L’abilità dell’inabitabile

terra di risulta lecomteTerra di risulta è l’ultima raccolta poetica di Mia Lecomte. Come spiega la prefatrice Gabriela Fantato, il titolo metaforico rimanda al risultato degli scavi archeologici, quel “misto di terra e detriti, pietra e residuato fossile non assimilabile ai rifiuti, ma che può essere riutilizzato dopo un’ulteriore cernita” (p. 5). In realtà, la cernita è stata già fatta: molte delle liriche qui raccolte sono state pubblicate in riviste italiane, francesi e statunitensi.

Chi scrive conosce l’autrice. È una conoscenza sghemba perché ci troviamo a transitare sempre in Paesi diversi, intrattenuta grazie a filamenti leggeri come quelli micelici ma non superficiali; un velo di sabbia romana e un viaggio in treno hanno pattuito da anni una stima e simpatia reciproca. Per non avere l’impressione di calpestare l’anima altrui, darò per scontato che il poeta non è autobiografico neppure quando vuol esserlo e che lo è sempre e comunque quando è universale. Così come altrettanto banalmente dichiarerò di accingermi, qui, non già a sviscerare quel che la poetessa pensa del suo scrivere, bensì a cristallizzare l’architettura di un’idea, la mia ricezione, sulla poesia di Mia Lecomte.

Siamo gente da premesse, io e Mia. Anche lei ne fa una, in cui spiega i contenuti delle quattro sezioni del suo libro: sono luoghi – città, stati o semplici vie –, oggetti da Carosello, animali veri o immaginari. E sono nel contempo tuttavia pretesti per dare un involucro a sensazioni da cui ci si vuol separare, levar di dosso, e che saranno lavate vie come da un corpo sotto alla doccia. Per dire l’inabilitabile. Non nel senso di ciò che non può essere abitato (una casa, una via, una città o un Paese), bensì in quello dell’essere umano che non può più essere abitato. Che si disfa del passato e dei ricordi sfilandoseli neanche fossero un abito, ma prendendo amorevolmente congedo da essi. Non sono solo luoghi, sono anche persone. E sentimenti, quando nessun abbandono è possibile, quando l’andirivieni quotidiano della separazione non risparmia neppure il sé (Molte volte oggi ho passato la frontiera della mia pelle dentro e fuori, p. 39).

Questa raccolta avrebbe potuto avere per titolo la parola “distacchi”: pietà, di noi qua dentro, pietà, / con le finestre finte / pietà, dell’abitarci assente / del non poterci stare / pietà, pietà, pietà, / in questa nostra altrui (p. 17). Pietà, sì, ma addio. Queste poche radici (p. 78) non consentono infatti né di stare né di restare. A far cosa, poi? A difendere la noia sorvegliare / l’ansia [basterà] la mia testa qui da sola (p. 79).

La voce poetica di Terra di risulta ricuce dello strappo delle carni invano le sue giornate: all’appello altrui risponde come cuculide, su due sole note, cu-cù, quelle del dolore e dell’impotenza, della resa e dell’imbarazzo oppure del tedio e del rimpianto, uno / e due e uno non è dato saperlo e due non c’è scelta / è uno, è due, tutto qua, tutto qua (p. 69).

A chi tutto sa, a chi dubbi non ha, a chi ripete e si ripete, obbligando Papagena alla partitura serratanell’orgasmo pentagrammale (p. 71), lei risponderà come l’asino di Buridano che non sapendo scegliere tra due cumuli accesi (quest’asino non si nutre di fieno!) forse ne morirà, ma nemmeno può impedirsi di toccare, annusare, / riguardare, riguardare / senza osare scegliere mai (p. 75).

Noi: esseri umani zoomorfizzati con gli oggetti ad antropomorfizzare; essi: distanti nella vita e vicini nel ricordo, in un Carousel – scrive Mia Lecomte – ove noi rigiriamo bestiali sopra i perni di una corsa a sbranare / e la giostra che abbiamo è la stessa che siamo / questa giostra sempre curva per tenerci vicini / ci permette con un occhio di far scorrere lacrimevoli / addii… (p. 67). In questomanège, melensamente e disperatamente vorticoso, gli esseri umani percorrono un falso percorso ellittico – e comunque sempre lo stesso – con la forza di gravità che scazzottando con quella centrifuga obbliga tutti a restar vicini, prima dello sbalzo, della fuga del corpo e dello sguardo lacrimevole cui non viene accordato di condividere neppure lo stesso rigo con gli idiosincratici addii. Occorre difendersi, allora, come balene bianche, come Moby, semmai con lentezza affiorare, quasi / immobile bianca / ovunque introvabile / intatta (p. 70). Preservarsi, mantenersi a distanza, indisponibili, quando la fuga non è possibile, quando non esiste un altrove / da qui (p. 77).

Tutta colpa del micelio, se le nostre radici si sciolgono come quella della tisana di ginger? Già, poiché di tanti luoghi posseduti, abitati, visitati, coi quali ci si è a lungo intrattenuti, poi in verità nulla ci appartiene fino in fondo: non aggiungiamo più zucchero / alla nostra tisana di ginger / la beviamo così questa radice / annacquata che finisce di esistere / a sorsi la nostra radice disciolta / senza neanche mischiare la sola / radice che avremmo se fossimo / a casa nostra davvero (p. 63).

C’è sempre un tempo in cui si è creduto. E ora non c’è più. Era l’amore / imparato, l’idea di una famiglia seduta, il tempo passato / negli occhi, un tappeto più grande ogni sala / un’onda soltanto intravista (p. 59). E c’era un tempo in cui l’abitabile era muro su muro su muro, e anche argano, chiodo, stivale; pazienza se poi la realtà era quella di un cartone animato giapponese (e prima ancora fumetto francese): i Barbapapà colorati, laddove un maschio era rosa e una femmina nera, laddove sette nuovi colori costituivano l’identità filiale. C’era posto per Topo Gigio e la pallina Zigulì, nella realtà vissuta e in quella sognata l’amore di un uomo era rappresentato da un cono bianco senza braccia a nome Paulista, il quale senza perdersi in chiacchiere (e con uno sguardo senza sguardo tondo a tondo)intimava a una imbarazzata Carmencita di chiudere il gas e fuggir via (p.47). Quali strade perverse percorrono i simboli, i miti per forgiare l’effigie dell’amore perfetto.

Di trasferirsi nel sogno se ne parla magari al caffè, intanto nella realtà manca sempre qualcosa: cosa manca per ricevere gli altri davvero / come ospiti illustrando abitudini e luoghi souvenirs / e genomi di una casa che sia proprio una casa dalle origini / fino al solito telegramma arrivato stamani tanto presto: / per andarsene stop come sempre stop / imboccare la strada più esterna stop / e continuare (pp. 24-25).

Si finisce per vivere sulla soglia, per sottrazione, tirando indietro il piede come il footballeur, anzi no, la gamba come un ballerino stizzito. I toni sono sommessi e i suoni ovattati, si scivola sulle pattìne dell’esistenza per non fare – ma soprattutto per non ricevere – male: occorre rifugiarsi dentro al minimo / vagliando prospettive in proporzione / e starci stabilendo palmo a palmo / misure sempre in scala del dolore (p. 28). Varrebbe forse la pena di aspettare che la scelta si compisse da sé (p. 75), se non fosse che l’umano vizio è quello di cercare capitali per poi chiuderci nei loro giardini (p.67).

Si sta dunque. Non come le tremule foglie ungarettiane, bensì come sta quella quercia che è sola, come Alice al di qua dello specchio (Lezioni salentine, p. 23). Ciononostante, indomita sfugge alle dita del poeta una femminilità caparbia, contro la stessa autrice, la quale nel frattempo, novella Penelope, sapientemente razionalizza e scrivendo domina la materia del suo inabitabile esistere. O meglio: resistere, primo verbo quotidiano di ogni donna.

(già su Reti di Dedalus)

Jacqueline Spaccini
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