Una conversazione sul paesaggio con Vitaliano Trevisan

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Padova, 26 agosto 2014, Teatro Verdi

Vitaliano Trevisan è puntuale, arriva alle 10 del mattino, come promesso. Chiede di bere un caffè prima di cominciare. Poi saliamo assieme all’ultimo piano del Teatro Verdi, mi fa strada verso l’ufficio del direttore del teatro. Ci accomodiamo e iniziamo una lunga chiacchierata sul paesaggio.

 

Ne “Il paesaggio – dalla percezione alla descrizione”, in un suo saggio Salomon Resnik dice: “Ogni percezione è allo stesso tempo una proiezione sulla cosa percepita. Ogni percezione è dunque intenzionale (Brentano). Percepire è così un modo di proiettarsi su una certa realtà, sintetizzarla e introiettarla e rappresentarla attraverso lo spazio e il tempo.” E poi ancora: “Ogni percezione è un’interpretazione intenzionale della cosa.” Per quanto riguarda la percezione del paesaggio lei è d’accordo? Le nostre visioni e interpretazioni del paesaggio sono sempre determinate da atti intenzionali, voluti?

No, non sono molto d’accordo, francamente. Quello che io cerco di fare è non pensare, specie quando cammino. Poi gli stimoli arrivano certo, e io cerco di interpretarli secondo una qualche griglia logica. Questo deriva probabilmente dai miei studi tecnici, mi sono diplomato come geometra. Poteva andare diversamente, avrei potuto diventare un geometra per professione, invece scrivo, è andata così. Oltre che sul paesaggio comunque leggo molto anche di architettura, anche questo forse è un retaggio dei miei studi tecnici. Quando leggo libri o saggi sul paesaggio spesso mi arrabbio, perché mi trovo in disaccordo con chi scrive, specialmente sul tema della percezione. Di questo ho anche discusso con Franco Zagari, un paesaggista molto famoso. A differenza sua io mi attengo al vocabolario: per me il paesaggio è ciò che appare simultaneamente alla vista. Per quanto poi riguarda la percezione, questo non è il mio campo, è più un argomento da affrontare a Scienze della Comunicazione.

 

L’uomo è da sempre portato in maniera innata a confrontarsi con il paesaggio, a legarsi ad esso e a indagarne i significati. Secondo lei da cosa è determinato questo legame? Qual è questa forza che ci lega al paesaggio naturale?

Questa è una questione già più complessa. Ormai il paesaggio non è più una questione solo naturale, anche se così può sembrare, ma anche artificiale. E qui entra in gioco molto la cultura del luogo, o almeno credo. Guarda ad esempio le colline toscane o i colli veneti nelle zone del Prosecco. La cultura del prosecco, e la devastazione che provoca, è tutto tranne che naturale. Sì, di base c’è la coltivazione delle viti, ma poi ci sono elicotteri, pesticidi… Il problema è che per definire questioni importanti sul paesaggio, in Italia si saltano gli ultimi sessant’anni, di storia e di cultura. Anche solo per definire l’ideale di paesaggio veneto, si ritorna sempre a Zanzotto, saltando chi è venuto dopo, per quanto importante possa essere. E questa è una negazione della realtà. C’è un grosso sforzo per definire il paesaggio, ma è una sforzo destinato a rimanere vano finché non si smetterà di saltare a piè pari gli ultimi sessant’anni.
La domanda era sul legame con il paesaggio. Il fatto è che questo legame ora è molto legato anche all’immagine. Guarda ad esempio i video musicali di Zucchero o Vasco Rossi, girati in vecchi capannoni fatiscenti. Loro però si guardano bene dal vivere in posti come quelli, in quelle periferie abbandonate. Vivono in grandi ville, lontano da tutto e tutti. E, per uno come me, cresciuto in periferia, è un motivo di grande fastidio.

 

Secondo lei la parola, quindi il linguaggio, è un buon metodo per raccontare il paesaggio? Ad esempio, secondo Pavese, era un metodo perdente, che finiva per evidenziare il limite umano e provocare una crisi allo scrittore.

Ho avuto un sussulto alla parola “raccontare”. É un termine col quale ho un rapporto difficile ultimamente, perché è sempre più legato alla comunicazione, cioè alla pubblicità. Oggi si racconta un prodotto, un brand. Preferisco parole come descrivere o evocare. Ecco, evocare è forse il termine migliore per descrivere il mio mestiere. Evocare immagini dal nulla. Io voglio fare tutto tranne che comunicare quando scrivo. Ed è la stessa ragione per cui non leggo romanzi, perché ci sento dentro comunicazione e non scrittura. La scrittura però si può usare per realizzare un progetto, come ne I Quindicimila Passi: con la scrittura si può costruire, ad esempio una torre di vetro, in quel caso.

 

Esiste secondo lei un modo per poter convivere pacificamente col proprio paesaggio? O si può essere in pace solo con un paesaggio che non ci appartiene, al quale siamo quindi meno legati?

Questa è una bella domanda… Ad esempio, un buon metodo per convivere pacificamente con il proprio paesaggio è quello di non vederlo, ed è esattamente quello che fa la grande maggioranza delle persone. La gente non vede il paesaggio. Il modo migliore per vederlo è quello di camminare in mezzo ad esso, attraversando la periferia diffusa; ma nessuno o quasi cammina più, e i pochi che lo fanno sono costretti a seguire piste ciclabili o aree pedonali, quindi non vedono il paesaggio. Direi che la maggioranza della gente vive assolutamente in pace.

 

Dalle sue pagine traspare un tangibile disagio per il disfacimento del paesaggio veneto. È un disagio che lei sente sulla sua pelle, o è un disagio che immagina comune e del quale si fa solo portavoce?

Il disagio che descrivo è assolutamente personale. È il disagio che sento sulla mia pelle.

 

É d’accordo che un rapporto maturo e sereno con il proprio paesaggio debba passare inevitabilmente per una fase di crisi? E che quindi una maturazione possa derivare solo dalla crisi, dal dolore?

È una questione difficile… Io credo che fondamentalmente si debba accettare la realtà. E soprattutto non ancorarsi al passato, di cui i centri storici sono un triste esempio.

 

Lei ha coniato un’espressione: “tristissimi giardini”. Potrebbe spiegare cosa intende con essa?

Io parlo dei giardini del mio paese. L’espressione “tristissimi giardini” è stata usata inizialmente da una scrittrice che conoscevo, per descrivere dei giardini di una periferia che lei non conosceva pienamente. Io intendo dire che sono tristi i giardini standard di oggi, in cui si cerca il più possibile di eliminare la crescita spontanea delle piante. Si tende a creare un unico grande prato, possibilmente all’inglese. Al massimo c’è lo spazio per qualche ulivo secolare. Niente a che vedere con i bei giardini di una volta, che stanno scomparendo. Erano ricchi di alberi, di piante anche spontanee, erano personali, e soprattutto erano espressione di una cultura che si è persa.

 

Lei vede qualche via d’uscita, qualche soluzione al progressivo disfacimento del paesaggio veneto?

Credo che, come primo punto, si debba prendere coscienza della situazione reale in cui viviamo. Poi, si dovrebbero censire in qualche modo tutte le costruzioni di cui il territorio è costellato. Infine, conseguenza diretta dei primi due punti, si deve smettere di costruire. Abbiamo strutture in abbondanza, e alcune sono anche belle. Non c’è bisogno di aggiungere altro, semmai di togliere.

 

Ha una parola di speranza o di conforto per chi, come lei, avverte il dolore per la distruzione del proprio paesaggio?

Speranza, in generale, zero. Perché le politiche edilizie del nostro Paese sono totalmente sbilanciate e non sono all’altezza della situazione. Inoltre, c’è da aggiungere che, da Machiavelli in poi, la corruzione è una costante. A tutti i livelli, non solo ai vertici. E questo non mi consente alcuna speranza in un miglioramento.

 

Le propongo, per chiudere, una specie di gioco: se lei dovesse salvare un solo elemento del paesaggio veneto dal disfacimento, dalla rovina, quale sceglierebbe? Può scegliere un luogo, un paese, un fiume, un albero, qualunque cosa faccia parte del paesaggio che lei conosce e ama.

Salverei sicuramente la “Rocca Pisana” di Vincenzo Scamozzi, che si trova a Lonigo, in provincia di Vicenza. È la mia casa preferita in assoluto.

 

 Il nostro tempo è concluso. Ci salutiamo cordialmente con una stretta di mano.

Alessio Franzin
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