Milo De Angelis: Quell’andarsene nel buio dei cortili – una nota di Alberto Casadei

 

di Alberto Casadei

La nuova raccolta di Milo De Angelis ribadisce e in alcuni casi estremizza alcuni suoi temi fondamentali. Superando le tonalità più distese, però solo apparentemente elegiache, di “Tema dell’addio”(2005), “Quell’andarsene…” si ricongiunge soprattutto con “Biografia sommaria”(1999) e per alcuni aspetti addirittura con “Millimetri” (1983), che tuttora rappresenta la punta estrema di frantumazione addirittura parasurrealista dell’autore. Elementi di questo tipo emergono anche qui, per esempio nella sezione “Sei perduto”, incentrata sul ritorno ossessivo di un tentativo di dialogo impossibile: l’oggetto-simbolo del citofono, presente in quasi tutti i testi, assume valenze sempre più straniate, “brilla / come una stella fissa”, è esso stesso che “chiede ancora la tua voce”. Il processo di transfert porta a animare l’inanimato, come da retorica antica e, appunto, surrealista. Ma lo scopo non è quello di creare mondi alternativi al reale, bensì quello di assolutizzare le condizioni inevitabili dell’esistenza, qui in particolare la presenza o l’assenza dell’altro rispetto all’io: “Dov’eri? Io ero lì, ero / nel cortile che fu tutto”.

Si potrebbe facilmente considerare questa poesia l’espressione della ferocia superegotica, che non consente alcun compromesso e porta di continuo l’io a un passo dall’autodistruzione. Ma i motivi dell’importanza della poesia di De Angelis sono altri. Sempre più l’insieme della sua opera si configura come una ‘biografia sommaria’, ovvero come la ricostruzione di un’esistenza vista attraverso i suoi aspetti di brutale lacerazione, di attimi che non danno salvezza ma panico e vuoto, di confronto incessante con una “Hyle” che non è solo in sé ma ovunque. L’antecedente ideale, e in alcuni casi anche effettivo, è ovviamente Celan, del quale viene soprattutto ripresa la propensione a trasferire frammenti di ossessioni in immagini non riducibili, prive di ornamenti, perentorie e perenni: “Il buio / era lì. Era lì, nel vertice / della prima caduta, era me stesso, / questo freddo che, oltre i secoli, mi parla”.
Come accade a molti poeti di lago, per usare un’immagine della Cvetaeva cara a De Angelis, “Quell’andarsene” non sembra quindi manifestare variazioni significative.

Tuttavia, la scarnificazione dei temi propri dell’io conduce a rivelazioni cognitive importanti, allo stesso modo in cui uno scarto anche minimo produce effetti dirompenti in un sistema ripetitivo. In questa raccolta, la prima sezione è quella dell’enunciazione dei moments of being, con coordinate ultimative (sancite da sostantivi e aggettivi drastici, nati dal “grande / alfabeto del momento”), mentre l’ultima, “Canzoncine”, è quella della momentanea affabilità del mondo, che può manifestare la bellezza in un gesto puramente fisico, come in “19 marzo”: “Tra oscure severità / è apparsa lei, la giocatrice / dalla due finte, e ogni vita / fu illuminata”. In mezzo stanno altre tre parti-manifestazioni della lunga lotta, che progressivamente assume una valenza che va oltre gli spazi dell’io.

A questo proposito vale la pena di citare ed esaminare uno dei componimenti più notevoli dell’intera raccolta: “Abbiamo scritto per un mandato / certo come il nostro smarrimento, / eravamo lì, in un fervore di ceneri, / murati vivi, mentre una foiba scendeva / nella bocca, sigillava tutte le parole date, / la corsa dei momenti, la morte vista in giro… / … così giunse la notte umana, nel tempo / delle sillabe tronche, così il vero / inizio di ogni cosa” (p. 45). Al di là della presenza esplicita di quasi tutte le costanti della poesia di De Angelis – dalle condizioni di ‘smarrimento’ totale e di altrettanto totale ‘mandato-dovere’, alla visione quotidiana della morte, alla domanda sull’origine, colpisce fortemente l’inversione spaziale implicita nell’immagine della foiba che, anziché inghiottire, viene inghiottita dal corpo.

È questa presenza nella carne di un vuoto nello stesso tempo inconoscibile e sicuramente pericoloso (quasi la minaccia di morire dentro il sé) a determinare l’incessante ricerca di saldezza, di condizioni certe e assolute, ancorché non meno inquietanti. È questa discesa del vuoto dentro la bocca dell’io a ‘sigillare tutte le parole’: dove il verbo si presenta forse inestricabilmente ambiguo, dato che il sigillo può costituire un avallo al dire poetico (e allora l’io riceverebbe quasi un’investitura, come un tempo il profeta); oppure puòchiudere ermeticamente, e allora le parole, i momenti la morte stessa non sarebbero che frammenti fuoriusciti da un intero ben più terribile e inconoscibile.

La poiesis di De Angelis continua quindi a manifestare schegge di un discorso più grande. La conoscenza che continuiamo a ricavarne è quella della inquietudine di ogni sentimento del sé, della precarietà delle convenzioni linguistiche, della necessità di uno sguardo fisso per cogliere i limiti di ogni fenomeno: come nella semiretta, dal punto di partenza dell’io sino all’infinito.

(Alberto Casadei, “L’IMMAGINAZIONE”, ed. Manni, Lecce, ottobre 2011. A cura di Nicola Borletti)

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