Su Ripartizione della volta di Daniele Bellomi

provo a esercitarmi qui nel campo dei tuoi sensi figurati e mai rivisti
e poi rivolti in fasce in transiti celesti sbagli e azioni che rimangono
nel volto che si sdoppia
da cruna[1]

 

bellomi opera primaLa nota di poetica redatta da Daniele Bellomi e presente nelle ultime pagine di Ripartizione della volta è un breviario consegnato al lettore: una serie di citazioni poste in corsivo costituiscono la struttura, il telaio sul quale si dispone la riflessione dell’autore in grado di piegare le parole di altri ai propri fini, misinterpretandole.  Così l’espressione “Abitare dove tutto è stato preso” che apre la nota è una citazione da Uno si indica all’altro di Corrado Costa[2] e dà avvio ai quattro paragrafi che illustrano ciò che sotterraneamente vive e si muove dietro al testo nitido delle poesie. Lo sforzo difficile e certo “non […] comodo o allegro” è quello di ricavare una propria abitazione nel mondo della scrittura, consapevoli che “non potrà servire a ripartire l’esistente”, a dare un’interpretazione della realtà, bensì a esporsi, a rendersi vulnerabili. Il “grumo nero impastato con bianchissima calce”, verso della poesia Sterilità in metamorfosi[3] di Adriano Spatola, giunge a indicare le parole stampate che si stagliano sul foglio e cercano una loro poeticità non più nella sola lingua o suono (la lingua-pasta di Christophe Tarkos che afferma ma langue est poètique[4]), ma nella disposizione grafica che permette alla lingua di divenire mediale e alla parola di darsi come traccia di un discorso più ampio e complesso, che demarca i suoi confini, il suo limes nello spazio bianco della pagina. Il territorio della poesia è la lingua del quotidiano che, a causa di questo uso funzionale, non presenta più zone vergini. Il tentativo dell’autore è quindi di dare una “collocazione dei nomi” (espressione questa di Corrado Costa[5]) che rovesci l’uso consueto e dia quella sensazione di perenne apertura, di molteplicità di interpretazioni: la volta del titolo della raccolta diviene metafora del punto dal quale far ripartire il discorso, punto di massima tensione e altezza che permette di capovolgere il funzionamento del linguaggio e salvare le parole dall’uso consueto: la poesia diviene, a queste condizioni, un territorio di  sperimentazione e di violenza sul reale.

Al secondo paragrafo troviamo un’altra traccia, questa volta non letteraria (almeno non immediatamente): l’espressione ‘retour à la raison’ sottende la citazione del primo cortometraggio di Man Ray[6] realizzato attraverso il montaggio di materiali preesistenti che si susseguono, senza delineare una narrazione, ma semplicemente giustapponendosi tra loro. Alcune sequenze sono realizzate impressionando la pellicola attraverso il contatto di oggetti comuni: sono le cose a occupare lo spazio e non la narrazione, qui forse il passaggio logico sottinteso, è al Parti pris des choses di Francis Ponge[7]. Inoltre nel cortometraggio appare per pochi istanti il Poema ottico (pubblicato un anno dopo, nel 1924), ovvero il poema che presenta le parole di ogni verso cancellate: ciò che rimane è la disposizione versale e lo spazio occupato dalle singole parole all’interno dello stesso verso. A sopravvivere è dunque la dimensione ritmica e spaziale del verso che costituisce un elemento peculiare della raccolta di Daniele Bellomi, infatti i suoi testi si danno come rettangoli o quadrati approssimativi, riprendendo la forma-cubo di Amelia Rosselli e adattandola alle proprie esigenze. Il respiro che si muove all’interno dei versi non mima quello di altri, ma ha l’autenticità di chi davvero si è ascoltato respirare. Se anche la presenza di una strutturazione sintattica reiterata e i ritorni fonici che costituiscono la ricorsività dei testi, possono avere la Rosselli come modello, l’influenza è stata talmente introiettata che il risultato è originale e autentico.

Questa sorta di ‘gabbia’ versale all’interno della quale si muove la voce e la riflessione ha poche eccezioni: si tratta dei tre testi della serie nistagmi che intendono mimare anche nella disposizione grafica del verso i movimenti ritmici e oscillatori dei globi oculari (o anche inducono nel lettore una forma fisiologica di nistagmo), dei sette testi di mediante omissione nei quali la particolare disposizione potrebbe alludere all’effettiva omissione di parole presenti in precedenza, e ai tre testi di distimie.

Durante una serata organizzata dalla casa editrice Prufrock Spa[8], Daniele Bellomi ha spiegato la particolare disposizione della serie mediante omissione: i testi sono raggruppati a due a due nella stessa pagina, ai margini, disegnando mediante lo spazio bianco un grande quadrato al centro della pagina (e nel caso del settimo testo troviamo all’estremità della pagina un singolo verso posto tra parentesi che permette di ‘disegnare’ anche in questo caso il quadrato bianco). Si riproduce quindi anche graficamente e visivamente la stanza di cui si parla e scrive. I testi della serie possono essere considerati come coppie di terzine esplose legate tra di loro dalla ripresa dell’ultima parola della terzina a inizio di quella successiva.

Per distimie si può invece ipotizzare che la disposizione consueta del testo sia interrotta e presenti innumerevoli spazi bianchi nel tentativo di rendere percepibile lo sconforto, la difficoltà di concentrarsi, di prendere decisioni tipici di chi soffre di questo disturbo dell’umore, catalogabile come una forma più lieve ma cronica di depressione. Tale disposizione delle parole apre al lettore diversi percorsi perché rende possibili associazioni anche non lineari che richiamano la tortuosità di pensiero del distimico.

Queste le eccezioni alla norma di una struttura metrica che si articola come ossatura del linguaggio, impalcatura celata al di sotto delle parole, determinando una sistemazione fluida e in movimento al linguaggio interiore[9] che Vygotskij distingue nettamente da quello esteriore (destinato alla comunicazione) e dal linguaggio scritto che obbedisce alla grammatica e alla logica. Il linguaggio interiore è rapido, denso, tendente alla sovrapposizione di piani e osservazioni diverse e procede per balzi, analogie, agglutinando in un’unica parola stimoli sensoriali diversi. Ora nei testi di Bellomi il linguaggio interiore percorre sotto gli occhi del lettore la strada che lo porterà a divenire linguaggio esteriore che si comunica attraverso il linguaggio poetico. Si spiegherebbe così l’andamento ritornante dei testi che si costruiscono attorno a un nome, analizzato, declinato etimologicamente, variato e da lì, in grado di generare altri nomi, altre avventure del pensiero.

L’ossatura metrica (definizione non errata perché i testi sono davvero costellati di sostantivi e verbi pertinenti l’apparato scheletrico come il lettore potrà constatare percorrendo l’ampio catalogo fornito dal secondo testo di distimie[10]) dà supporto al tema dominante l’intera raccolta: la continua discrasia tra la percezione e il dato percepito. La realtà è conoscibile dopo che il dato sensoriale è divenuto percezione attraverso un processo di elaborazione dell’informazione che si organizza in esperienza complessa, e in questo passaggio si pone l’impossibilità di coincidenza tra il dato sensoriale e il dato rielaborato dal cervello. A ciò si aggiunge che il testo si presenta a sua volta come un’interpretazione personale della realtà che ha già subito una prima distorsione e che, esprimendosi all’interno della pagina, viene alterata ulteriormente: le parole non coincidono con le cose e non sono nemmeno in grado di rendere esperibile ad altri il processo interpretativo della ragione (se esposto, p. 23: “e impari che la percezione non consiste nella bocca | mentre esala il suo momento non consiste nello spazio inospitale | di chi ascolta e ora è freddo ora straniero”). Nonostante ciò i testi si pongono come tentativi inesausti di dire questa impossibilità, mettendo in scena un io che percepisce e interpreta la realtà. Il testo inaugurale esoforie pone tutti questi elementi, descrivendo lo sforzo dell’io di superare e mettere tra parentesi la difficoltà di far convergere gli assi visivi e comporta una sorta di strabismo latente che rende problematica la lettura del mondo, la sua interpretazione: (esoforie, p. 11) “se la vista gira e vuole convergenza, se dicendo piano la riga | o il verso appena ricomposto, con la vista che rigira le cose, | se gira e gira e finisco ad avere paura dei gesti con cui rovescio | sempre tutto, del mio non saper mettere insieme ciò che prima | ho trovato capovolto”. In esoforie è sviluppata la metafora tra occhio e testo: la visione è un’interpretazione della realtà così come la lettura, infatti in entrambi i casi lo stimolo sensoriale si deve tradurre in elaborazione del dato sensibile che si struttura in esperienza. Ma la realtà permane sfuggente e si dà all’osservatore come pellicola, somma di fotogrammi, mentre il linguaggio testimonia la sua permeabilità all’ambiente e di conseguenza la sua impossibilità di corrispondere alle cose: (novae, I, p. 18) “l’idea di corrispondere alle cose che si fanno | con le mani, quando è il caos a fare parte di parole indotte, | imposte dall’ambiente, dette o magari percepite, | appena ribattute sulla pellicola del mondo”.

I sensi che permettono l’interazione con il mondo costituiscono una trama ricorrente e fitta, soprattutto la vista come si può constatare dalla frequenza di verbi e sostantivi legati ad essa e alla luce: esoforie, occhi, vista, visione, sole, lune, fiamma, candele, tungsteno, gas, fotogramma, sensazione luminosa, immagini, radiazione, fuoco, si sgrana, sfocatura, reticolo, cristallino, pellicola, fissazione in uno schermo, cornee, bulbo, lente, vibrazione riflessa, visibile, osservazione, guardo, orbita, guardi, vedi, radiale, ombra, visore, si illumina, malattia visibile, brillamento, stelle, sistema ottico, radianza, anomia della visione, retina, osservazione delle stelle, malattie degli occhi. Visione che si dà anche come percezione tattile, somma di conoscenze manipolatorie della realtà, in grado di riattivare esperienze momentaneamente destinate all’oblio: (novae, II, p. 19) “penso a ciò che non potrai più vedere | o salvare nella memoria docile degli altri, tenuta a parte, radente | al solco che non resta sul periodo corto degli anni che dimentichi | come si fa con tutto almeno una volta nell’esistere, riattivati al tatto | di una luce che arriva se percorre la materia”. Nel testo immediatamente successivo (novae, III, p. 20) c’è una riflessione sul linguaggio e sull’esigenza umana di dare nome alle diverse componenti della realtà, esigenza che presto vira nello svantaggio di applicare un’etichetta che, inevitabilmente, condanna: “troverò sempre violenta l’idea di avere nomi, tirarli dietro come fossero | trofei per miste associazioni, in nervi, a fasci, setti e alloggiamenti, | pensando siano altro e non segnali di esistenza, se poi da questi | nascono germogli, sostanze inerti, ombre posteriori, realtà | non regolari e infette per passi traslati da una linea all’altra, | invalidati poi quando decidi che è il caso di riprendersi la vita […] col nome | si perde quel vantaggio che si lascia ai vivi, ci si dispone a prendere | oneri e colpe dal genoma, pronti a raggiungere i perduti | nella bocca della bestia, rendersi al vuoto più totale o selettivo”. Al linguaggio si collega la tematica della voce, dell’apparato fonatorio che si articola in idioma: (esoforie, p. 11) “il testo annegato | e il suono come di corpi che risalgono in superficie, se strozzando | l’accesso della voce farei del vizio una cosa che non si redime, | che se può gira assieme alla visione”;  (colloidale, p. 17) “se grido | esplode se ciò che rimane è una sola parola che svicola”; (indice, p. 28) “la voce che sentono è la tua, costretta | a uscire dai ranghi del muro occidentale […] mancanze | della voce poi nei sacchi aperti che raccolgono quei resti, | rimasti che saranno frange, poi distratti da altre arcate | in cui rimane questa lingua che si stacca, poi parlata, | dopo, se c’è un dopo, o andata, per davvero, altrove”. Si arriva così a combustion (I, p. 38), un testo intessuto di suoni, di tentativi vocali, insuccessi e ripartenze: “os, che poi si ossida, declina, torna in bocca, resta | senza peso, riposa e appare netta: è leu, si arrotola | nei manes, distribuisce il seme non rimasto, chiama | aiuto, risuona con, riposta, consona alle proprie quote, | varcando il fiato della rimanenza: vuole e si registra, | ripete la stessa frase, risuona con: tracciante: segnale”.

Infine è indagato anche il rapporto tra la memoria e l’organo deputato all’interpretazione dei dati sensoriali e alla loro archiviazione (il cervello) nella serie mediante omissione composta da sette testi che, in una redazione precedente, venivano presentati anche come sette unità abitative, collegandosi quindi al concetto espresso nella nota di poetica di “abitare dove tutto è stato preso”. La stanza presentata in ognuno dei sette testi potrebbe essere interpretata come una metafora del cervello. L’intento è quello di indagarne il funzionamento (“parlare della stanza o meglio in presenza di una volontà | che la apra consentendoci di metterci al suo interno”, mediante omissione, I, p. 24) e arrivare a comprendere come i ricordi e le esperienze siano catalogati (mediante omissione, II, p. 24, “la stanza | risistema | i propri oggetti scegliendo priorità e convenzioni annota | al meglio le mancanze ripartendo i margini”), come i pensieri vengano elaborati, la memoria rimossa o alterata (mediante omissione, III, p. 25, “come la stanza assorbe spazi torna | indietro | si rivolge all’interno gira verso quel muro messo a destra allo scopo | di essere dimenticato e che pura ristruttura il luogo portando | una profondità atterrita | è così che la stanza si rimuove”; mediante omissione, V, p. 26, “nella stanza rimangono poco le scorie negli angoli perché lo sporco | possa essere sinceramente vero ed è appeso all’omissione | scordarsi di tenere in ordine”). Ma nonostante la rimozione (l’omissione appunto) dei numerosi dati incamerati durante la giornata, alcuni resti  sopravvivono all’opera di smantellamento e di pulizia sia quotidiana sia di un maggior arco temporale. Si può così verificare la riemersione dei ricordi che si impossessano del presente e di fronte a tale offensiva a nulla serve il ritiro dei sensi: mediante omissione, VI, p. 26, “dentro | la stanza c’è un vento che non si lascia indietro nessuno | tocca a tutti e fa vedere come si armano le cose come ci vengono | incontro per averci e purtroppo | non basta chiudere le imposte”. Il testo finale della serie rappresenta gli effetti dell’omissione e il recupero del dato mnestico che sconvolge il corpo: la riemersione dei dati fino a poco prima smarriti comporta il crollo della struttura della stanza e la sua immediata ricostruzione (mediante omissione, VII, p. 27, “se l’omissione consente ad ogni stanza di crollare aprirsi | in due come una cosa che squaderna il corpo in mille direzioni | è ora che tutto si sistemi faccio un segno e la stanza sta”), determinando una continua alternanza di memoria e oblio, catalogazione e necessità di creare spazio (mantica, III, p. 37 “eliminare per accogliere […] | (posto da cui scolare paratìe, vertice alto che passa | da rami alle maree; fare il vuoto, uscirne fuori”).

[1] Daniele Bellomi, Ripartizione della volta, Anterem – Cierre Grafica, Verona, 2013, p. 15.

[2] “ma qui abitare dove tutto è stato preso | non è comodo o allegro come nell’uva | gli acini |
allegramente o il tic tic | all’interno delle zucchine vuote o il falco | nelle piume | abitare dove tutto è stato preso | non è comodo stiamo faccia a faccia senza niente | davanti | il vuoto è così pieno | che non possiamo entrare | ma stare attorno | dove tutto è stato preso | e non ci sono neppure | estremità | da stare in piedi | se | tutto è stato preso | non è comodo guardare dentro | nel vuoto | c’è continuamente fuori | da guardare che | è stato preso | restiamo | fuori | bocconi sotto il vuoto che | sta bocconi | hanno | preso | niente | e hai paura che gli facciano male”, Corrado Costa, Uno si indica all’altro in Cose che sono, parole che restano, Reggio Emilia, Diabasis, 1995.

[3] Adriano Spatola, Sterilità in metamorfosi, in L’ebreo negro, Milano, Scheiwiller, 1966.

[4] “Ma langue est poétique, ma langue est absolument poétique, ma langue est immédiatement poétique, ma langue est poétique, ma langue est poétique est un leitmotiv poétique, ma langue est poétique est poétique, ma langue est poétiquement désirée, c’est un désir de langue, un désir de langue poétique, ma langue est une langue poétique, ma langue se répète poétiquement, ma langue est une répétition poétique, ma langue s’agence poétiquement, ma langue est un désir de langue”, Christophe Tarkos, Ma langue est poétique in Écrits poétiques, Paris, P.O.L., 2008, p. 52.

[5] Corrado Costa, Le nostre posizioni, Torino, Geiger, 1972.

[6] Le retour à la raison, prodotto e diretto da Man Ray, Francia, 1923. Cortometraggio.

[7] Francis Ponge, Le Parti pris des choses, Paris, NRF-Gallimard, 1942; ripubblicato in Œuvres complètes, Paris, NRF, tome 1, 1999.

[8] Si tratta della rassegna “Precipitati e Composti” organizzata da Prufrock Spa e MeanTime e tenutasi presso il Giardino Pincherle di Bologna. Il 22 luglio 2014 Daniele Bellomi è stato ospite della rassegna e durante l’intervista ha avuto modo di presentare e leggere alcuni testi di Ripartizione della volta. Si può ascoltare la registrazione audio della serata al seguente link: http://prufrockspa.bandcamp.com/album/precipitati-e-composti-intervista-a-daniele-bellomi. La dichiarazione di Daniele Bellomi si trova nella seconda parte dell’intervista.

[9] L.S. Vygotskij, Pensiero e linguaggio. Ricerche psicologiche, (1954) Roma-Bari, Laterza, 1990.

[10] “gas, telefono, centomila rubli | sono solo || frazioni, | quasi membrane lì fuori, | non sanno || di ossidarsi || (della fatica con rottura) gli argini || e le piaghe | metalliche nelle catene | di respirazione || ancora ho || una bicicletta che dà spazi di manovra, | ma non prima di un esame | al cranio, || ai movimenti che può fare | la mandibola se rotta, | due assi convergenti || non mai pensare a ciò che è stato calcolato, non || la posizione delle docce | nelle ossa, non || le anse || che paiono nicchie, absidi | per le infezioni || non più nemmeno || oltre le strutture, | mai i nervi || in fasce, || gli eventi sottoposti a una frattura || so ciò che penetra, | ancora || oltrepassa la matrice || e non è un balzo, una foto || in diverse posizioni, un cardine || delle incisure || che porta la continuità dei solchi, | i tratti || di strada tolti || alle automobili, || ma lo spazio giusto per fissarsi | al manubrio, || mani ferme || all’impatto, a ciò che forse non precede” Daniele Bellomi, Ripartizione della volta, cit., p. 33.


Giusi Montali
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