Avvertenza a “Scarti di magazzino” di Ivan Pozzoni

ivan-pozzoni-scarti-di-magazzinoChe poesia e politica si nutrono della stessa potenza della parola, orale o scritta, comune e transvalutata, e con effetti di copertura o scopertura ideologica, più o meno consapevolmente perseguita con enunciati di natura, in genere, allusiva e metaforica, è cosa ormai abbastanza assodata, come è altrettanto riconosciuto che l’oggetto della loro azione è il mondo comune della praxis e del suo prisma materiale dinamico nelle forme del sensibile, economico, sociale, politico, culturale, simbolico, etc., ovvero nelle forme della produzione di soggettività umane che rispecchiano i diversi rapporti di forza costitutivi. Di questi tempi – crisi di trasformazione e di consolidamento del capitalismo finanziario-militarizzato – è diventato nauseante stereotipo mass-mediale giornaliero sentire ripetere da economisti e uomini della casta o di parte che la crisi è della società italiana o che il corpo della “nazione” è quello di un ammalato colpito da emorragia inarrestabile, e che se non si interviene con “lacrime e sangue”, aliud pro alio (“macelleria sociale”), il fallimento, il default, la bancarotta non mancherà di mandare allo sfascio completo il “bel paese”! Per la parola del potere, la crisi emorragica, mediata metaforicamente (ma mistificante) attraverso l’unicità del corpo ammalato, sarebbe così una conseguenza dell’eguale responsabilità di ogni parte di quell’unico organismo che sarebbe la società/nazione italiana o degli italiani che avrebbero vissuto oltre le loro possibilità. Ma la parola “Bacaudae” del poeta Pozzoni non è dello stesso avviso. L’emorragia che attacca i rivoltati/rivoltosi del nuovo “Impero”, «benché se ne intuiscano i danni collaterali / nelle nuove ideologie della flessibilità e cassa integrazione, / che massacrano, a caso, solitudini inermi», non hanno una relazione simmetrica («non si vedono reazioni dell’autorità costituita»). I macellai-macellatori non hanno lo stesso destino dei macellati. La parola del poeta è allora quella che ammonisce e chiama alle responsabilità, se davanti «all’assassinio dei nostri sogni» non rinuncia a cadenzare i vari delitti consumati con il «suono dei nostri canti di rivolta»; e lo fa anche con quella veemente rabbia che trapela dall’insistenza anaforico-sintattica che la parola “Bacaudae” (appunto, “rebelles”), reiterata, porta (via via) la memoria ad un altro “branco”, quella dei Galli. Le popolazioni che, esposte al dominio della colonizzazione dell’Impero  della storia romana (III) di Diocleziano e Massimiano,  hanno reagito diversamente alla crisi: contrastando con la rivolta. E “rivolta” è la parola di auspicio che chiude la poesia “Bacaudae”. Che l’asimmetria non sia scomparsa – e neanche la  responsabilità (sebbene su piani diversi) della parola che, nella vita sociale e politica di ognuno di noi, relaziona poesia e politica – è la stessa guerriglia della poesia a testimoniarlo lì dove  la sua est-etica, diversamente dalle estetizzazioni della pseudo cultura dell’intrattenimento servile e consumistico odierno, usa la sua punta per graffiare il potere politico. Più incisiva quando gli si scaglia contro come un’arma im/propria per denunciarne e condannarne senza mezzi termini gli atti di violenza e sopraffazione consumati con gli ossimori delle sue guerre umanitarie e del dis-lavoro di classe, in cui i caduti  –  CADUTI SUL LAVORO – sono come il “milite  ignoto” o la “vittima del sinistro slogan arbeit macht frei” [UOMO BIANCO (GRANDFATHER)]. In ogni modo sono i sacrificati di sempre e utili al mantenimento dell’ordine (strutturale e non) del grande Leviatano (kapital bianco-occidentale) che non ha mai amato tanto i poeti, se non di corte. Da quando Platone ha bandito i poeti dalla città, i due saperi, legati cioè all’azione della parola “pubblica” e alla sua iconizzazione letteraria emblematizzante, sebbene attriti e conflitti non abbiano mancato di attraversare il loro cammino storico, sono stati costretti anche a dei distinguo, cui – ma a torto (secondo noi) – si è ritenuto  di assegnare (nell’opinione dei più) destini separati. Vero è anche il fatto che nella modernità e nel Novecento, quanto nella cosiddetta postmodernità o della debolezza del pensiero e dell’azione utopico-politica, il compito non è stato agevolato per la tenuta del nesso; e ciò nonostante la dialettica non sia venuta meno. Certo, dietro il lascito e il permanere dell’eredità del pensiero di Hegel sulla “morte dell’arte”, le cose non sono state facilitate; e  tra poesia politica e politica della poesia e dell’arte, l’autonomia (non indipendenza dal comune reale) dei linguaggi artistico-poetici ha dovuto rifare così, infatti, continuamente i conti con le avanguardie – che ne predicavano l’autonomia in toto, l’astrattezza e/o anche l’utopia avvenire – o con la sua dissoluzione nella politica di una rivoluzione radicale o nella sua definitiva catastrofe. E tuttavia la questione, come si riflette dalla lettura di queste poesie (Scarti di Magazzino) di Ivan Pozzoni, ancora è aperta, se il loro linguaggio assume a dignità di materia est-etica e poetico-politica non la “morte dell’arte” (perché «[…] l’arte / morta» – dice Pozzoni – non può dare risposte), bensì la morte stessa dell’uomo e del cittadino in quanto animale rinchiuso nelle stalle della produttività delle identità “brand”, del  loro consumo e del loro finire rifiuti – «finirò triturato» (LONTANO DALLE LAME) – pronti per le discariche del postmoderno depoliticizzante. Questo è quanto ci notifica la mercificazione spettacolarizzata e fantasmagorica delle immagini e delle parole del Post-moderno, cui peraltro, senza differenza alcuna tra aggettivi e sostantivi, sono ridotte le identità di ogni ordine di soggetti fabbricati in serie come individualismi competitivi attraverso l’industria dei desideri e delle pure emozioni-aggettivi/aggettivazioni evanescenti, piuttosto che insieme di relazioni sociali cui, invece, con l’amaro in bocca e a pezzi sanguinanti, richiama l’intreccio della testualità poetica messa in opera da Pozzoni, e con il peso di cui è capace il discorso simbolico dei versi in assetto di attacco. Animale «ad unica vita» (I. Pozzoni) – costruito nel laboratorio delle fabbriche materiali e immateriali delle soggettività post-fordiste per essere commercializzati come un prosumers, ma in realtà solo come consumatori prima, e prodotti poi consumati destinati a «immondizia riciclabile», o per finire nel cimitero degli “inesistenti” (dopo essere passati dalla “società degli invisibili”) –  è però animale (potenza di corpo spinoziano?) che non smetterà mai «d’urlare  ciò che / vedo fuori e / sento dentro». Un corpo dunque che ha ancora la forza attiva della potenza per decodificare e rigettare i significati che la società dello spettacolo economico-finanziarizzato gli scrive addosso come la macchina degli aghi della tortura di un racconto kafkiano. L’animale uomo cui si riferisce il poeta Pozzoni, a quanto leggiamo, si pone criticamente in mezzo alle contraddizioni della storia che lo attraversano e lo formano, ponendosi  con un sguardo che al presente e al futuro si rapporta non come assenza di impedimento, ma potenzialità relazionali in fieri e conflittuali. In quanto ancora sa che a fronte del “politikos” –  “res pubblica” – ridotti a potere diretto e duro, o delegato alle banche del presente eterno e cinico, la capacità di azione e reazione anti-mercificazione non può essere solo quella del consenso, o del testimone assorto. Il poeta – e in questo caso Ivan Pozzoni –, infatti, non essendo dimentico del general intellect po(i)etico e del suo archivio di “figure” meta-poetiche, sembra voglia dire/dir-ci (per esempio) che gli aggettivi sostantivati – “invisibili” o “inesistenti” – sono parole che portano lo scarto semico del dire altro o dell’insieme del “dire altrimenti” dell’allegoria o del doppio del suo dire polisemico: poetico e politico; insieme doppio specchio in cui si riflette e si rifrange, simbolicamente differenziato e differenziante, il comune mondo socio-sensibile. L’aisthesis della parola del regime politico è diversa, infatti, da quella della parola poetica. Se l’una ambisce all’ordine e all’omologazione, l’altra agisce per il disordine come montaggio sintattico-semantico per strappare all’omologazione quanto di senso e verità nell’ordine simbolico della forma-Stato/Partito non si riconosce e si ribella. La lingua poetica, si sa, è una struttura testuale a molti gradini. È ritmo plurisemico e, dal nostro autore, utilizzato ad hoc; è un ordine che gode di quelle proprietà dell’”isotopia” e delle “equivalenze” che insieme innalzano il linguaggio letterale-materiale (comune) ad altre significanze, mantenendo l’unitarietà (infratestuale e intertestuale) dei composti poetici  senza nulla far perdere, ci sembra, alla loro aseità multilaterale e alla partizione propria. E ciò anche lì dove sembra che ci siano salti, vuoti, silenzi o lessemi isolati o a fare verso mono-lessematico – «Piangiamo» (L’ANORESSIA D’IFIGENIA) –, o lì dove l’associazione straniante delle parole nel verso dell’insieme dell’unità ritmico-sintattico-semantizzante, piuttosto che al lamento, mira al gesto della voce che si fa urlo e giudizio come scelta di comunicazione singolare, e rivolta alle altre singolarità del collettivo-noi-plurale. Anzi, come è nel caso della poesia L’ANORESSIA D’IFIGENIA,  ci troviamo davanti a un giudizio etico-politico di condanna inappellabile e incontrovertibile che, emesso nei confronti delle pretese aberranti dell’«altare mediatico» della telegenia modaiola (insaziabili mostri tritura vite che non rinunciano mai agli “odori di morte” riservati alle “bellezze eteree” delle giovani – «Predoni voraci, / di che siete capaci, / se da vite aleatorie / ricavate vittorie?» –), si dà nella certezza della potenza enfatica e propria alla vis polemica che si trova nella forma poetica dell’”interrogazione retorica” usata a chiusura. Così ci ritroviamo in uno dei nodi gordiani del conflitto che caratterizza la responsabilità (intrinseca o  meno) della poesia e della politica come parola e discorso che non coincidono, e che lascia sempre uno spazio di vitalità al dire della poesia stessa. La politica identificata con la gestione del potere depoliticizza, omologa e pretende solo emozioni castranti e consolatorie. La poesia “politica” e la “politica” della poesia (che non sia consenso alla politica-potere di regime), in questa raccolta di Pozzoni, pur nella sua autonomia semiologica, esce invece dalle camere depoliticizzate dell’intimità lirico-vittimistica  e sentimentale e si fa acidità linguistica. A volte satiresca. Un linguaggio po(i)etico che, dissolvente e vetriolo dei toni bassi, si getta sugli spazi delle vetrine del pubblico e privato mercificati e resi lisci dall’idea d’investire in «bond argentini» (l’idea che diventa «tarlo malsano che rosicchia, senza tregua, i nostri cuori d’ebano»), o dall’«eruttar storie noiose / / su merci, scontate, in formato xabd» (SCARTI DI MAGAZZINO); oppure riciclando (poeticamente) gli “scarti di magazzino” (gli invisibili e gli inesistenti) come rifiuti speciali. E sono speciali in quanto semio-radioattivi. Messi in “schema” o in composizione di unità ritmo-semantica testuale, infatti, gli “scarti” sventagliano una rosa di informazioni tendenziose o atte cioè a significare le malversazioni che i poteri della cosmopolis (capitalistica) post-moderna hanno imbalsamato sui loro corpi marchiandoli all’inesistenza, e nascondendo all’occhio e all’udito ogni sorta di nefandezze. La visibilità e l’udibilità dei corpi mutilati e repressi, però, ora, riemerge con tutto lo spessore di denuncia e condanna (pubbliche) per le ferite loro inferte e mostrate, facendoli, magari, spettri danzatori di una “ballata” –  BALLATA DEGLI INESISTENTI – che parla da sola.

Riportiamo alcuni frammenti:

Potrei tentare di narrarvi / al suono della mia tastiera / come Baasima morì di lebbra / senza mai raggiunger la frontiera, / o come l’armeno Méroujan / sotto uno sventolio di mezzelune / sentì svanire l’aria dai suoi occhi / buttati via in una fossa comune; / Charlee, che travasata a Brisbane /  in cerca di un mondo migliore, / concluse il viaggio / dentro le fauci di un alligatore, / o Aurélio, chiamato Bruna / che dopo otto mesi d’ospedale / morì di aidiesse contratto / a battere su una tangenziale.

[…]

Potrei starvi a raccontare / nell’afa d’una notte d’estate / come Iris ed Anthia, bimbe spartane / dacché deformi furono abbandonate, / o come Deendayal schiattò di stenti / imputabile dell’unico reato / di vivere una vita da intoccabile / senza mai essersi ribellato; / Ituha, ragazza indiana, / che, minacciata da un coltello, / finì a danzare con Manitou / nelle anticamere di un bordello, / e Luther, nato nel Lancashire, / che, liberato dal mestiere d’accattone, /  fu messo a morire da sua maestà britannica / nelle miniere di carbone.

Chi si ricorderà di Itzayana, / e della sua famiglia massacrata / in un villaggio ai margini del Messico / dall’esercito di Carranza in ritirata, / […] / e Tikhomir, muratore ceceno, / che rovinò tra i volti indifferenti / a terra dal tetto del Mausoleo / di Lenin, senza commenti.

Questi miei oggetti di racconto  / fratti a frammenti di inesistenza trasmettano suoni distanti / di resistenza.

[…]

La parola poetica così non rinuncia al suo intervento nello spazio comune, e come rovescio conflittuale dell’azione politica negativa. La polis democratica non può rinunciare a nessuna delle due parole in conflitto –  la poetica e la politica. Nonostante la poesia (POST-MODERNO) di Pozzoni, che chiude la raccolta, testualizza: «scrivo con angoscia», l’angoscia agisce però come un pungolo nelle carni; un dissolvente che buca gli scandali fatti pagare ai “sans”, altrimenti, dal poeta, chiamati “scarti” o invisibili e/o inesistenti. Se l’angoscia è un modo passionale di constatare che è impossibile sottrarsi alla storia e ai suoi effetti spiacevoli e controversi, è pur vero che la passione non è solo “passività”; se l’ottativo «questi miei oggetti […] trasmettano […]» (in realtà, come crediamo, è un imperativo camuffato), lascia infatti intra-vedere anche l’altra  faccia del pharmakon, allora il richiamo all’azione attiva è chiaro e traspare nella forma del monito. Il monito rivolto al “noi” per un’azione della collettività che unisca i “morti” ai vivi onde continuare il processo e la lotta di liberazione iniziato da chi ci ha preceduto. Intanto il primo passo è di “resistenza”, e poi verso il luogo della soglia o dell’”eterotopia” come possibilità (J. Rancière, Il disagio dell’estetica) di desoggettivazione da una parte e di diversa identificazione dall’altra, ovvero della “produzione” di soggetti di un’altra cittadinanza che la con-tingenza non esclude, ma, contenuta in nuce, orienta a  non macinare capri espiatori e vittime sacrificali! Entrambe le parole, poi, hanno un senso e una capacità conativa relazionale in quanto sono dette e agite solo nell’esser-ci in pubblico dell’ora e qui, e anche in absentia dell’essere-insieme. Non c’è infatti un io, un tu…se non c’è prima e poi anche un noi (presso gli amerindi Wintu, la parola io non esiste; e per riferirsi a qualcuno l’espressione corrente, per esempio, è “Ivan noi”). In queste poesie di Ivan Pozzoni, il “noi”, fra l’altro, sottinteso o esplicito, al presente o al futuro è costantemente richiesto come l’ago di una bussola che punta ripetutamente verso  i rifiuti speciali: «Di noi, non resteranno / neanche i rifiuti, monete, cocci, / calcinacci di antichi insediamenti, / di noi addestrati ad essere rifiutati» (LA SOCIETÀ INVISIBILE); «Bacaudae, siamo, Bacaudae / […] // […] / in ogni senso di inutilità, / unicamente ci arrenderemo / all’assassinio dei nostri sogni / cadenzato al suono dei nostri canti di rivolta» (BACAUDAE). In questa responsabilità della “partizione” (J. Rancière) del mondo sensibile e sociale in “scarti” e non scarti, la poesia – linguaggio transcodificato e deautomatizzato come nella raccolta del nostro autore –, non fa mancare neanche l’urlo (ribelle) che non smetterà mai «d’urlare ciò che» (LONTANO DALLE LAME) vede fuori e sente dentro. E con ciò, crediamo, il poeta vuol dire che il senso dell’”esser-ci” ha ancora il valore d’uso d’una parola non privata, ovvero una comunic-azione poetica di tal fatta che, in quanto  tale, non può interessare solo i pochi. Il “dire altrimenti” degli scarti di magazzino di Ivan Pozzoni deve interessare allora poeti e non poeti, se è vero che “la voce dei poeti riguarda tutti noi dal momento che nella vita pubblica e privata contiamo e facciamo affidamento su di loro” (Hannah Arendt, Il futuro alle spalle). Così c’è, crediamo, nei versi fra-stagliati di queste poesie, e di segno contrario all’andazzo dell’omologazione consensuale  e/o dell’acquiescenza corrente, una forza capace di alzarsi/ci al di là delle discariche e delle derive nichilistiche del post-moderno, ovvero dell’impero della fantasmagoria della merce e del suo potere – la misura dell’equivalenza – che nella polis ha asservito cose e persone depoliticizzandone la vita pubblica e comune e riducendola a puri rapporti di mercato economico-finanziario. A nessuno, leggendo queste poesie (fotogrammi di un tempo in moto, e delirante), può sfuggire che il loro ritmo reale, quanto passionale e veloce (in prevalenza “ascendente”, crediamo), avanzando tra straniamenti e transcodificazioni (SCARTI DI MAGAZZINO: la stampante che brontola e l’impiegata che emette “stridio”) e isotopie fono-semantiche a/di vario livello, è coralità che coagula e iconizza la “ci” spazializzata e cosalizzata (dell’esser-ci) in un allarmato e allarmante “noi” personalizzato-pluralizzato; un noi che, in pausa di giudizio, riflette:  «Ci assale / un senso scontroso d’inutilità, / abbrutito dal terrore di morire di stenti, / e di ferite» (SCARTI DI MAGAZZINO). Neanche il senso di angoscia (come già detto avanti), che il poeta registra in battuta finale – «[…] // Poi, scoperta / la morte dell’arte, / nel Post-moderno, / scrivo con angoscia / intuendo che l’arte,/ morta, non riuscirà / a rispondermi» (POST-MODERNO) –, fa venir meno questa potenza “insurgente” della reazione che è propria di ogni passione. Ogni passione ha un suo lato miscelatore attivo. E ognuno è coinvolto nella sua unità complessa, qualunque sia il fondamento ideologico che ne dice le ragioni. E se le ragioni sono mosse dalle illusioni e dalle percezioni dei poeti, che sotto l’azzardo dell’immaginale e del paradossale, dicono la verità come un’arma critica e a doppio taglio, non per questo la parola della poesia deve essere esiliata. È finito il tempo in cui “Platone” cacciava i poeti dalla città! Semmai i poeti non debbono sottrarsi alla storia di cui essi stessi sono attori, quanto invece disubbidire al consenso servile offerto/chiesto a/dal potere. E specie oggi che il bio-potere ha messo a profitto e rendita persino l’universo dei linguaggi (l’immateriale), della creatività, degli affetti, della fantasia, dei desideri, dell’immaginario, etc. Né l’arte né la poesia possono fare rivoluzioni liberatrici o dar risposte ultime e definitive, ma, e con buona pace del motto hegeliano della morte dell’arte, la parola dell’arte e della poesia continua a vivere nelle stesse trasformazioni della storia e del suo linguaggio, e graffia. A lungo termine lascia dei segni. Sono le incisioni che hanno il taglio differenziale allegorizzante della parola poetica e demistificante che vediamo respirare in questa poesia di Pozzoni, che, in decisa e saputa inter-testualità con i canti di Fabrizio D’André e l’antologia poetica “Spoon River” di Edgar Lee Masters, si s-porge con i suoi “caduti sul lavoro”, i “morti, e reperti archeologici”, le “vittime sociali e collaterali” e gli “eroi, e sconfitti”, o le “stanze” delle ballate degli “inesistenti”. Per quanto riteniamo insufficiente questa avvertenza per rendere tutta la portata della memoria-narrazione poetica (sia d’archivio che profetica) di queste poesie di Ivan Pozzoni, ci congediamo dai suoi caduti invisibili/inesistenti come tante altre “iscrizioni” che del nostro tempo svelano altri “lupanari” e altri “graffiti”, i graffi che ne tagliano ombre e luci lasciandoci comunque dei segni diversi rispetto a quelli dei «lupanari di Pompei», ma sicuramente altrettanto concreti. Con loro la voce e gli urti politici della moltitudine dei “sans”, variamente identificati,  sono più pericolosi da morti che da vivi dal momento che il poeta gli ha ridato esistenza contestuale fratta (deframmentandone l’apparente consistenza), e sparpagliando i frammenti come lame e punte di un bisturi implacabile. E tuttavia, ci sembra, che lascino anche in giro un lievito di ribellione per quella gentilezza e tenerezza, cui aspira sempre la grazia di una rivoluzione, e che invece il cinismo  del macchinismo dell’”uomo bianco”, presunto neutrale, schiaccia e ricaccia nel fitto del bosco. E, da questo, la vi(a)o-lenza della “tenerezza” della ribellione non tarda a farsi sentire ancora se da “Bacaudae”, alla caduta del “palazzo d’inverno” del recente passato, alla contestazione dei “figli dei fiori”  e quella di Seattle di ieri,  alla “rivoluzione dei gelsomini” araba di oggi e degli altri movimenti “occupy” del presente (in atto) non lascia la poesia e la lievita. La poesia?: “Un bosco di tenerezza / s’annida nel mio ventre / dando vita / a un embrione ribelle” – scrive (Luna di cenere) la poetessa mapuche Rayen Kvyeh (Cfr. Luca Rosi, La poesia non cambia il mondo, ma può renderlo migliore, in “Collettivo / Atahualpa R”, gennaio-dicembre, 2007).

Nino Contiliano
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