Per i 50 anni del gruppo 63*

segnale_n_97Iniziamo quest’incontro sul Gruppo 63, organizzato dalla rivista «Il Segnale», ascoltando le parole di Umberto Eco, che ha rilasciato numerose dichiarazioni testimoniali nel corso degli anni. Umberto Eco, in un breve scritto sul Gruppo 63, ora in Sugli specchi e altri saggi (Bompiani, 1985), si pone la domanda «se il gruppo sia mai esistito».
Un paragone con gli insiemi matematici può servire a spiegare quale problema pone Umberto Eco. Mentre nel linguaggio quotidiano gli oggetti di una collezione possono essere qualunque cosa e non necessariamente omogenei, nelle formulazioni matematiche gli oggetti devono essere invece definiti, avere degli elementi in comune. Il Gruppo 63 era un insieme così come s’intende in matematica? No, gli oggetti (in altre parole, le persone) che cerchiamo, per semplice comodità espositiva o per esigenze scolastiche, di rinchiudere nell’insieme denominato Gruppo 63 sono, in realtà, dei soggetti problematici. Definire il Gruppo 63 è problematico proprio a causa dei suoi componenti (diversissimi fra loro). Il Gruppo 63 è quindi un non-insieme e allo stesso tempo un insieme, nei due significati: quello matematico relativo all’insiemistica (in questo senso, ogni componente è isolato dagli altri) e quello logico-grammaticale, che sottintende un complemento di compagnia (lo stare insieme agli altri).
Ma chi erano i componenti del gruppo? Un tratto comune, se c’è, è il fattore generazionale. Si tratta, infatti, di trentenni e quarantenni che «già lavoravano nell’industria culturale, nelle case editrici, nei giornali, nell’università» (Eco). Era una generazione di mezzo, unita e divisa. Il gruppo «non ha avuto alcun capo carismatico», come dichiarano Nanni Balestrini e Alfredo Giuliani nell’introduzione al volume Il Gruppo 63 pubblicato più volte da Bompiani; i quali aggiungono: «Qualcuno all’interno ha creduto di identificarlo in Sanguineti, quanto meno come capofila. In realtà Sanguineti non capofilava un bel niente, anche se aveva il suo bravo prestigio, né Balestrini o Eco o Pagliarani, o altri, capofilavano. C’era una specie di collettivo informale tenuto insieme dalla reciproca convinzione che a dispetto dei dissensi si andava tutti contro la Letteratura Costituita».
La risposta di Eco alla domanda se il gruppo sia mai esistito è questa: «Il Gruppo 63, è stato detto, non esisteva. Nel senso organizzativo del termine era vero: si trattava in effetti di una comunità di scrittori, saggisti, pittori, musicisti, che da tempo si conoscevano e che facevano cose di comune interesse. Il gruppo dunque esisteva come fatto di costume e come manifestazione occasionale […] [e] come tale affiorava all’esistenza solo quando si facevano delle riunioni in cui i partecipanti si presentavano a vicenda i propri lavori e si criticavano l’un l’altro senza vergogna e senza complicità». C’era un’esigenza politica e culturale, ma anche psicologica, in quegli anni (di lì a poco ci sarebbe stato il ’68): stare insieme, portare avanti una ricerca collettiva, cercare delle soluzioni non personali, ma di gruppo. Era un mood, un’atmosfera, che avvolgeva tutti indistintamente. Ma, come mettono in luce i documenti ufficiali, sulle soluzioni (artistiche e… politiche) nascevano liti e discussioni interminabili. Tant’è che sulla fine del gruppo Eco ha più volte dichiarato che l’unica cosa che ha contraddistinto il Gruppo 63 è la sua capacità di suicidio al momento buono.
L’ipotesi resta dunque aperta: il Gruppo 63 non è un gruppo; il Gruppo 63 è una serie di fratture e micro-fratture all’interno del gruppo stesso. Il Gruppo 63 è queste fratture interne (oltre che esterne). O, almeno, questa è la parte più originale. Contrariamente alle avanguardie storiche (Futurismo, Surrealismo, Dadaismo…), il Gruppo 63, infatti, non ha mai prodotto, per esempio, un manifesto ufficiale; mentre esistono, al contrario, numerosi scritti e interventi che si contrappongono criticamente l’uno all’altro (molto interessanti sono, in tal senso, le trascrizioni degli atti dei convegni del gruppo).
Il Gruppo 63 si riunisce per la prima volta, tra il 3 e l’8 ottobre del 1963, presso l’Hotel Zagarella a Solunto, nei pressi di Palermo. C’erano una trentina di persone, molte delle quali provenienti dalla rivista «Il Verri», ma anche da «Officina» e da «Menabò». Questi sono il luogo e la data di nascita convenzionalmente accettati. Com’è noto, è Luigi Nono (un musicista) a suggerire il nome Gruppo 63, sul modello del Gruppo 47, un movimento culturale tedesco fondato nel 1947. Ma «“Gruppo 63” è una sigla di comodo», ammettono Balestrini e Giuliani nell’introduzione citata. «La prima occasione d’incontro», aggiungono i due curatori dell’antologia, «ci fu offerta […] [in occasione della] “Settimana internazionale della Nuova Musica” di Palermo, prestigiosa manifestazione dei giovani compositori d’avanguardia». C’era già quindi una musica d’avanguardia; e i letterati (interessati a seguire un analogo itinerario di rinnovamento) erano stati invitati a partecipare. La ricerca musicale di quegli anni contiene già “tutti” gli elementi che poi saranno caratteristi dell’avanguardia letteraria. Per esempio, la ricerca musicale di Luigi Nono, uno dei più significativi esponenti della nuova avanguardia, non è finalizzata alla disintegrazione totale dei valori strutturali ed espressivi della musica tradizionale, ma è contraddistinta dall’arditezza dei procedimenti compositivi. Il compositore era maturato attraverso le esperienze della musica seriale, elettronica e concreta. Era inoltre un artista impegnato. I titoli della sua produzione sono indicativi, ecco qualche esempio: Epitaffio per García Lorca (1953); Il canto sospeso, composto su frammenti di lettere di condannati a morte della Resistenza europea (1955); Cori di Didone, su testi di Ungaretti (1958); La fabbrica illuminata per voce sola e nastro magnetico (1964); Non consumiamo Marx per nastro magnetico (1969) ecc. Com’è evidente, questi elementi individuati nella musica di Nono sono degli elementi comuni all’interno del Gruppo 63: sperimentalismo (la musica seriale), impegno politico (il dialogo su Marx), uso di nuovi strumenti (il nastro magnetico), confronto / opposizione con la tradizione letteraria (le poesie ermetiche Ungaretti), l’internazionalismo (la Resistenza europea) ecc.

[1° poeta presentato: Elio Pagliarani] Tra gli autori più autorevoli presenti a quei primi incontri palermitani del Gruppo 63 c’era Elio Pagliarani (1927-2012). Nato a Viserba, vicino Rimini, a diciotto anni viene a Milano. Primo impiego: traduttore dall’inglese e dattilografo presso una società di import-export (siamo nell’inverno 1947-’48). State pensando a La ragazza Carla? Carla, la protagonista  del poemetto, è infatti una dattilografa e lavora alla Transocean Limited, una società di import-export. Il secondo capitolo del poemetto inizia così: «Carla Dondi fu Ambrogio di anni/ diciassette primo impiego stenodattilo/ all’ombra del Duomo». La ditta presso la quale lavora ha una serie di cento targhe d’ottone, tutte uguali. La ragazza è il prototipo (negativo, come s’è poi scoperto) di una serie di impiegati modello (il modello è quello spersonalizzante creato dal capitalismo, che riduce gli uomini e le donne a oggetti seriali interscambiabili, proprio come le macchine per scrivere). La serialità (che avevamo notato nella musica di Luigi Nono) si ripresenta nel poemetto sotto forma di ritmicità poetica della lingua quotidiana. Elio Pagliarani, ne La ragazza Carla, trasforma il verso in serialità ritmica. Nel primo capitolo, per esempio, ripete raddoppiandolo in ogni verso un senario con ictus di 2a e 6a. E questo doppio senario con accentazione fissa crea un rimo ripetitivo, sempre uguale e se stesso. È come un rumore di sottofondo della città di Milano, operosa e industriale. Negli anni Sessanta Elio Pagliarani si trasferisce a Roma; ma La ragazza Carla è un tipico prodotto editoriale milanese (eventualmente esportabile ed esportato).
Gli incontri ufficiali del Gruppo 63 rimbalzavano puntualmente sui giornali (la macchina culturale funzionava!), ma i partecipanti si incontravano poi quotidianamente. Non in salotti borghesi (come venivano chiamati), ma in locali, trattorie e bar popolari. A Milano c’era (e c’è ancora) il bar Jamaica, in via Brera, a due passi dall’Accademia di Belle Arti. Un luogo di incontro già nel primissimo dopoguerra. Ci andava anche Salvatore Quasimodo. Tra gli artisti figurativi c’erano, per esempio, il giovane Piero Manzoni (1933-1963) che inscatolava le sue feci e Lucio Fontana (1899-1968) che, abbandonato il figurativo, tagliava le tele. Al Jamaica si potevano incontrare gli scrittori Nanni Balestrini, Germano Lombardi (1925-1992) e altri legati al Gruppo 63. E anche musicisti, pittori (che scambiavano tranquillamente quadri con cibo e vino). C’erano anche i fotografi, che finalmente assumevano la qualifica di intellettuali: Ugo Mulas (1928-1973), che voleva «essere uno che arriva sul posto e lascia che la macchina registri»; Guido Aristarco, decano (come recitano le enciclopedie) della critica cinematografica marxista influenzata dal pensiero di György Lukács e di Antonio Gramsci e altri, molti altri.

[2o poeta presentato: Giulia Niccolai] A Milano, in quegli anni, c’era anche Giulia Niccolai, giovane fotografa e giornalista (madre americana e padre italiano) che firmava reportage da tutto il mondo. Anche lei si legherà al gruppo. Nel ’66 pubblica, per i tipi di Feltrinelli, il romanzo Il grande angolo (con riferimento esplicito alla macchina fotografica, all’occhio meccanico). Si trasferisce poi a Roma, dove tra il ’67 e il ’69 lavora nella redazione della rivista letteraria «Quindici», organo quasi ufficiale del Gruppo 63. Ed è qui che incontra Adriano Spatola (1941-1988). La coppia è una delle più note all’interno della Neoavanguardia. Era arrivato il maggio ’68 (in realtà, in Italia era già il 1969). Il ’69 è un anno importante per il Gruppo 63 perché rappresenta la fine dello sperimentalismo o, meglio, l’inizio della sua trasformazione in impegno politico. Tant’è che i testi accolti nell’edizione Bompiani del Gruppo 63, per scelta dei curatori, sono stati composti prima del 1970. Nel 1970 Giulia e Adriano si trasferiscono nel Casale di Mulino di Bazzano, in Val D’Enza, all’inizio dell’Appennino, in provincia di Parma. Senza neppure il telefono, lontano dalle città. In un’intervista rilasciata ad Antonella Doria e apparsa sul numero 94 de «Il Segnale», Giulia Niccolai spiega questa decisione: «Noi ci siamo rifugiati in campagna proprio perché in città come Roma, Milano, Bologna ecc. tutti i nostri amici si occupavano ormai solo di politica e non più di poesia. Dovevamo allontanarci da quegli ambienti per riuscire a dare un senso, un valore a ciò che ci eravamo proposti di fare: la rivista [«Tam tam», nda], le antologie di poesia visiva e concettuale, la piccola casa editrice che in dieci anni avrebbe pubblicato più di cento plaquettes». Cambiare luogo (e anche i registri stilistici sono dei luoghi letterari nei quali si può restare impigliati), con–fondere i luoghi e i generi tradizionali, consente a Giulia Niccolai di essere completamente libera dagli schemi formali tradizionali e, anche e soprattutto, dai contenuti. Per questo è una delle voci più autentiche, e sfugge continuamente a qualsiasi catalogazione. L’editore Le lettere di Firenze ha pubblicato recentemente nella collana Fuoriformato diretta da Andrea Cortellessa  il volume Poemi & oggetti, curato da Milli Graffi, che raccoglie tutte le poesie di Giulia Niccolai. C’è dentro Poema & oggetto (1974), il più difficile da riprodurre tipograficamente; c’è Greenwich (1971), una raccolta di poesie dense di umorismo composte di soli toponimi (per esempio: «Como è Trieste Milano»); c’è Facsimile (1976), opera nel quale il testo contraddice le immagini… Il libro si chiude con alcune Meditazioni, brevi poemi frutto di un lungo lavoro di ricerca interiore che confluisce, come un fiume in piena che ha inizialmente rotto ogni argine (anche linguistico), nella tranquillità del Buddhismo.

[3o poeta presentato: Patrizia Vicinelli] Patrizia Vicinelli (1943-1991) è forse la meno nota tra gli autori presentati questa sera, è comunque in ascesa. Nel 2009 l’Editrice Le Lettere ha pubblicato, sempre nella collana Fuoriformato, tutte le sue opere. Titolo: Non sempre ricordano. Poesia, prosa, performance. Al volume, curato da Cecilia Bello Minciacchi, è allegato un DVD (video). C’è anche un saggio introduttivo di Niva Lorenzini. La rivista «Il Segnale» ha pubblicato sul numero 95 un saggio intitolato Linguaggio “ancestrale” e sperimentazione linguistica nell’opera di Patrizia Vicinelli, che mette in luce alcuni aspetti biografici e stilistici. Sul sito internet dell’editore è possibile leggere quanto segue: «[…] Prosegue la “restituzione” di una generazione perduta, quella che non attraversò indenne il versante tra gli anni Sessanta e Ottanta. Patrizia Vicinelli ne fu l’anima più combattiva e autodistruttiva: un vero Kamikaze dell’esperienza – tossicodipendenza, carcere, lunghi anni di latitanza […], morte tragica per aids – prima che della scrittura». Ma chi è Patrizia Vicinelli? La Spezia, giugno del 1966, quarto incontro ufficiale del Gruppo 63: immaginatela in una fotografia letteraria ideale tra i pezzi da novanta del gruppo: lei è quella che non sta ferma. Non ha neppure ventitré anni, ma colpisce tutti, oltre che per le nervature del suo tessuto linguistico, per l’alta qualità visiva e acustica della sua performance. Appartiene alla generazione successiva a quella dei componenti della prima ora. Patrizia diventerà, negli anni Settanta (gli anni di piombo e dell’eroina) e Ottanta uno Speaker generazionale. È la figlia irrequieta e, forse, più problematica della letteratura italiana del secondo Novecento, in preda a un «controllatissimo delirio verbale» (Niva Lorenzini). E, infatti, la Lorenzini parla di «testi spiazzanti e non rubricabili» (e tali appaiono ancora oggi), «shock linguistici, visivi e acustici».

[4o poeta presentato: Edoardo Sanguineti] Concludendo questo incontro sul Gruppo 63 lasciamo aperte alcune domande. Il Gruppo 63 è stato istituzionalizzato? Le opere che ha prodotto sono diventate, a cinquant’anni di distanza, delle semplici merci riciclate dall’industria culturale? Il problema se l’era già posto all’inizio uno degli esponenti più lucidi del gruppo, Edoardo Sanguineti (1930-2010), in un saggio intitolato Sopra l’avanguardia, apparso su «Il Verri», n. 11, datato 1963 (notate la data!). Edoardo Sanguineti è tra i primi ad avvertire che «anche l’arte d’avanguardia finisce per cadere nel circolo del consumo, e entra nel “museo”» (Giulio Ferroni). Prendendo atto di questo rischio, già negli anni Cinquanta e Sessanta (Sanguineti, insieme a Pagliarani è presente nella famosa antologia I novissimi del 1961) Sanguineti si pone il problema di come sottrarre l’arte al processo del consumo e del mercato. La soluzione di Sanguineti è politica. «La rottura dei modelli letterari del neorealismo e il recupero dialettico del lavoro formale delle avanguardie», continua Ferroni «si sono così risolti per Sanguineti in una continuità con la tradizione della sinistra» [la militanza nel PCI, nda]. Il problema di Sanguineti è trovare una via d’uscita dall’estremismo linguistico e ideologico di tanti (anche suoi) testi della neoavanguardia. «Negli anni Cinquanta, i primi testi poetici di Sanguineti apparvero come oggetti di eccezionale stranezza, lontani da tutti i parametri correnti» (Ferroni). Nella sua prima raccolta Laborintus (1956) compaiono versi lunghissimi e atonali (riguardo alla musicalità, va ricordato il rapporto di Sanguineti con il compositore Luciano Berio, fra i maggiori esponenti dell’avanguardia musicale internazionale, il quale ha composto Laborintus II, datato 1965). I testi di Sanguineti sono composti di oggetti, dati eruditi, citazioni… di materiali di tutti i tipi; sono un magma linguistico, anzi plurilinguistico, nel quale l’io, il poeta, ha una posizione subordinata all’interno dei testi ed è spesso confinato dentro una fitta presenza di parentesi tipografiche. È un regressus, uno scendere nella «palude del putridume», ossia nel linguaggio.

* Testo della conferenza tenuta, su invito della redazione de «Il Segnale», presso la Biblioteca Comunale Venezia di Via Frisi 2/4, a Milano, il 19 dicembre 2013.
Testi esemplari di Pagliarani, Niccolai, Vicinelli e Sanguineti sono stati letti, rispettivamente, da Michelangelo Coviello, Giulia Niccolai, Antonella Doria, e Simonetta Longo. Il musicista Danilo Bergo ha eseguito interventi musicali.

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Pubblicato sulla rivista letteraria «Il Segnale», n. 97 (febbraio 2014).

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Mario Buonofiglio
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