Sebastiano Aglieco: “Compitu re vivi”

compitu re viviParola di un silenzio che urla, così mi piace pensare la poesia di Sebastiano Aglieco […] “un maestro che mostra la gola,” come egli stesso ama definirsi.

Un urlo che lacera il tessuto del mondo e raggiunge remote memorie di una Sicilia popolata di miti antichi quanto l’uomo, di una Sicilia vittima di una tragedia esistenziale a cui talora si oppongono persino le forze della natura: un sole spietato che brucia ogni principio di vita. Una Sicilia arcaica in cui tutto pare destino. Destino di stasi e opprimente, ossessiva incomunicabilità.

Fra le tre possibilità della lirica: sentire, osservare, trasfigurare, vi è un sapiente intreccio nei componimenti poetici di Aglieco, con una polifonia di sfumature al servizio di una mente imperiosa, inquieta che ci conduce in un mondo spirituale profondamente condiviso, attraverso l’interiorizzazione tutta cechoviana della drammaticità dell’esistenza.

In questa nuova raccolta divisa in nove sezioni il poeta si propone, sin dall’ epigrafe nel tono solenne e al tempo stesso asciutto della supplica, quale solerte custode di “tutte le cose,” presenti e passate, attraverso il “sacro” connubio, oserei dire, fra poesia e parola.

[…] Credo alle parole che conservano il loro senso / alla nostra piccola morte quotidiana / prima della grande morte. / Morire in questo tempo, umili, nemici / con le mani in faccia prima del bacio / con la morte eretta senza disonore. […] (Credo, pg.105)

Dunque poesia come arma di difesa per cantare l’opposizione agli stereotipi quotidiani, unica maniera per riscattare il male. Poesia come magia per ricomporre un mondo in frantumi, per ricostruire infinite volte la casa vacillante dell’io. Poesia per cogliere l’ignoto che si cela dentro e dietro le cose note, strumento di “sciamanico rituale” che trasforma gli oggetti comuni in subitanee apparizioni di eternità. Poesia come luogo dinamico in cui “tutte le cose” possano manifestarsi nella loro fragilità e mutevolezza, manifestarsi e interagire per esprimere intuizioni, visioni, illuminazioni, squarci di verità, ma anche, e contemporaneamente, riflessioni sempre nuove, dolore, amarezze, e non da ultimo dubbi.  Poesia in cui prevale sovente l’elemento ancestrale e cristallino del dialetto sorgivo dell’infanzia che appare pienamente consustanziale all’animus che la sottende attraverso un fitto intreccio fra la parola nuda di un figlio ed il sangue versato da una madre, fra la mano alzata di un padre che ha occhi per tutti tranne che per il figlio come lo si vede in questo intenso componimento:

Orbu

Eri accàpatu sutta na
manu rrutta, jancu e russu
l’occhi virdi vessu a’ m patri
come nu figghiu a nu patri.
Ti peddi, luntànu. U munnu:
nu burdèllu, nu fumèri.
Ju sugnu na n’àngulu
ammucciàtu, e tu mancu mi viri.

Murano – Venezia, 2 aprile 2005

Cieco

Eri soffocato sotto una / mano spezzata, bianco e rosso / gli occhi verdi rivolti a un padre / come un figlio a un padre. / Ti perdi, lontano. Il mondo: / un bordello, un letamaio. / Io sto in un angolo /nascosto, e tu neanche mi vedi.

Peraltro il fatto che il testo rechi in calce l’indicazione della località che l’ha ispirato, rende ancora più crudo e stridente lo strazio del figlio.

Ritrovare in qualche modo la naturalezza dell’infanzia per Aglieco equivale forse al desiderio di un po’ di silenzio nel vociare ininterrotto e assillante della modernità. E, in secondo luogo, anche, e forse soprattutto, alla considerazione della minaccia che la lingua possa essere (come in effetti è) utilizzata come strumento di potere.

Pertanto la sua è una scrittura in cui vige una radicale opposizione alla cultura della tecnologia, del consumismo, della ruffianeria, della menzogna, opposizione mediata attraverso l’incontro tra cose che non sono “materialmente” collegabili. E così la parola che si spinge alla ricerca senza posa (nel significato platonico) di una verità profonda, perde ogni residuo di convenzionalità, diventa un valore in sé: sia parola universale, aerea, sia parola cangiante, trasfigurata in puro suono, ovvero suono echeggiante di ricordi, lutti, suggestioni antiche e nuove. Parola che si contrappone a sé stessa, ossimoro di un essere interiore in una perenne ambivalenza, in un contraddittorio moto di junghiana memoria che agita vita e linguaggio, che riporta alla luce quella sorta di “inconscio collettivo” di cui il poeta è “custode”.

Sotto questo aspetto si rivela l’atteggiamento “politico” del poeta, che “un poeta politico” in senso stretto certamente non è. E ciò non soltanto perché nella lingua si debba escludere qualsiasi spazio per ogni forma di retorica, quanto soprattutto perché il problema dell’abito linguistico confezionato a misura delle cose non dovrà offuscare la loro essenza, non dovrà distruggerne l’intrinseca verità.

Altra caratteristica della poesia di Aglieco, quella a mio avviso comprensiva di tutti i possibili approdi di lettura, è la presenza di una forte coscienza religiosa in uno stile verticale e centrato in cui le parole cercano una linea diretta con Dio, se pur attraverso laceranti interrogativi.

I lettori sono chiamati ad essere fratelli, attraverso l’interpretazione della vita (una prassi ermeneutica che è essa stessa azione poetica), attraverso l’ascolto del senso profondo che unisce la vita alla morte: il dovere dei vivi è anche quello di custodire un perenne filo di contatto con coloro che sono morti, così come quello di abbandonarsi alla sacralità della natura (sorelle foglie). Molti sono i versi che mi spingono ad una analogia con l’arte poetica di Jacopone da Todi e anche di San Francesco d’Assisi:

Il gelsomino

Il gelsomino congiunge le foglie / in un gesto di perdono / tutto chiuso nella sua preghiera. / A volte invoco la / liberazione da questa parola / il segno restituito / un tornare alle cose / nella loro nudità.

E ancora:

Dono è restare qui
comunque qui, nell’attesa
del nome.

La fiamma si accende fortemente
poi scendono le parole nelle
foglie, appese come attese alla
mia lingua.
Scelgo questa forma
per la promessa dei giorni
qualcosa di solido che non svaria
torri di vedetta al confine del cuore
contro il male che non ha dolore.

Desidero altresì sottolineare che, come anche nelle raccolte precedenti, il poeta dedica un lungo amoroso sguardo ai bambini, alla loro innocenza, alla loro ingiusta sofferenza: “Perché muoiono i bambini?” (Ossa humiliata, I) e ancora: “Perché muoiono le bestie come i bambini? / Perché moriamo in loro? / E’ per la legge di un dio / nel peso del suo passo sulle cose? […] (Ossa humiliata, II)

La sensazione trasmessa è quella di chi si sente piccolo punto fra gli altri innumerevoli punti che gremiscono l’universo, un piccolo “io” che si sente impotente di fronte al mistero del divino, ma che pure sente prepotente il bisogno di affermare la propria denuncia. Un “io” che non appare mai narcisisticamente ripiegato su se stesso, ma un io “poroso” che in ogni momento può perdere i propri contorni e le proprie certezze e che perciò vede nell’innocenza dell’infanzia un punto di riferimento prezioso e irrinunciabile.

Un io “poroso” che è al contempo presente e assente, che osserva o si sorprende e che, più che agire, si limita a cercare di misurare la realtà con i propri strumenti.

Un io poetico, che pur non riuscendo mai a liberarsi del tutto dalle proprie ossessioni, giunge alla fine del suo viaggio in un tempo “senza / rimpianto, senza pianto” (La resa delle foglie, III).

Pian piano i nodi si allentano e il poeta ripercorre nella supplica finale Cerco un giardino dove morire i suoi temi preferiti sempre in tonalità a tratti stilnovistiche; in una dolcezza vissuta in interiore homine e nella soave accettazione della resa: il tempo che fugge, ma che la poesia può fermare; un ‘qui ed ora’, ma anche un ‘là ed allora’ che partecipano intensamente della bellezza dell’universo, il solo antidoto alla durezza estrema del mondo.

Molto significativo il panteistico messaggio emotivo che il poeta manda ai lettori:

[…] Le nuvole calme vedono il mio quaderno / forse lo sguardo del mondo si consuma / nel fiato delle nostre piccole bocche /ora che ancora dormi, Tommaso / immemore del tuo specchio. /E siete qui, sorelle foglie / case dai tetti affacciati come braccia / implorate il perdono che i fratelli vi devono / aprite questo sguardo ai campi arati, in pendìo / tra le pieghe delle nostre sere! / E tuccàti, pi favùri tuccàti ‘sti me palòri / e rusicàtili, spalancàtili o nenti.*  (Cerco un giardino dove morire, VI)

*E toccate, per favore toccate queste mie parole / e consumatele, spalancatele al nulla.

Il poeta sembra dire a tutti noi, come Georges Bernanos: “non dimenticate che questo mondo si sostiene ancora solo per la dolce complicità, sempre combattuta e sempre rinascente, dei poeti e dei bambini. Siate fedeli ai poeti, rimanete fedeli all’infanzia”.

Rosa Salvia
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2 Comments

  • Ringrazio Luigi Bosco per la sua sensibilità ad accogliere le mie proposte di lettura e Sebastiano Aglieco per questa nuova raccolta poetica i cui versi ho gustato con infinita lentezza. La poesia per la sua complessità va meditata a lungo per non perderne sfumature e possibili interpretazioni. GRAZIE!

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