Luca Ariano: ‘Contratto a termine’ – nota di S. Guglielmin

contrattoa termine arianoForse non è una coincidenza che Luca Ariano sia cresciuto nella stessa cittadina di Lucio Mastronardi, romanziere mai ricordato abbastanza per avere avuto il merito di cogliere, entro il microcosmo di Vigevano, il trapasso della civiltà rurale in quella del neocapitalismo, con l’asprezza disumana che questo comportò in termini identitari. La stessa cosa fece Meneghello dalle mie parti, in anni similari. Anche Ariano, in Contratto a termine (Edizioni Farepoesia, 2010), ma anche nei libri precedenti, intende testimoniare su quanto sia in perdita il trapasso, termine che uso per sottolineare un passaggio senza ritorno, in un triste aldilà, attraversato dallo sfacelo, in cui altro non possiamo che sopravvivere “sbattendo le imposte”; con forza e rabbia, dunque, seguendo l’istinto o sperando che ancora qualcosa sopravviva del vecchio mondo, qualche scorcio di vita vera, di odore e “sapore … caldo”, qualcosa che d’improvviso riporti al centro la comunità, com’era un tempo (almeno nella reminescenza collettiva), prima che maturasse la società dei consumi, dell’ostentata opulenza, della solitudine esistenziale.
La poesia contemporanea l’ha sempre detto, dalla Ragazza Carla di Pagliarani a tutto Pasolini (il cui trentennale dalla morte è cantato a pagina 18), dal Gozzano de La via del rifugio (che Ariano riprende attraverso il gusto decadente dell’elencazione e dei ritratti, ma senza l’ironia del torinese, con più amara consapevolezza, invece) sino al Registro dei fragili di Fabiano Alborghetti, là dove entrambi mettono in luce l’orrore del vivere quotidiano, dei gesti all’apparenza normali, l’abitudine alla cronaca nera, alla morte degli altri: “Stessa stazione un anno dopo, / Sala d’aspetto a sfogliare giornali; / un operaio interinale suicida: / lascia moglie e figli. / Teresa volta un’altra pagina / prima dell’ansia di un volo interrotto nella nebbia”. Come dire: nessuno si salva dalla macchina sociale, tanto meno chi è un vinto dalla vita, come i personaggi che ci presenta Ariano, uomini e donne che troviamo nel cinema e nella letteratura neorealista, ma anche nella linea marchigiana, con D’Elia in testa (ma ben presente nella nuova generazione, per esempio in Davide Nota e Matteo Fantuzzi, e in quella di mezzo: penso a Filippo Davoli), per non parlare di Luigi Di Ruscio, veterano di una poesia ancorata alle cose e all’esperienza messe in scena attraverso una lingua della memoria e straniera, nella misura in cui essa non ha luogo ad Oslo dove migrò nel ’57.
Ariano metabolizza queste ed altre voci (per esempio, mi pare forte la presenza del Viviani di La forma della vita), anche grazie alla sua intensa attività critica, consegnandoci un ritratto amarissimo della realtà di provincia, che va però pensata quale sineddoche della vita occidentale, che finge di non aver compreso una verità sempre attiva nella poesia: che ad essere a termine è la vita stessa. E’ con quest’ultima infatti che dobbiamo davvero fare i conti, per ridefinire il contratto in corso d’opera, senza perderne di vista gli aspetti più importanti, quelli legati alle relazioni umane, alle debolezze umane, alle gioie che l’umana debolezza ricava dalle relazioni autentiche, e che Contratto a termine ci mostra con pudore, convocando altri compagni di viaggio, due per ciascuna sezione di quest’opera che vorrebbe essere il “primo capitolo” di un romanzo in versi. Vedremo se il progetto arriverà in porto; di sicuro, per ora, lo sfondo e alcuni caratteri sono stati fissati. Il fatto che essi non si discostino dalla traccia neorealista e comunque siano tutti dentro una scelta di campo bel strutturata nella cultura italiana novecentesca, rischia tuttavia di ricondurli al gesto epigonale, al rifacimento di una maniera ideologicamente riconoscibile, che forse ha già ben chiarito il quadro drammatico in cui versa la civiltà moderna italiana.
Il rischio c’è, pur essendo vero che la provincia conserva ancora volti e pose degli anni Cinquanta, con i quali è inevitabile fare i conti anche adesso, così come fecero, a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, Mastronardi e Meneghello. Potrebbe in effetti essere utile certificare queste sacche di vita agra, per dirla con Bianciardi, che ancora rantolano nostalgicamente nei sentieri dell’inferno contemporaneo, come Teresa, Enrico, il professor Emilio, cui ci racconta Ariano. Il catalogo dei ritratti insomma potrebbe continuare e un senso certo l’avrebbe (documentario, almeno, e capace di attestare la buona fede dell’autore); ma il pregio del libro sta altrove, ossia nella forza metaforica di certe rapide immagini, che slega la parola dal contesto per lasciarla nel riverbero dell’orecchio e dell’immaginazione, come questi versi: “Troppo secca la tua retina / appanna i mattini”; e: “Hai lasciato sgroppare l’abbraccio / tardivo, lo schiocco delle labbra / (che il treno dai finestrini battezza nel miraggio / che al crepuscolo filtri un pizzico di luce sulle / pupille)”; e ancora: “Il volo d’uccello / è solo l’arrivederci d’un abbraccio”. Un consiglio, è semmai quello di curare sempre meglio queste illuminazioni, evitando le cadute, che talvolta ci sono, per strenua fedeltà al racconto, ma anche per l’eccessiva fiducia in quella linea ‘popolare’, prosastica, fortemente comunicativa, povera di stratificazioni semantiche che, come dicevo, forse ha già dato i suoi frutti migliori.

(già su Blanc de ta nuque)

Bambini

Bambini pedalano ai primi rossori,
gli ultimi rimasti sulla via
e tu ritrovi quei pochi minuti di ricreazione
in cortile: l’immensa fantasia
di giochi tra terra ed erba
ora sono visi eroinati nel parcheggio
del cimitero s’una vecchia peugeot.
Si rasano i prati spulciati da merli
e i tuoi capelli cadono sulle zampe
d’un cane che assalta il tremore
delle ginocchia:
in un altro iper di sabato pomeriggio
confondi il luccichio delle vetrate
al trillo d’una tasca, ai nuovi corpi
già spogliati di primavera.
L’Andrea si strafogherà in qualche bettola
di bestemmie per un’altra mano calata male
“Diu bel!” e il confronto tra Dio e Destino
nella preghiera delle sue pupille
“Se avrei vinto…” mentre ancora ansimi
per respirarlo
sbattendo le imposte.

Panorama

Quel vostro bacio sfrontato
in quell’atmosfera di fine galà
si sperde nell’aria putrida;
eccoli quei fili d’ossa che s’agitano
– paiono Gollum – dove s’annida
il tarlo del panico, un tempo fiorenti.
Sale il sapore ancora caldo di ricotta
e marmellata, dal vaso di gerani
stagnano zanze e mentre la madre
chiama la sua Bea – identici occhi di neve
che si squaglieranno,
ritorna alla mente il Peppino, l’ultimo
ranat, spazzato una sera sul suo Garelli
da un furgoncino della sip;
l’estate era già di sedie sulla strada:
la Carolina, l’altro Peppino, la Manuela
che già usciva col suo moroso, il Claudio
… lo avresti fatto anche tu –
E sei invece lì a consumare una rapida
Carciofa da Pepè mentre lui lieto
con la preghiera in petto ritorna
da Santa Cristina.
In un panorama che gela le tonsille
distribuisci versi in quella quiete ambrata
come tuo nonno sparse scarpe
con la tomaia ancora calda
di colla.

Lo hanno ucciso lì sul divano

Lo hanno ucciso lì sul divano
o forse sul letto con tredici
pugnalate;
– così recitano le cronache.
Il coltello ancora sporco di sangue
non verrà più lavato.
La partita proseguirà in qualche circolo
da dopolavoro ferroviario
e sbaglierai sempre le solite carte,
confuso dal fumo e da un cicchino.
Lei s’arrossa di sorriso nel suo buffo
accento e si lascia corteggiare
nel fresco d’un negozio
prima di spazzare via l’estate,
di spolverare gli ultimi pulviscoli.
Sono ingiallite le tue foto nell’acqua
coi braccioli, lontano quel rimbombo
e il tuo impegno:
nei vicoli te la devi sbrigare tu,
rapido lo sguardo dei passanti
e troppo secca la tua retina
appanna i mattini.

Eccoteli lì quei capelli di nebbia

Eccoteli lì quei capelli di nebbia,
quasi li stavi aspettando
come sabbia negli occhi a cavarti
lo smalto.
Oggi è il suo compleanno –
segnato in qualche agenda estiva,
e ti passa la voglia d’un piccolo gesto,
la risposta sarà un asettico «smile»
nascondendo il capo dietro i portici.
La barista di polline ti servirà
un caffè già tiepido e ronzerà
la scontata storia d’un copione
di periferia: Raffaella, ventidue anni,
– troncata l’infanzia a quattro anni –
distribuisce un mazzo di foto
– scattate dal patrigno,
come carte prima dell’ultimo giro.
Forse ci sarà ancora qualcuno
a dilatare le pupille per la poesia
d’un battito ma questa sera
non c’è luogo per la scansione dei tuoi metri.

Certo che quando l’Emilio iniziò

Certo che quando l’Emilio iniziò
a tradurre versioni dal latino e dal greco,
a memorizzarsi l’atlante storico
non immaginava certo di star lì a ciondolare
in attesa di una telefonata: si vedeva professore
in qualche università a decifrare il mistero
della lingua etrusca, a scavare nel Peloponneso
alla ricerca di nuove civiltà.
S’è alzata la Via Emilia e la tua casa affonda
nella polvere, però val sempre la pena
di vedere cupole e torri struccarsi di rosso
per le luci della sera.
Alla prima ombra davanti al Tardini
dalla pensione quei vecchi se la contano
su come andrà quest’anno il nuovo Parma
e ogni domenica c’è qualche poltroncina vuota
per un colpo di tosse troppo forte.
Tu c’eri quando don Leandro e don Lorenzo
predicavano in un angolo, te li ricordi pregare
anche per te e non sai se è rimasto almeno
un po’ di marmo su un muro per Fausto e Iaio.
Quest’anno non hai visto le risaie gonfiarsi
e stai ancora cercando nell’orto le tue farfalle,
le conti e le riconti ma i colori non tornano.

Stessa stazione un anno dopo

Stessa stazione un anno dopo,
sala d’aspetto a sfogliare giornali;
un operaio interinale suicida:
lascia moglie e figli.
Teresa volta un’altra pagina
prima dell’ansia di un volo interrotto nella nebbia.
L’Enrico – che la sua storia pare uscita
da un film d’Almodovar… da una canzone
di sorcini – vorrebbe una zingarata d’altri tempi,
tra campi come quando le risaie si riempivano;
non rimane che l’Emilio con la sua spoglia casa
tra lo scalo merci e il silenzio dei marmi.
Stasera guarderà una tribuna politica
prima di due passi in Duomo per i cent’anni
della sua Beneamata.
Fiulin si ricorda la pioggia a Senigallia,
con tua nonna già vittima dell’osteoporosi
e quel cancro che soffiava da Casale
non troppo lontano.
C’era un sole d’autunno a Barceloneta
tra mura sfarinate di vecchi pescatori:
non è roba da turisti, tapas in quel bar
dove ancora ritrovi le facce di quartiere
incartapecorite dal sale e dai gas

Stefano Guglielmin
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