Intervista a Giusi Drago

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Laura Zanetti: Quali sono stati gli inizi della tua scrittura?

GD: inizi percussivi. Credo che  la poesia sia una forma molto primitiva che è data a tutti, come battere un tamburo. Certo poi bisogna batterlo a tempo, per non comportarsi come il “suonatore di bonghi” al parco Sempione,  reso noto da Elio e le Storie Tese. Quasi tutti i bambini hanno questa sensibilità percussiva, perché amano il rumore e i nomi risuonano in loro come mantra ipnotici, anche perché non conoscendo il significato di tutte le parole non le hanno consumate. Il poeta è all’interno di questa dimensione di scoperta linguistica, che è poi riscoperta ed elaborazione di parole che sono venute prima di lui.

Il rapporto con la tradizione poetica lo definirei “anabattista”, sia perché dobbiamo essere battezzati – immersi nell’acqua delle parole – più e più volte (e non certo una sola, all’origine), sia perché gli anabattisti erano visionari: ripudiavano l’usura e la guerra, si erano schierati dalla parte dei contadini e sostenevano la comunione dei beni. Fecero naturalmente una brutta fine.

LZ: Nello sforzo di distinguere una qualche verità, la tua poesia regge su un costante ossimoro: la perdita, una certa pulsione di morte in bilico con la metafora stessa di vita che è l’acqua.

GD: non so se l’ossimoro sia una costante, piuttosto lo è la dialettica, la tendenza ad argomentare proprio quando ci si accorge che i nessi logici, su cui dovrebbero poggiare le argomentazioni, saltano e si istituiscono altre relazioni. Nello scrivere  sono sempre presenti motivi di esitazione – e buoni motivi per ritrarsi dal conflitto –perciò la tentazione è quella di presentare le diverse tesi nel loro contrapporsi, di trovare una via di fuga nel lasciar essere contemporaneamente le diverse possibilità. A volte in poesia mi capita però di tagliar corto, magari nervosamente con una sentenza lapidaria… Cosa che faccio per lo più nei versi, perché lì sono padrona del campo… il tema dell’acqua, in particolare sotto forma di fiume, è molto importante nel mio ultimo libro, Tempo negoziato: in una poesia parlo della sintassi dell’acqua, partendo dalle letture di Bachelard. L’acqua è un elemento materno, l’acqua è una materia cullante, l’acqua ci sorregge, ci dondola, ci addormenta. Non solo: lo scorrere di fiumi e ruscelli, le “acque mormoranti” hanno insegnato il canto ad uccelli e uomini. L’acqua ha la sintassi del divenire; anzi, per Bachelard essa è l’immagine stessa del divenire attraverso una relazione continua di immagini fluttuanti: in tal senso si costituisce come una sorta di mediatrice fra la vita e la morte.

LZ:  Nella tua poesia ci sono molti “padri e madri”. In quale albero genealogico ti riconosci? In altre parole qual è stata  la tua formazione culturale e poetica?

GD: il primo poeta incontrato è stato Federico Garcia Lorca. Poi sono passata alle poetesse e poeti russi: Anna Achmatova, Marina Cvetaeva, Majakowski, Esenin, figure leggendarie, per lo più segnate da una tragica fine. Ho letto e riletto Pasternak a cui si deve uno titoli di raccolta a me più cari: Mia sorella la vita, nell’eccellente traduzione di Angelo Maria Ripellino. Quindi ai tedeschi: Goethe, Hölderlin, Novalis Heine.  Non c’erano italiani all’inizio, se non quelli imparati a scuola, ma la grande poesia riluce anche se spesso resa opaca dalle traduzioni. Successivamente ho iniziato a leggere i poeti italiani: Tasso, Foscolo, Leopardi, Montale, Ungaretti, Caproni e Sereni. Ho amato anche Luzi. A Luzi e a Sereni mi sono sentita molto vicina per via di quell’antagonista interiore che li tormenta. E’ un conflitto anche mio, una tendenza alla drammatizzazione, è il far fatica, ma anche una voce che dice: “basta”… basta alla fatica, basta a ciò che non sostiene ma sottrae (Un verso chiede: “tempo in cui sfociare, / tempo largo, tempo che sostiene”). Questa voce che dice: “basta”, oltre che essere un’ancora di salvezza, è il limite. È decidere quando una poesia è finita. Un tempo ho letto molto poeti dalla parola densa, in lotta con le origini:  per esempio Jabes, Bachmann e Celan.

LZIn ogni tuo verso si percepisce un forte controllo sull’uso della parola. Una poesia molto sorvegliata pur se lacerante, che è poi la cifra di certa poesia milanese al femminile. Penso all’esperienza poetica di Ida Travi: linguaggio poetico come sottrazione.

GD: sì, il controllo va esercitato  perché è forma e la forma è una protezione dal caos dell’indistinto. Certo è che la forma pietrifica. Nella poesia accadono due cose: mettendo in disparte l’io, il soggetto si trasforma in voce, e nella voce parlano immagini. Questa duplice trasformazione può avvenire in vari modi: per sottrazione, eliminando ciò che è di disturbo o per esubero, in un fluire di immagini. Può cadere nell’urlo, che va però controllato, anche se è un urlo di dolore. A mio parere ci deve essere sempre una presa di distanza dall’io emotivo.

La poesia di Ida Travi è nutrita di filosofia, eppure è dominata dall’inconscio. O almeno, io la sento così. In ciò consiste la tensione interna che la anima, perché la filosofia di solito cerca di rimuovere ogni elemento inconscio e mitologico. Nei suoi testi, prima parla una voce antica e solo dopo una voce logica, anzi, a tratti concettuale. Nasce forse da qui quella coesistenza di elementi arcaici o primordiali ed elementi di postmodernità, sottolineata da Luigi Bosco in un saggio a lei dedicato. Ho in mente un verso della Travi che mi è sempre piaciuto, un verso tratto da Diotima e la suonatrice di flauto: “amore mette al mondo cose vere / non pallidi fantasmi di virtù”. È il coro che lo pronuncia e, benché il riferimento del testo di Travi sia Platone, a me ricorda soprattutto Feuerbach: “l’amore è il criterio dell’esistenza – è criterio di verità e di realtà. Ove non è amore non è verità. (…) Quanto più uno è, tanto più uno ama, e viceversa.”

LZ: Un po’ in tutto il tuo itinerario poetico c’è una certa riduzione dell’io. Ci sono molti punti interrogativi, un interessante incontro tra poesia e filosofia tanto sognata da Maria Zambrano.

GD: operare sulla riduzione dell’io è essenziale. Oggi c’è una perdita di sapere perché c’è un esubero dell’io, accecante. Il rapporto con il divino ad esempio: l’io è un Dio deprivato della D, del suo nome. Contro la divinizzazione dell’io ci sono i nostri atti, quel che davvero sappiamo e possiamo fare. La natura profonda del sapere è riuscire a ritrovare ciò che ha preceduto il nostro “io”. Non è idolatria della conoscenza, è vedere cosa è rimasto vivo. Che ne è oggi del rapporto con il divino? Abbiamo rinunciato a  incontrare gli dei, in poesia come nella vita, in quanto forze vitali che risiedono in noi, non solo perché nel frattempo – a quanto pare – sono morti, e a ucciderli siamo stati proprio noi, ma anche perché preferiamo dimenticare  che possono essere ascoltati solo se viene ridimensionato questo ridicolo “io”.

Mi chiedi di Maria Zambrano; in realtà io la conosco poco. Ho letto di recente i brevi frammenti da lei dedicati a Diotima, e sono rimasta colpita. Li ho scoperti dopo aver già scritto le poesie dedicate all’acqua e ai fiumi, e subito mi è sembrato di comprendere meglio la mia ossessione per questo elemento! Nei frammenti si dice che Diotima, misteriosa suggeritrice di Socrate che a lei deve il suo saper d’amore, non è una donna bensì una fonte. E in quanto fonte, alimenta, travasa in chi la ascolta quel “sapere che come acqua fluisce impercettibilmente da tutta la mia persona”: è voce inconfondibile. Zambrano sottolinea il forte legame fra amore e voce; se voce e liquido, cioè il fluire, si sposano, il linguaggio veicola i suoi significati in un ritmo e non per concetti. In poesia, si tratterebbe di sistemare le parole ben dentro la voce che le dice, le parole dette dovrebbero stare a proprio agio nella voce. Inoltre Diotima afferma: “Io, però, non ho pensato mai, e tocca decidersi a farlo. Ora mi rendo conto che tutti i miei movimenti sono stati naturali, invisibilmente attratti, come le maree che tanto conosco, da un invisibile sole”. C’è qui qualcosa di molto interessante riguardo a ciò che significa pensare.

L’incontro fra poesia e filosofia è nelle mie poesie un incontro d’amore mancato, credo. Quel che resta dei miei studi filosofici è soprattutto un sensore “anti-fuffa”: riesco a percepire subito quando il discorso altrui non va a fondo o non indaga i propri presupposti o è semplicemente truffaldino. Ho studiato filosofia con passione, ma durante l’università mi sono accorta che il pensiero filosofico non era il mio linguaggio: potevo solo “capire” ma non “fare” filosofia:  sono intimorita dalla forza e dalla complessità del pensiero filosofico, anche dalla sua cerebrale arroganza. Il mio modo di pensare è scrivere versi, anch’io potrei dire con la Zambrano: “Io, però, non ho pensato mai, e tocca decidersi a farlo”.

LZ: Nanni Balestrini nella sua Piccola lode al pubblico della Poesia scrive: la poesia fa male/ma per nostra fortuna/ nessuno ci vorrà credere mai. La domanda è: perché Giusi Drago scrive in versi e che funzione ha  la poesia oggi nel tempo del pensiero unico-neoliberista?

GD: Una funzione antieconomica e antipromozionale: mi sembra un buon antidoto al marketing, già per il solo fatto che comunque non si vende, che ben pochi la leggano e che è difficile persino trovare i testi. Mi chiedo se oggi chi continua ad amare e a frequentare la poesia potrebbe essere descritto come fa Balestrini nella Piccola lode. A fronte della progressiva sparizione del pubblico – un tempo si diceva che il pubblico della poesia sono i poeti stessi, oggi i poeti faticano persino a leggersi fra loro per il proliferare del materiale – capisco perché Balestrini abbia sentito il bisogno di lodare il pubblico della poesia; dal canto mio, ammiro  gli eventuali lettori di versi, e tendo ad attribuir loro le caratteristiche di Achille, un Achille  postmoderno quindi spaesato, ma pur sempre indomito: mi sembra che oggi i pochi lettori di poesia, fidando nelle proprie forze o disperando di esse, cerchino di collocarsi al di là delle leggi del mercato – impresa omerica, appunto… ma non  credo di essere molto titolata a parlare di ciò, dato che scrivo senza sapere a chi mi rivolgo e in una condizione di assenza del lettore. La poesia è un organo di fonazione oggi socialmente atrofizzato; per giunta, in quanto gesto vocale, ossia manifestato interamente a parole, fa male nel senso che non risolve nulla e non rappresenta una via d’uscita da nulla. Però è esperienza umana espressa a parole, se invece si tratta solo di parole che esprimono se stesse, allora meglio non perder tempo, perder tempo è senz’altro un male.

 

LZ: Tempo Negoziato è l’ultima raccolta pubblicata, la cui poesia può essere considerata  ‘poesia di pensiero’. La domanda è: quali sono le condizioni che la poesia deve vivere per poter realizzare questa qualità sapienziale ? Quali sono, al contrario, i luoghi che deve evitare per non perdere questa dimensione della ricerca?

Se parliamo di qualità sapienziale, naturalmente mi piacerebbe tornare ai presocratici, e poter parlare con la forza di Eraclito the dark: “bisogna spegnere la dismisura più di un incendio”, per esempio,  oppure Protagora: “riguardo agli dei, non ho la possibilità di accertare né che sono, né che non sono, opponendosi a ciò molte cose: l’oscurità dell’argomento e la brevità della vita umana”. Sono parecchie le domande a cui non saprei rispondere a causa “dell’oscurità dell’argomento e della brevità della vita umana”, fra le quali c’è anche questa tua: il rapporto fra vita e poesia, le condizioni che rendono possibile o impossibile scrivere una poesia: Chi o che cosa mi legittima a parlare? Quel che ho da dire, perché mai dovrebbe interessare a qualcuno? Qual è la voce che parla nei versi? Non è certo solo “mia”, e  dev’essere una voce umana, per forza, e anche piuttosto resistente e duratura, sebbene abbia via via assunto diverse forme. I luoghi da evitare sono quindi quelli regressivi, intendendo con ciò luoghi autoreferenziali e che – nel mio caso – rimandano ai divieti paterni, parlo insomma di luoghi legati al dovere, all’istituzione, al compito, all’obbedienza: in pratica, per scrivere davvero poesia felicemente e con fecondità, e non in un tempo strappato e sottoposto ad atti di castrazione, bisognerebbe vivere senza lavorare e senza obbedire. Carmina non dant panem, dicevano. Quindi le poesie sono un lusso, e di fronte al lusso ci si può sentir colpevoli. Ecco una dinamica regressiva che ostacola la poesia.

Milano, 30 novembre 2014

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