La nuova voce della poesia: incontro con Gabriele Frasca

 

[di Lello Voce –  Repubblica, 2004]

Definire Gabriele Frasca un ’poeta’ significherebbe fargli torto e questo non soltanto perché è anche romanziere, critico letterario, performer, traduttore, docente universitario, autore radiofonico, ma soprattutto perché da anni tutta la sua intensissima attività sta a dimostrare come certe vecchie etichette stiano strette a chi oggi lavora con la parola. Basti pensare alla sua ultima fatica, la riedizione presso la napoletana d’if del suo primo romanzo, Il fermo volere, in una nuova forma, che intreccia le parole ai disegni a fumetti di Luca Dalisi, facendo accompagnare il tutto da uno splendido CD Audio che contiene le elaborazioni sonore e musicali dei suoi testi realizzate dal musicista e ingegnere del suono inglese Steven Brown.
Quello che vale per Frasca, che certo è stato ed è un apripista, vale poi per moltissimi altri autori in Italia, che, invece dei soliti libri, pubblicano dischi, opere multimediali, video-clips, o che, addirittura, come Frasca stesso con i ResiDante, fondano vere e proprie band di poesia.

Che sta succedendo, Gabriele? La poesia sembra attraversata da un vento sonoro e multimediale: quanto credi che tutto questo possa mutare il rapporto tra il poeta e il suo pubblico?

La poesia, così come la prosa, sta semplicemente tornando a essere ciò che è sempre stata. Cinque secoli di silenziosa cultura tipografica sono solo una parentesi nella lunga storia, Foucault avrebbe detto «a pendenza lieve», dell’«arte del discorso» e della sua inseparabile gemella che ci riguarda tutti: «l’arte dell’ascolto». Ogni epoca può fare arte con i mezzi che si trova a disposizione, schizzare via più rapida di quanto ci sta già mutando, oppure ricorrere ai mezzi precedenti e già desueti, con i quali solitamente si cerca di tenere buoni e fermi coloro i quali, per loro stessa natura, sono in perpetuo transito. Se io metto su un congegno ad arte per tornare a ripeterti «sta’ buono lì, non è cambiato nulla», vuol dire che ho il mio interesse nel condividere la messa in stato con cui altre forze, mobilissime e fin troppo dinamiche, ci ripetono di stare tranquilli, perché tanto è tutto come prima. Ma se ti chiedo invece di «darti una mossa» e vivere veloce, allora vuol dire che io, con te, quelle forze le voglio fregare, e che non voglio starmene fermo ad aspettare che decidano la mia sorte.
 

Come si è venuta a creare una situazione del genere?

Che la poesia e la prosa stiano tornando a essere una cosa sola nell’«arte del discorso e dell’ascolto», è solo la benvenuta reazione a una delle maggiori truffe, o scorciatoie, intellettuali che ci ha regalato il secolo scorso: quella che ha ruotato, per inorridirne o gioirne (fa lo stesso), intorno al mito della «società delle immagini». Dall’avvento dei media elettrici noi non siamo per niente in una «società delle immagini», perché non c’è una sola immagine che non faccia altro che passarci attraverso, senza nemmeno lasciare sedimenti. Altrimenti, con tutti gli orrori che siamo destinati a vedere, magari non avremmo tollerato un momento di più di rimanercene sotto tiro. Se riusciamo a sopportare tutto questo, è perché quelle immagini non sono altro che chiacchiere, un infinito blabla in cui tutto può essere detto e contraddetto. Pensa soltanto, per fare un esempio di piccola portata, alla cattiva dialettica «mentire/smentire» dei nostri politici: uno dice una balla, di quelle colossali, poi la smentisce il giorno dopo, e va bene così, per quanto ci possano essere immagini documentarie che riprendono il nostro tizio mentre dice la cosa che poi smentirà. Insomma, il «visto con gli occhi» è sempre meno importante del «sentito con le orecchie», e quest’ultimo non conosce, o riconosce, il passato, ma solo il «qui e ora». È una questione di pertinentizzazione dei sensi: le pecore sentono il lupo con l’olfatto, e s’inquietano; ma se viene il pastore, che magari s’è messo pure il dopobarba, e comincia a ucciderle a una a una sotto i loro occhi, se ne stanno mansuete finché non è finita la mattanza. «La fede», diceva san Paolo, «procede dall’ascolto»; e Sade ricordava che, per i veri libertini, il senso che dona le impressioni più vive ed eccitanti è quello dell’udito. Cito un po’ di estremi per far comprendere quanto il problema sia serio.
 

Quali sono – a tuo parere – le ragioni che proprio oggi hanno indotto questo cambiamento di rotta?

Se la poesia e la prosa tornano «all’ascolto», è perché magari, nel momento stesso in cui siamo diventati tutti bersagli, qualcuno ha finalmente deciso di tornare a «cantarci» quali sono le forze che effettivamente ci tengono sotto tiro, e a farci così sentire quanto puzza il pastore, malgrado il dopobarba. Alla fin fine è stato sempre questo il compito dell’arte, come produttrice di senso. E il senso, ha ribadito recentemente Jean-Luc Nancy, «non deve accontentarsi solo di fare senso, ma deve anche risuonare». E magari, in frangenti come questi, suonare un campanello d’allarme.»
 

Napoli, la nostra città, come sta vivendo questo particolare momento di cambiamento?

«Napoli, come sempre, eccelle in slanci, vitalità, idee, intraprese coraggiose e rischiosissime, mancanze di mezzi, e disattenzione pubblica. E poi ci sono i consueti carrozzoni, mastodontici e vuoti; ma la loro dispendiosa inutilità, parla da sola. È storia vecchia; e chi decide di restarci, in questa città, lo fa mettendo in conto tutto questo. Ma le imprese editoriali, in grado di farsi carico dei fermenti cittadini, fortunatamente ci sono, e talune assai pregevoli: penso al quarto di secolo di attività ad altissimo livello di Bibliopolis, all’opera d’intensa militanza filosofica di Cronopio, che ha fatto conoscere in Italia autori come Nancy e Badiou e che attualmente pubblica la rivista filosofica più ambiziosa del nostro paese, l’espressione; e penso alla straordinaria parabola della d’if, che in pochi anni ha messo insieme un catalogo invidiabile, e che, con la collana gli anfibi, ha riconfigurato, riscoprendone tutta la forza, lo stesso oggetto-libro. E magari non è finita qui.»

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