Mariangela Gualtieri: ‘Fuoco centrale e altre poesie per il teatro’


Fuoco centrale e altre poesie per il teatro

Mariangela Gualtieri

2003, 137 p.

Einaudi (collana Collezione di poesia)


di Marina Dammacco

Chi arde non ha freddo: così sapientemente intitolata, si è svolta alla fine di gennaio una settimana bolognese di incontri, dedicata interamente alla compagnia del Teatro della Valdoca. È stato proprio durante l’ultimo di questi incontri che Fuoco Centrale e altre poesie per il teatro ha avuto la sua ufficiale presentazione, attraverso le parole, dette e lette, della stessa autrice, Mariangela Gualtieri, fondatrice insieme a Cesare Ronconi, nonché attrice prima, drammaturgo poi, della compagnia di Cesena. Ciò da cui bisogna partire sta, però, prima del libro, anzi intorno, esattamente sulla copertina che lo avvolge: poesie per il teatro, numero 312 della collana bianca dell’Einaudi, ‘Collezione di poesia’. Ci si sarebbe aspettati, trattandosi di una raccolta dei testi degli spettacoli della compagnia, di vederli pubblicati nella storica collezione di teatro, quella in cui ritroviamo alcune fra le più importanti scritture per la scena, da Beckett a Sarah Kane, da Aristofane a Raffaello Baldini.
Invece, questo libretto, rispettando la particolare genesi del suo contenuto, si pone al centro, nel fuoco centrale di una scrittura che sta a mezza via, tra poesia e teatro. ‹‹Sempre a ridosso della scena», scrive l’autrice stessa nella dedica che chiude il libro, «per un regista che non ha voluto per il proprio lavoro altre parole che queste. [Questi testi] Sono nati con una bella faccia di attore o attrice che era lì ad aspettarli, e in parte ad ispirarli››. Questi testi nascono da una ‘dettatura’: l’autrice mette in parole ciò che accade sul presente vivo della scena, oppure dà alla scena, perché ne siano il motore, le proprie parole di poeta che scrive nell’isolamento, nel vuoto in cui si percepisce la vibrazione intera del mondo, e le riprende, poi, trasformate e cariche della materia viva della scena.

È così, in questa forma pulsante, che noi le ritroviamo sulla carta. Si tratta di dieci anni: Antenata, il primo testo nato da quest’unione generatrice, è del 1991, Predica ai pesci è del 2001. Dal primo all’ultimo tassello di questo percorso, la componente teatrale sta nel fatto che questa lingua viene detta dal corpo, con il corpo, e prende su di sé i segni, le forme, l’eco di quel corpo che la dice.
C’è una variazione di lunghezze dal verso al racconto, di pause e ritmi, di intonazione, di parole scelte per lo stridere ed il fluire di consonanti e vocali, di (dis)articolazione della frase insolitamente marcata per una raccolta di poesie e che in modo quasi automatico, durante la lettura, crea attraverso i suoni la fisionomia, ogni volta diversa, di un personaggio (e più lontano, di uno spettacolo), con corpo e voce che parla, cioè pronuncia, a volte sussurra, a volte urla. In questo pronunciarsi, è scrittura teatrale che chiama, ripetutamente invoca e richiede la presenza di qualcuno che ascolti. Si è fisicamente attratti da questo racconto pieno di ‘visioni fisiche’, tangibili come ‘cose’ che realmente ‘sono’, si rivelano esistenti in una luce iniziale e inaspettata, come succede a oggetti familiari quando si ritrovano su un palcoscenico: cambiano sostanza.

Così, in modi diversi: lingua serrata, solenne, quasi ermetica e rotta, come di cerimonia con simboli che non si svelano del tutto, in Antenata, un fluire più largo, musicale, descrittivo del mistero in Fuoco Centrale, poi la scrittura diventa discorso emotivo, breve o lungo, in Ossicine e Nei leoni e nei lupi, cresce fino alla complessità del monologo in Parsifal, per poi, gradualmente, da Chioma a Predica ai pesci, tornare (ma senza essersene mai allontanata) a popolarsi di cose pulsanti, ma più vicine, conosciute, come una lingua di tutti, umana, come dovrebbe essere il parlare poetico di ogni giorno. Questo percorso è reso maggiormente visibile dalla scelta dei brani. I testi non sono il più possibile integrali e i tagli, più o meno corposi, hanno una grande efficacia e consapevolezza, perché riescono a riportare di ogni testo il ‘centro’ della scrittura, a restituire il ‘tono’, il ‘colore’ che è proprio di ogni testo. Tutti, differenze a parte, sono scritti nella stessa lingua di madre che cerca di (ri)nominare le cose.

Niente metatestualità o metateatro: il fuoco centrale è il nome, la parola, il saper dire come specchio del saper sentire, vedere, riconoscere la fonte generatrice che dà ordine alle cose. Bene-dire: la bene-dizione è un atto solenne, indispensabile, è l’unico atto ancora non distruttivo da compiere. Trovare una lingua in cui ogni più piccolo centimetro o angolo di vivente materia possa tornare ad esprimere la propria bellezza e la bellezza è l’essere centrato nel proprio destino, dunque l’essere più semplice, lo stare fisso nel senso profondo della propria natura: ‹‹Io appartengo all’essere e non lo so dire. […] ho solo parole di serie, ho solo parole correnti, ho solo parole fallimentari, ho solo parole deludenti, ho solo parole che mi deludono››.

Ci riscopriamo poveri di una lingua benedetta, incapaci di ridare vita attraverso le parole. Siamo parlanti una lingua di morte che è specchio del nostro essere attuale. Allora, tutta la scrittura della Gualtieri oscilla tra due accadimenti: riscoprire di ‘essere’, di essere già stato, di essere sempre e già ciò che manca, ciò che non si sa (‹‹Io sono la mia mancanza››), e quella di non essere, di conoscere solo il ‹‹mistero della non presenza››, nell’abbandono di una forza madre che getta nella solitudine, e di fronte il dolore che vince.
Per ogni accadimento esiste una lingua: la prima è una lingua che non può chiamare per nome proprio il riaffiorare di un ordine, impercettibile e potente, sontuoso, immobile e profondamente vitale, che è la sostanza unica di cui ci si riscopre docili, innamorati strumenti. Si cerca semplicemente di stare vicino: ‹‹Nome che sta al centro / il tuo suono ciocca e si imperla di voci / ma nessuna ti tiene, nessuna ti osa / in suono, lettera o cifra.

[…] Ti piantono, ti indago mi avvicino in millimetri. Ti ho nella voce / senza che esca in suono››.

Si usa una lingua che non de-finisce, che sta negli spazi vuoti tra i confini delle cose; rende le sfumature e brama, riuscendoci, di spaccare il proprio limite che è la forma misurata della grammatica, per ritornare ‹‹al meno, al niente›› che c’erano prima del regolato pensiero, come idioti capaci di parlare una lingua muta, tremenda e rassicurante. E tutto questo per una forza di Amore, ‹‹una gioia di figlio con la madre›› che ‹‹salta al petto›› e che con lo stesso moto, fa ricongiungere le parole alle cose. C’è una forza che allontana ed è tutta un’altra guerra. La lingua di Parsifal, di Anfortas, che produce veleno, è la lingua dell’uomo che si oppone alle forze del suo destino, si oppone alla propria stessa sostanza e crea distruzione, brama di avere e si accanisce contro la vita, in atti di potere che suonano della stessa oscurità dell’oggi: ‹‹Signoria di ora. Il tuo governo è uno stupro uno scasso / di cuori. Abbiamo visto le cose malarsi. Abbiamo visto / delle ben strane morti dei tocchi dei battiti cavi dei giri / degli spargimenti dei colpi tutti a vuoto››.

La perdita del bene-dire ci rivela impotenti ma colpevoli, incapaci e distruttori, segnati da una corsa all’intelligenza che semina morte e che trasforma la lingua in strumento violento. Una terra desolata contiene tutti i mali del mondo dilagando nell’anima, e sembra imporsi come deserto fino a cancellare tutte le altre presenze.

Dove pende, dunque, l’ago della vita? C’è un’invocazione che dissemina questa scrittura: un richiamo all’alto, alle voci silenziate, alla bellezza che attende e, dall’altra, un invito all’attenzione, nello sguardo e nel nome, verso il piccolo segno o traccia che ancora pulsa di tutta quella bellezza.
«Questa mia preghiera è per densità, pienezza di sentire questa stramberia battente cosiddetta vita, mia vita, sì anche sì, dire sì insensato a tutto»: un atto ‘folle’ di responsabilità che toglie lo spazio più grande al male e lo trasforma, antica magia, in bene, che vuole guarire la malattia all’attacco del mondo cercando il nome giusto. Quello che dice la bellezza ancora e che così, cura, salva.

(da Incroci , semestrale di letteratura e altre scritture)

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