Mia Lecomte: “Intanto il tempo”

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“Mentre scrivo”  dice un verso – l’ultimo – di “Jack in the box”, seconda poesia dell’ultimo libro di Mia Lecomte.  Succedono cose, intanto che nascono questi versi, e lo sguardo dell’io lirico vaga, si posa, inquadra immagini mentali e quotidiane. E anche il tempo continua quello che sa ed è abituato a fare.

“Jack in the box” potrebbe essere considerato un testo emblematico per questa raccolta in cui dietro alla tendina di un interno intatto si svela un’atmosfera sottilmente conturbante, hoffmanniana. Tasselli di versi ci mostrano giocattoli, personaggi fiabeschi e circensi, oggetti e gesti di un’infanzia dai disegni rassicuranti, ci fanno vederne uno squarcio e ci portano altrove.

Il titolo “Intanto il tempo” si presenta con una precisa simmetria sillabica e consonantica, evoca un suo doppio, un secondo binario, prepara lo sguardo a seguire due solchi paralleli – come se dovesse dividersi tra la vita vissuta e quella scritta, tra terra e filo sospeso nell’aria: “dovranno ripensare alle formule/ per convergere su tracciati reciproci/ appaiati speculari a se stessi/ valutarsi in due ipotesi analoghe// due di tutto/occhi e mani (“Funamboli”)”.

Mia Lecomte mette a fuoco relazioni di incidenza fra punti, rette e piani, insiste su alcune e ne osserva le conseguenze in una rete passeggera di geometrie poste in una cornice metaforica, un modus poetandi di cui si individuano elementi già in una delle sue prime raccolte Geometrie reversibili (Salerno ’96) e che troviamo anche nel lavoro fotografico recente della poeta (penso a quella arrivata finalista al Premio Cascella, una cucina giocattolo smessa, dall’aspetto retrò, un insieme di rettangoli e cerchi dal titolo “economia domestica e ad alcune immagini di una mostra di Genova “Quello che vedono i poeti” –  ne cito una, “braços abertos”, a cui viene fatto riferimento nei versi conclusivi di un testo della raccolta precedente Terra di risulta [La Vita Felice 2009], “A Nasso”: “Cristo redentore/a braccia conserte/in fondo a Guanabara“. Per approfondire e seguire questo tentativo di dialogo in corso tra fotografia e poesia, si può consultare questo link).

Il tempo è ora protagonista, ora contenitore, ora “tecnico delle luci” che illumina pezzi di storie, giocando con le ombre e rendendo visibili aspetti  e angoli che potrebbero preferire il buio; un tempo che cambia prospettiva, si cela sotto la superficie, tira qualche filo, osserva dall’alto, sempre un po’ in sordina, come se avesse altro, tanto altro da fare; un tempo con un corpo, a sua volta, dalle forme inquiete, e inquietanti, che cambiano. Cambia anche lo sguardo e con esso  la forma dell’oggetto su cui si posa, il suo rapporto con la consistenza, come succede nell’esergo di Casimiro de Brito in apertura della prima silloge Democrazia dell’Ordinario che propone una possibile direzione allo sguardo del lettore: “Tomo na máo una pedra/ e penso: uma nuvem/ un pouco menos efémera [Prendo in mano una pietra/ e penso: una nuvola/ un poco meno effimera]”.

Una delle poesie di Democrazia dell’Ordinario si chiama “Inventario”, e si potrebbe definire la raccolta così – un inventario obliquo di coordinate per richiamare in superficie paesaggi e gallerie della mente  – come nella poesia “Memorandum” qualche pagina dopo, dove si accenna a una storia che non viene narrata: “bambino moldavo e cinese/ grati al linguaggio cifrato /del matematico del rinascimento”; è presente nei versi una consapevolezza  che sospinge a volgere indietro lo sguardo, fare i conti per ricostruire un equilibrio, creare una base per poi poter ripartire.

Intanto il tempo contiene, oltre alla prima, già citata, altre tre sillogi: Kloe, o l’intermittenza della materia; Dediche ritrose e Della buonanotte. I versi scorrono, dicono – con (apparente) distacco – in modo addirittura lieve, come ha scritto qualcuno, ma al lettore arriva il peso e talvolta supera quello stabilito della forza di gravità. Un cielo denso, plumbeo, un’aria talvolta sottilmente minacciosa, e il susseguirsi di personaggi colorati  ora davanti, ora dietro le quinte, costringono a un zigzagare, a un continuo andare di qua e di là sulla linea dell’ossimoro, figura portante del libro, più delle singole figure poetiche contenute nei versi, perché si srotola attraverso tutta la raccolta (come la non nominata – ma presente tra le righe – matassa del fuso di Rosaspina).

È sottinteso – lo fa capire una serie di piccoli scintillii sparsi, non troppi, giusto il numero necessario – che la speranza  sta nella scrittura, che è lì pronta per accompagnare chi vuole uscire dalla cantina, scalino per scalino, verso per verso. La porta è già aperta in uno spiraglio.

E, considerata l’importanza del tempo, come quello degli anelli nella carne degli alberi, sicuramente non è casuale “dopo tutto questo vivere” (p.16, “Ikea”) il numero dei testi contenuti nella raccolta, un componimento per ogni anno, creando un mosaico, in cui si intersecano scatti mentali e riflessi, materia e antimateria, vita vissuta, illusioni smantellate e vita scritta, andando avanti poesia per poesia, come fa –  fuori dalle pagine – intanto il tempo.

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Barbara Pumhosel
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