Da ciò che non è vero – Cesare Viviani

Aveva ragione Fortini a scrivere della Vita in versi, nel 1965, anno dell’uscita, che era un libro che porgeva una verità durevole; e aggiungeva: “Se ne accorgerà, chi ci sarà, fra dieci anni”. È il libro che più di ogni altro, nella poesia italiana contemporanea, interpreta e rappresenta la grande crisi del secolo, quella mutazione iniziata con la fine degli anni Cinquanta che ha cambiato le prospettive umane, la percezione, l’etica, l’idea di sé e del mondo. Con l’invasione dei beni posseduti e delle occasioni c’è stata la frammentazione del soggetto: la molteplicità delle maschere che hanno assunto su di sé la rilevanza dell’identità.

Il teatro di Giudici. La maschera, non più travestimento di una immaginata autenticità, diventa sempre più necessaria e immancabile. La maschera, dovuta alle convenienze così come alle sopravvivenze, introduce nel quotidiano il tragico e il comico: molto più precaria e difficile a reggersi della creduta unitaria soggettività, ma molto più vera.

Non pochi hanno espresso o praticato la ragione per cui un certo linguaggio sia più congeniale alla poesia: dai sublimi ai mistici agli oracolari agli onirici, dagli sperimentali ai prosastici ai populisti ai fonetici, tutti costoro hanno pensato che una scelta linguistica favorisse la scrittura poetica. Grande errore. Giudici più di ogni altro dimostra con la sua opera che non c’è linguaggio privilegiato nella poesia. Il suo, dalla fisionomia netta, nasce dal rifiuto dei privilegi delle forme linguistiche: e si caratterizza nella splendida coincidenza tra invocazione religiosa e parlato quotidiano. Ovvero: esiste come fondamento di questa poesia un’articolazione (sintattica e ritmica, metrica e fonica) che unifica il parlare con Dio e il parlare con gli uomini. Questa è la grande intuizione di Giudici, mirabile e inimitabile.

Vitalità e fatalità sono due punti di fuoco per il personaggio della Vita in versi: l’energia del proprio corpo e la coscienza di una sorte collettiva, comune. Ferrata parla di un “popolano”: mi viene in mente l’arrivo di Renzo a Milano e, più prossimo esempio, “La vita agra” di Bianciardi. La quasi sovrapponibilità, nella poesia di Giudici, di metafora e immediatezza è anche la quasi completa assimilazione di sogno e realtà, e non nel senso di una riduzione di ogni cosa a sogno, bensì nel senso che tutto è realtà: dunque il sogno non è un aldilà, bensì è intrecciare le vite.

La poesia travestita da donna, la donna travestita da poesia: questo è il duplice mascheramento infinito nell’opera di Giudici. Si è parlato anche di “impiegato” e di linguaggio medio a proposito del personaggio dei primi libri: ma i riferimenti al quotidiano sono solo la materia con cui si rappresentano gli affanni e le conquiste del vivente, la dura storia ritmata dell’impiegato del mondo.

Un canto che nasce da un linguaggio che non si sottrae all’uso, che non si preserva: come il melodramma che dà le ali alle storie di tutti i giorni e per questo incanta. Giudici è riuscito in questa grande impresa: perché le sue parole sembrano arrivare non da un’interpretazione o percezione della vita, ma direttamente da essa. Così l’euforia del “mal comune” aumenta il ritmo del personaggio e del linguaggio senza alterare il significato dell’esistenza.

Una scena dove gli attori continuamente si rincorrono e si evitano, mancando un’indicazione generale di bene e di male ed essendo questi principi relativizzati nel moto incessante dei corpi e nella girandola degli affetti. Un linguaggio dialogato e drammatizzato è uno degli insegnamenti che da questa poesia hanno assunto le generazioni successive. “Evitare l’inevitabile”: potrebbe definirsi così il tema dell’impossibilità nell’opera di Giudici. Raccogliendole scaramanticamente all’inizio di ogni verso, evitare le maiuscole e il loro effetto devastante nella vita.

Un asservimento alla donna che è asservimento alla poesia: la sottomissione all’amata come esercizio spirituale, come apprendimento indispensabile all’accoglienza della poesia. Perché in Giudici è limpida la consapevolezza che di accoglienza e di ospitalità si tratta: dove non è più possibile distinguere chi è il soggetto e chi l’oggetto dell’azione, l’attivo coincidendo con il passivo, la ricerca con il dono. Dunque, da un lato si tratta di sfuggire ai colpi della cattiva sorte rappresentandoli, essendo dato al poeta con questo minimo lavoro un potere immenso, quello di arginare il male: basterà un nuovo ordine di parole per non sentirsi più bersaglio indifeso. Dall’altro si dovrà consegnarsi completamente ogni volta alla donna, all’amata, come se in questa resa ci fosse una rinascita, una nuova gestazione. I pericoli di una consegna completa (fino al masochismo, all’annientamento) sono ineludibili per chi vuole attraversare i meandri oscuri della poesia.

Il quotidiano, fin dall’inizio dell’opera, è il particolare della vita, il luogo concreto di manifestazione di ogni verità, dalla più scontata alla più ardua. Poi, con il passare dei libri, il quotidiano diventa sempre più intuizione delle forme dell’etica.

La poesia come un sogno che dà al poeta ciò che la vita non potrà mai dare. Il rapporto che Giudici ha con il male è anomalo: si è parlato di inquietudine, di disperazione, di rovina. In verità, è come se il poeta non resistesse al male: vi si abbandonasse, conquistato. È come se Giudici sapesse – e mi pare la più ricca idea della sua poetica – che anche il male non è il termine ultimo dell’esistenza, la base finale e disperante, insuperabile, ma una maschera, un travestimento e che oltre c’è altro. Così la disperazione non gli impedisce di accedere alla più luminosa scrittura. Così il male viene immesso nella mobilità delle espressioni, del senso.

Anche la vecchiaia è una maschera. È solo maturata la colpa di aver vissuto più attenti ai segni scritti che ai richiami dei simili, più al pensiero dell’essere che a quello della fratellanza. Ma anche dalla vecchiaia si può uscire: basta un perdono dei conviventi, un perdono di Dio.

“Oh gloria del pensiero/ Credere in ciò che non sia vero”: due versi memorabili di acquisita chiarezza, dove non solo la fede si libera dalla verità, ma con l’uso del congiuntivo sembra addirittura derivare dalla qualità opposta. Ogni giorno si spezza il vero in mille contrasti, in mille rivoli. Ogni giorno i rivoli sono la più inequivocabile verità. Forse la vita, sembra dire il saggio poeta, proviene da ciò che non è vero.

 

(Da ciò che non è vero di Cesare Viviani)

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