VICOLO CIECO N.37: SPIGOLATURE

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Per scrivere narrativa dovrei avere storie lunghe o saper scrivere fine, è questa la cifra della scrittura, il vero grado zero, la parte terminale. Chi fa poesia la fa sempre all’Eluard, una lunga parola ininterrotta, perché il poeta non conclude mai in nessun campo ed è per questo che in fondo poesia non potrà mai esser altro che oralità e postura. Si scrive perché si parla e si dovrebbe scrivere come si parla, non fosse altro che per onestà; alcuni lo fanno perché sono incapaci di separarsi, non dalla lingua, ma da quello che la lingua rappresenta, dalle bugie che ogni lingua racconta. La poesia non è finzione, ma soltanto bugia, un modo garbato per mentirsi, un modo arrogante per mentire agli altri, perché poesia è anche dei paraculi, dei vili come me che non credono a un cazzo, ma di salvarsi lo sperano.

Ma quale fine della poesia? non sta più lì il problema, ma nel perché del suo proseguimento, nel darsi ancora da bere che ci sia qualcosa di nobile nello scrivere per una millantata urgenza, la stessa urgenza che si  pretende che da impulso diventi sentimento. No, non c’è più nobiltà nel pensare breve, solo un passaggio malsano che riduce a corto ogni istante per esigenza di comprimere l’ansia di condividere meglio in formato ridotto. Siamo al cospetto di una poesia zippata che non c’entra più nulla con i versi da asciugare, ma con l’illusione che corto significhi incisivo, che si predisponga meglio a un piace o a un retweet.

Forse più triste delle menate di “come salvare la poesia dai poeti” , più drammatico della sparizione del soggetto, qui è l’oggetto a diventare l’asta del contendere o a diventare inesistente. Diceva giustamente Magrelli che l’intratestualità ( procedimento di aggiustare, integrare e rimaneggiare i propri testi) è pienamente giustificato, ma qui il problema è proprio questo: il tentativo ridicolo del riassemblaggio del niente, perché non ci sono più abissi che ci guardano, ma soltanto badili per continuar a scavare.

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Alessandro Assiri
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