Claudia Ruggeri – una nota di Luigi Pingitore


La sposa barocca. Sette saggi su Claudia Ruggeri

AA. VV.

a cura di Zizzi M.; Vadalà P.

2010, 104 p., brossura

Lietocolle (collana I quaderni di Lietocolle)

Mentre la critica italiana continua a essere in ritardo su tutto, incapace di cogliere i fermenti più deflagranti del nostro presente letterario, è da quel vasto orizzonte dell’underground, della cultura non salottiera e per nulla accademica, refrattaria alle comparsate tv e non ammessa alle stupide liturgie mediatiche, che arrivano i segnali più vitali e innovativi: poeti, musicisti, filmaker, attori. Continua ad esserci un grande fervore di energie e di urgenze ai confini dell’Impero. Perché in Italia, la provincia è da sempre il grande laboratorio emotivo dove vengono sperimentate nuove forme e nuovi linguaggi.

In questi giorni esce il quinto saggio, che in poco più di due anni, cerca di ricordare e di raccontare una di queste figure minori: Claudia Ruggeri (La sposa barocca, edizioni Lietocolle, saggi di Cassaro, Desiati, Di Spigno, Leone, Santi, Saracino, Tolusso, con prefazione di Michelangelo Zizzi).

È’ un libro importante questo, perché pur nell’accostamento di sette voci differenti, sette autori che lavorano in vario modo e da diverse angolazioni sulla scrittura, fa emergere un quadro complessivo della personalità stilistica della Ruggeri assai acuto e originale.

Ma innanzitutto chi era Claudia Ruggeri? È un nome che non sentirete pronunciare nei salotti intelligenti di Napoli. Eppure fu poetessa di questi luoghi. Non solo perché nacque qui, nel 1967, ma perché in questa città sarebbe tornata più volte, dopo essersi traferita a Lecce con la famiglia, per coltivare il suo stupore e per dedicarle i suoi versi più struggenti

Napoli l’ebbi strana ed il porto / e le sbronze testuali dove il verso inscenò / cose strette e altissime ed un naso / così in disordine ebbe la sposa a guardarla. Claudia  fu la sposa barocca di un sud vissuto nella sua profondità più tragica, colto in un arcaismo immobile e decadente, nonostante l’apparenza di una luminosità sfavillante da eterna estate. Al pari di un altro grande salentino, tutto sommato anche lui minore, Vittorio Bodini, che non a caso Michelangelo Zizzi, prefatore di questo saggio, cita più volte nel suo ritratto della Ruggeri.

Leggere le poesie di Claudia spinge a chiedersi cosa dovesse essere il Salento all’inizio degli anni novanta. Quelli che fuorno gli anni del tracollo politico di un’intera classe dirigente, fuorno anche gli anni della rinascita di una nuova cultura off, delle posse, dei centri sociali dove si sperimentavano linguaggi musicali innovativi; fuorno gli anni del teatro che riscopriva le cantine e del cinema che tentava la strada del digitale. Nel paese che crollava, nella landa desolata dove tintinnavano le manette, si spargeva per contraltare una sensazione di liberazione. Èra l’ora di sperimentare, e ognuno ha cercato la propia identità mescolando antico e presente, il medioevo delle pietre e i suoni dub della musica inglese. Anche Claudia ha vissuto questa necessità di ibridazione, ed ecco perché il suo barocco nasce già spurio, pieno di echi di una modernità che assaliva da ogni lato ma che non cancellava definitvamente il passato. Ed ecco il problema. Non c’era un centro, non era facile stabilizzarsi. Chissà se nonostante i suoi vent’anni aveva già realizzato che l’origine geografica che ci marchia nel profondo non la possiamo mai più barattare. Quasi coetanea di Sarah Kane, negli stessi anni in cui Londra adorava il teatro della sua figlia ribelle, Claudia sperimentò lo scandalo del sole da interrogare con sguardo da matto, la ninfolessia che ti prende nei meriggi estivi. Quella sensazione di morte del corpo che Stazio aveva già descritto splendidamente. “Quando un’afa greve incombe sui campi che si spaccano e tutti i boschi lasciano passare la luce…” . Sperimentò la solitudine della poesia che resta magnificamente ai lati di tutto, e grazie a questo decentramento riesce spesso, più di altri linguaggi, a osservare tutto.

I suoi versi sono pregni di una forza materica, di una visione addensata e poco metafisica, che la allontana da ogni categoria. Non c’è avanguardia, non c’è sperimentalismo, non ci sono gruppi né logge. C’è il corpo a corpo disperato con l’energia della poesia nel momento in cui tenta di acchiappare il mondo e restituirlo in forma di parole.

In una lettera indirizzata a Franco Fortini, provò a tracciare una sorta di autoritratto: “Ora riprendo a studiare, a scrivere non ancora, a vivere ed a fuggire da questa maledetta città per ritornarvi tuttavia; riprendo ma non riprendo tutto, forse.” L’idea della fuga fu per lei ossessione asfissiante. Irrealizzabile. La scrittura fu l’unica arma che ebbe in dote. Un arma puntata contro tutto, per troppa fame. Per il desiderio di una pienezza che alla fine l’ha soffocata. Fortini che era rimasto spiazzato dalla forza visionaria e iconoclasta della ragazza, seppe solo consigliarle di sfrondare un po’ di più. Calato nel suo ruolo accademico, non seppe capire che quei versi nascevano così, prendere o lasciare. Come fece bene a non accettare quei consigli Claudia! Questo imperativo costante, a trovare una disciplina nella propria furia metrica, è uno dei grandi abbagli di quella critica che considera più importante leggere ciò che manca piuttosto che farsi trasportare da ciò che è evidente. Come fece bene a seguire la sua strada, tragica e assoluta e a cui non possiamo che rivolgerci con occhi imbarazzati ma anche grati.

(di Luigi Pingitore su Claudia Ruggeri)

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