Gianni D’Elia: ‘Sulla riva dell’epoca’

 

Sulla riva dell’epoca

Gianni D’Elia

2000

Editore Einaudi (collana Collezione di poesia)

Da parecchi anni leggiamo con interesse questo autore, che con questa opera si qualifica con indubbio vigore fra le personalità più significative e insieme più scomode della poesia italiana contemporanea. Il verso di D’Elia infatti è sostanzialmente tradizionale, basato sulla metrica naturale (non parlo dell’endecasillabo, ma il ritmo del proprio respiro combinato alle emozioni che l’ispirazione vuole esprimere) e sulla rigorosa ricerca linguistica che è insieme amore per la parola (come significato e come suono) e re-invenzione del significato tradizionale, banalizzato dalla comunicazione di massa. D’Elia è un autore che in linea diretta si riferisce ai classici, specie Dante e Leopardi, ma è anche l’autore che ha capito la lezione di un Saba e di un Penna, l’ideale continuatore di un recupero linguistico che parte dal significato più profondo della parola, dal riscatto del significante dalla banalizzazione che ne fanno i media (soprattutto) e la letteratura costruita intorno ai gusti meno evoluti del pubblico, che fa forse più cassetta, ma sempre meno cultura. La stessa scelta metrica della terzina, costante in tutto il libro, sembra sottolineare questo riferimento alla tradizione e insieme è funzionale a un intento dialogico che caratterizza la raccolta.

Ma accanto a questo impianto tradizionale della poesia di D’Elia, più riferibile alla forma, abbiamo una seconda anima nella sua poesia, che in questa raccolta (a nostro avviso la più intensa che egli abbia mai scritto) è più che mai protagonista, ossia un aspetto di forte e originale innovazione, nei temi che egli tratta, e soprattutto da come li tratta, dalla passione che vi mette. E questo aspetto, già presente delle raccolte precedenti, sin dalla prima, ora si impone con una evidenza quasi frastornante. Se volessimo riferirci a un autore nella scia del quale potrebbe collocarsi questa caratteristica, potremmo ricordare Pier Paolo Pasolini. Ma d’Elia, a mio avviso come Pasolini, riesce a saldare insieme, nella sua poesia civile (che, ma solo per comodità, così la possiamo considerare), anche altri aspetti: quello lirico dell’Io poetante, quello della narrazione e del ricordo, quella del colloquio, quella dell’introspezione e, infine, della responsabilità (termine che non ritengo esagerato) che egli sente, da poeta, della sua generazione soggetto agente nella storia. D’Elia inoltre, non è nemmeno sfiorato da un’idea di impossibilità della poesia, che alcuni critici attribuiscono all’ultimo Pasolini. Ed è per questo motivo che questo lavoro si propone con una forza e insieme un lirismo, con una foga direi (che manifesta moti di ira e sdegno) che ci fanno anche passare, in un paio di occasioni, l’uso di un tono un poco perorante, dovuto alla passione e alla concitazione dialogale che si fa calzante ed esasperata. Questa foga, che si intravede appena in alcune liriche iniziali (“O le gambe, di continuo levando”, “Tace, sorride, è un Buddha di dolore”, una delle liriche più toccanti del libro, “Eppure, noi avevamo un sogno”), progressivamente aumenta, fino ad imballarsi, battere in testa e ci immergerci in un vortice di sensazioni che ci fanno urlare, contagiati da questa ira. E’ una lettura che fa sudare, che colpisce nello stomaco per la densità dei contenuti e dei messaggi, che non può lasciare il lettore nello stato d’animo che aveva prima di aver letto tutto questo.

E insieme a questo impeto, troviamo la nota lirica di una sofferenza che non vuole essere consolata, una disperazione che sembra non voler più sperare, una ferita, aperta dalla morte di Lina, che non può e non vuole essere rimarginata. D’Elia sa bene che questa perdita è la svolta della vita. E dalle labbra di questa ferita, sgorga il dolore per una generazione “venuta su in mezzo alle bombe, generazione / contro il muro dei padri schiantata / educata a un dolore senza amore / a sparare nello specchio aizzata / per una giustizia di strada sbarrata”, sulla riva del fiume dell’epoca, “il fiume del bisogno, nel cuore / del mare, nel desiderio più profondo // che ogni vivo ha sempre nel suo sogno / di una cosa così difficile a fare – amare – / e così semplice in cuore da sognare: un mondo / d’uguaglianza, nella diversità d’ognuno”, in questa “Italia che si rifà la faccia / perdendo identità”.

“Una storia quasi solo nostra” è il titolo di questa prima parte della raccolta: ecco dunque che la vicenda personale dell’elaborazione del lutto, da cui prende le mosse il libro, si salda con un dolore collettivo, di cui quello personale è soltanto una parte che certo, ma non necessariamente, innesca quel pathos e quell’onda travolgente di pensieri e sentimenti, che di ritmo in ritmo e con progressione sempre più impetuosa, sbatte con violenza in faccia al lettore il rimosso collettivo e le inumane semplificazioni a danno degli ultimi e dei sofferenti, perpetrate nella pubblica e ignava indifferenza, quando a soffrire sono sempre gli altri, quelli che voce pubblica non hanno, nell’era che diciamo della com-unicazione e che sembra com-unire sempre meno. Così che, partendo da una vicenda famigliare e personale, l’orizzonte si allarga abbracciando alcuni decenni di storia legata alla propria terra – a cominciare dall’ambiente sfregiato dall’incuria e abbandonato a se stesso -, agli amici, “con il rimorso di non ricordare / le facce, e lo sgomento di riconoscerle / senza ricordarne i nomi”, e ancora ai risvolti giudiziari che movendo dagli anni di un sogno “che non era solo vivere / giorno per giorno, ed era / la gioia di dividerlo con gli altri”, giunge con dolorosi risvolti sino ai nostri giorni (la vicenda di Sofri, Pietrostefani e Bompressi), nella metafora ricorrente (e filo conduttore della prima parte) del fiume dove ogni cosa passa nel viaggio del divenire, verso la sua foce.

Non abbiamo letto nulla di tanto intenso, in questi ultimi vent’anni, di così spietato e lucido, di una saggezza così dolente e riflessiva che però non ha perduto il vigore, la durezza e la carica vitale dell’adolescenza.

Ed è per la straordinaria vitalità del poeta, che questa lettura piacerà, crediamo, oltre a quei lettori che hanno vissuto da protagonisti gli eventi che fanno da sfondo alla raccolta, anche a quei giovani poeti che intendono la scrittura (dopo gli sperimentalismi, dopo il trionfo dell’impoetico o semplicemente di un narcisismo sempre più sfrenato a cui stiamo ancora oggi assistendo, in tanta letteratura cosiddetta “emergente”) come impegno e dedizione costante all’interrogarsi sul mondo, sulle ragioni degli avvenimenti, sul significato degli eventi. Cosa che la poesia fa da sempre, quando esprime la sua vera identità.

(di Gianmario Lucini, su Poiein)

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