // rauche voci come fosser nodi // d’un filo che circonda, perimetro, / la rete che pescano…”. Ciò che Salvia disapprova è l’incompiutezza del vivere, assieme all’ideologia, nella scrittura, di ciò che si potrebbe chiamare l’irresolutezza, ossia il credere nella verità negativa dell’impossibilità del compimento, l’impossibilità di sentire il mondo compiuto nelle sue forme (il “perimetro”, come confine giustamente invalicabile delle nostre esperienze, di cui dice la poesia citata). Il bersaglio di questo discorso polemico sembra essere il nichilismo del nostro secolo. Vengono in mente i versi di Rilke, nelle Elegie Duinesi, dove si lamenta la perdita della “Forma”, della “misura” che radicava l’esperienza degli uomini nella semplicità dell’“armonia”, nell’unità di Spirito e Natura, ed il sorgere del terrore per la “dismisura”, per la mancanza di una vera finalità, di un senso compiuto del fare umano: il verificare che “sempre c’è un mondo / e mai quel nessun dove senza negazioni / puro, non sorvegliato, che si respira / si sa infinito e non si brama” (Ottava Elegia).

Eppure, avverte Salvia, “d’umane ammende è colma sfera ogni speranza”: l’esperienza dell’errore come equivalente del sentirsi colpevoli, in difetto rispetto alla “speranza” di capire, di dimorare sulla terra, è ormai “colma” perché già conosciuta, sopportata dagli uomini (poeti e filosofi), e quindi si dovrebbe evitare un tale modo insufficiente di sentire il rapporto con la realtà. Ciò sembra riguardare chi ancora chiede di sapere la ragione delle cose e si angustia per l’inadeguatezza delle soggettive posizioni rispetto all’esterno – al mondo eterogeneo che mette a disagio chi si ostina a volervisi affermare assolutamente. Salvia chiede l’oblio di questa modalità del sentire e del pensare perché la “vastità” delle esperienze, non ordinabili razionalmente in vista di un fine, sia “nuda” (senza ragione, senza scopo), così com’è, così come in essa sembra trovare una definizione, secondo il poeta, il mondo contemporaneo.

Per comprenderlo, per essere all’altezza, nella scrittura, di un universo umano che appare nuovo – e all’altezza, si potrebbe dire, dell’oltrepassamento della cultura del nichilismo – sembra dunque occorra, in qualche modo, un sacrificio della propria soggettività: “l’anima già mi sfrangia / una lesta vecchiaia / eterna gioventù / d’aver più note le cose / e me scomparso”, scrive Salvia. Ecco: bisogna rinunciare a se stessi (o meglio, a quell’io forte maestro della frase, cantore delle cose del mondo, problematizzato dai maggiori poeti del Novecento – ancora tormentati dall’insufficienza delle personali irrinunciabili fondanti ragioni all’interno di una lingua devastata dalla “dismisura” del mondo – come, ad esempio, Paul Celan e Andrea Zanzotto) per rendere conto di una realtà in cui “bestie e uomini s’incontrano nati / in un simile vuoto di chimere”: un vuoto che coincide con l’inefficacia della tradizionale razionalità, l’inconsistenza di ogni via trascendente.

Il mondo odierno, da molti sentito come inestricabile, irresolubile, contraddittorio, a Salvia pare solamente frantumato, sparso (viene in mente L’épars, l’indivisible, titolo di una sezione del libro Dans le leurre du seuil di Yves Bonnefoy, poeta di decisive soluzioni rispetto all’oltrepassamento del nichilismo), ma altresì finito, compiuto, chiuso. È assente in Salvia ogni tensione verso l’oltre: la finitezza del mondo non è intesa come disvalore ma vi è un’accettazione della realtà così come essa si presenta: una compresenza di situazioni tra loro slegate, ossia che non fanno senso, che coesistono senza che si cerchino le spiegazioni delle loro relazioui reciproche.

L’io lirico, forse esausto da tanta precedente lotta, ha smarrito le proprie ragioni rispetto alle cose delle quali sembra essere – si potrebbe dire con un verso di un giovane poeta di questi anni, Nicola Vitale, – “la quieta visione”. “Ogni moto dell’aria ogni sogno / posa più affranto che lacero”, scrive Salvia; e ancora: “M’appare sempre risolto / ogni giorno d’estate”, oppure: “un coro lietissimo di giorni / fa prato il prato / e neve neve / e vento”.

Le cose riposano nell’inerzia del nome. La loro è sì una presenza, ma una presenza vana, senza futuro (non possiamo introdurvi un fine), che può fare a meno di vite che siano progresso e non semplice contemplazione immota. La sensibilità non le organizza in unità superiori ma le lascia così come esse accadono, permeate dell’assenza di ogni intenzionalità: più si affermano più viene meno il soggetto come istanza conoscitiva, e tutto ciò assume la caratteristica, nei versi del poeta, di “vivere la vita già sognata” – come se il piano delle cose esaurisse, già da sempre, il piano della rappresentazione, e quanto l’io può dire non servisse a nulla, non producesse nulla. In molti casi, è il dolore di vivere (“io soffro il dolore di vivere / la vita già sognata”), in quanto la testimonianza non è un sapere da trasmettere, il testimone è senza interlocutori, pura vana presenza che si attesta nella quieta visione di un mondo senza altro tempo per noi, senza l’intrinseca presunta salvezza di una qualche sintesi conoscitiva.

Per Salvia si tratta dunque di avere scoperto che la realtà non si offre nella “incantevole catena delle rappresentazioni” (così avvertiva Hörderlin) e tuttavia di assumersi la responsabilità di tenerla insieme, amarla ugualmente, vanamente, amare la sua indondatezza, la sua non sostanzialità.

Ciò appare evidente se consideriamo la lingua di questo poeta. Un registro a volte povero, colloquiale (nelle sezioni Cieli celesti e Primavera) le fa acquistare grazia, leggerezza e silenzio circa l’annoso problema del significare, del mettere al posto di, della drammatica incertezza del nominare (egli afferma che bisogna “snebbiare” le parole, “più terse allora seguiranno il verso giusto / più vere eviteranno le maldestre / oasi d’ambiguità…”). Più spesso, soprattutto per la scelta lessicale, essa sembra appartenere a una letteratura di altri tempi, non contemporanea, inattuale. E qui forse pare trovare un conveniente chiarimento l’espressione realtà senza fondamenti (tanto cara a certe posizioni del nichilismo contemporaneo): una realta, in effetti, dove solamente si fa esperienza delle cose, diverse tra loro ma equivalentesi, considerata l’impossibilita da parte del Soggetto di ordinarle gerarchicamente. È una realtà che si può “ordinatamente contraffare”, ossia ripetere vanamente (“Io penso, e posso, ordinatamente contraffare tutto che mi circonda”, scrive Salvia); e, in questo, amare, nella rinuncia a posizioni soggettive che intendano esprimere un proprio potere nel mondo e producano l’insanabile contraddizione del senso, del voler dire. Anche il ragionare del poeta, quell’argomentare spesso impervio, non comporta una vera costruzione (“non dirvi, e farvi credere, imporvi / l’inutile sapienza che possiate / risolvere in un soffio…”, egli scrive), piuttosto sembra che il pensiero accompagni, in un inane meticoloso movimento (“vana paziente veglia”), il movimento delle cose: “mi sveglio e veglio ancora il canto / di quest’acqua che distratto seguito / a distrarre da me come se un canto / qual è, mai forse udito, è quel che medito”.

La “misura lieta” (cosi egli la chiama) della poesia di Salvia e dunque una misura vana. La realtà si spiega nella figura della ripetizione: “pallido nel pallor dell’alba”, “rose bianche d’inverno”, “bianchi impossibili abbagli”, “bianche nuvole monde”, “un bianco velo di bianco”, “non c’è che un bianco lupo nella neve / vive coi denti bianchi digrignati / vive e poi muore e lo gela la neve / bianca ferita sulla bianca neve”, “curva a serpentina, // mi piacque capitarti addosso / (…) / e ci guardavano / rideveno coi denti a serpentine”, ecc. Nel contrasto ossimorico se ne comprende l’eterogeneità: “cielo / lieve e corrusco d’ombre-e di neve”, “La posa d’un abito spento e di quel / bianco vestito accanto alla sposa / m’innamora…”, “lieve neve, / misterioso duttile bianco manto / che rende chiarità serena come / specchio ove posi l’abile libertà / d’un cavallino nero…”, “fermano i cantoni cumuli / di neve rischiarata da linee / di luce lunghe e fredde, e l’ombra”, “pioveva con il sole / come accade”, “…una campanella di vetro, / e l’ombra di quella l’intonaco slabbrato / accenna, quando vivida o grigia”, “nere dietro la lavagna / a un batter d’ali bianche / le rondini han lasciata tutta una scia / di gesso…”, ecc.

Da notare l’uso della parola “bianco” con l’effetto di annullare ogni relazione tra le cose, di renderle equivalenti, non ordinate secondo un fine (“del tempo mio sogno d’universo / che si dispone a compiere è l’uguale / in sua misura e per sua misura / ogni cosa ch’è in sé non sa misura / e cosa…”, scrive il poeta). Oltre a quelli riportati, si possono citare altri esempi: “lamina d’argento s’è scaldata, è / la bianca fiamma che adesso mescola / a una gocciola che tersa traspare / la bianca bianca eroina”, “di lume bianco ora m’assembra lieta / e povera e lieve luce questa mia / terra dei morti…”, “la notte ha reso le pareti bianche / della mia stanza e le parole bianche”, “e non si vede il cielo / bianco come ogni cosa / respira sulla terra / imita quella e quella il cielo”, “e nel bianco / fuoco di primavera / s’aprono l’urla di piccini / le teche di bachi nella terra / e in cielo il bianco”, ecc.

La vanità delle cose “vaste e silenziose” sembra dunque essere il tema centrale della poesia di Salvia, un universo nel quale si può dire che un “raggio ha dimorato tra misure / rigorose e chiare di calici”, ma non per noi, o, almeno, non per il poeta: “…non parenti / siamo noi di luci che riposano”. È coma fosse stato tolto il fondale alla scena del mondo: appare una luce radente dove convivono uomini, bestie e cose in un “vuoto di chimere”, ma è una luce che l’anima non regge, in cui non può perdurare.

“Terre, ce qu’on appelle la poésie / T’aura tant désirée en ce siècle, sans prendre / Jamais sur toi le bien du geste d’amour!”, scrive Yves Bonnefoy nel recente libro Ce qui fut sans lumiére. E Salvia è stato ben consapevole che ogni richiesta di salvezza, di assoluto è illusoria: “Ho offeso con la mia stupidità / la legge della vita, l’infinita innocenza / della sua crudeltà…”, egli scrive. Rimane, permessa da quel sacrificio, una poesia che, nel riferimento ai grandi temi delle culture antiche (la fedeltà alla terra, l’innocenza dell’uomo, la vanità delle cose) e nella contestazione della modernità (la tensione verso l’infinito che si rovescia in nichilismo nel momento in cui l’Assoluto si rivela inattingibile), si riporta in modo davvero rinnovato su questioni di carattere universale.

(già in Fernando Marchiori e Silvia Raccampo (a cura di), Passi passaggi, Edizioni Sestante, Ripatransone, (Ap), 1993.)

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