Salvia: nel cuore ogni salvezza

di Gabriella Sica

un solitario amore beppe salvia«Abbiamo nel cuore un solitario / amore, nostra vita infinita, / e negli occhi il cielo per nostro vario / cammino. Le spiagge i cieli, la riva /…/ Questa è la nostra vita e nulla più».

Ho citato qualche verso di uno splendido sonetto che, con immediatezza stupefacente, non può non trasmettere a chi legge la forza della poesia di Beppe Salvia. Nasce da questi versi il titolo del libro, Un solitario amore, del poeta lucano, diventato romano, finalmente a disposizione. La Fandango pubblica un’importante edizione (anche se non è l’edizione filologica che bisognerà un giorno fare), che comprende Elisa Sansovino e Cuore, oltre ad alcune poesie disperse. Cura il libro, da par suo, Emanuele Trevi, che ha voluto la collaborazione di Flavia Giacomozzi, autrice di Campo di battaglia. Poeti a Roma negli anni Ottanta (antologia di “Prato pagano” e “Braci”), edito da Castelvecchi, in cui si era stilata per la prima volta una biografia e una bibliografia di Salvia.

Non è, Salvia, un poeta da scoprire o rilanciare. A più di vent’anni dalla morte, la sua fama è pian piano cresciuta. Oggi è ormai un poeta di culto, poeta di «bellissimi doni». Finalmente riconosciuto, non più soltanto dalla ristretta cerchia di amici in cui si è mosso, in quei pochi e magici anni a Roma, tra il ’77 e l’ ’85. Pochi e ricchi anni in cui si è compiuta la sua folgorante apparizione, nella poesia di fine Novecento, con uno stile tutto suo e speciale, impastato di tradizione e freschezza, di irruenza scanzonata e grande sapienza.

Salvia era un vero umanista dall’ingegno multiforme catapultato nel mondo moderno, con l’inevitabile inadeguatezza al vivere quotidiano e l’impazienza dei suoi trent’anni e poco più: «Non ha più limite la mia pazienza. / Non ho pazienza più per niente, niente / più rimane della nostra fortuna».

Scriveva velocemente poesie e prose, dipingeva e disegnava fumetti firmandosi Queenex, aveva letto i libri necessari e, soprattutto, riusciva a intravedere un futuro non meno doloroso del passato.

L’uscita della nuova edizione Fandango, è un’occasione per me, che ho avuto Beppe vicino come amico e compagno di strada, per rileggerlo e continuare a scoprire nuovi e straordinari fili e pensieri. Una poesia intensa e vibrante, che comunica con la velocità di una freccia che mira al bersaglio. Non a caso Salvia si disegna come un arciere-trafitto, con l’arco a tracolla e un coniglio accanto, o, in un autoritratto riportato in questo libro, con i pesci sacrificali a lato, nella poesia che comincia: «Cara virtù, io t’ho senza pensare / regalate le mie ore più belle».

Parole confidenziali e intime e coltissime, che vengono da lontano, da Petrarca e Foscolo, passano per il Leopardi del cuore stanco o il Baudelaire del «cuore messo a nudo», traversano l’amato Keats e riposano imprevedibilmente negli anni che sembravano più restii ad accoglierle, diventando nuove. Parole raffinate e sapienti, per chi ha deciso di affidare al «cuore» ogni salvezza, un cuore che suona, nell’affinità etimologica, come corda, la corda della poesia-lira: «non v’era nulla nel mio cuore è vero, / ma quest’aspra materia s’avea le sue / parole, e io le ho dette tutte o / anche le ho taciute». E del suo secolo Salvia guarda più a certo Pascoli e molto alla leggerezza di Gozzano (condividendone la stessa passione per l’entomologia) più che a Penna, non particolarmente amato, come invece qualche critico ha scritto.

Parlando con alcuni ventenni entusiasti di Un solitario amore, ho scoperto che Salvia è un poeta che piace ai giovani di oggi. Lo leggono come il poeta di quegli Anni Ottanta in cui loro sono nati e che vanno scoprendo per quello spirito di notevole creatività e irrequietezza, che in effetti animò qualcuno nel tornare a un azzeramento di quanto si aveva intorno per ricominciare da capo, in modo nuovo, in modo «dolce». Senza farsi commercializzare, da artigiani, restando in disparte a volte anche per scelta, puntando sulle riviste, sulla rilettura. E per di più, poiché amava la musica post-punk e la musica elettronica, il dark wave, e ascoltava certi cantanti e musicisti tornati di moda insieme agli anni Ottanta, viene percepito come uno di loro, uno che si sente felice perché «di qui si vede finalmente il cielo» e scrive poesie sperimentando e ama la bizzarria e un po’ di ribellione: «Io scrivo di notte, mi suggerisco che scrivere. Io vivo in quei fogli davanti. Mi piacciono bianchi, mi piacciono scritti. Mi piace se canta Lydia Lunch o Vittoria Spivey».

Una ragazza paragona, con mio stupore, Salvia a Antonia Pozzi, uniti dallo stesso destino, la stessa leggerezza e lo stesso sorriso quando non c’è l’ansia. Sembra strano, ma non tanto. E mi ritrovo a leggere una poesia di Salvia al femminile, firmata Sansovino e falsamente datata 24 aprile 1937 e, dopo, una poesia della Pozzi con la stessa data, quasi in un dialogo a distanza, tra anime affini.

Ci sarebbero nella biografia di Salvia tanti elementi per farne una leggenda, che niente hanno a che fare con una poesia dalla grazia tutta particolare e la musicalità del verso italiano. A Salvia piacevano gli slanci e i salti, i salti lessicali e logici, e anche quelli fisici, da equilibrista. Gli piaceva saltare sui davanzali. Lo faceva ogni tanto, tra il terrore di chi guardava. Non si prendeva mai sul serio, aveva uno spirito sornione, e se pure aveva un sentimento altissimo della poesia, non ci pensava troppo a bruciare le sue pagine, a buttarle, pare, nel Tevere. E scriveva usando eteronomi, alla maniera di Pessoa, che gli consentivano di praticare «l’immodesta arte di troppo vite vivere», usando nomi di ragazze come Elisa Sansovino o di bambini come Flavio Giuliani. E mentre si sta ristampando Un solitario amore, esaurito a poche settimane dall’uscita, si comincia a pensare a un’edizione dei suoi racconti landolfiani, probabilmente a cura di Sandro Veronesi, tramite per l’operazione con la Fandango.

Dal vento delle contrade lucane, «al limitare di neve e foresta», tra volpi e segugi, deve essere giunto a Salvia il sibilo incandescente dei versi di Orazio, di Isabella Morra e di Rocco Scotellaro. E dalla solare luce mediterranea della Sicilia materna un’eco di scuola siciliana. È lo spirito di Salvia e delle sue magnifiche lettere musive, in cui l’invocazione classica alle Muse e il ricordo degli eroi «de l’altra età» sono già una commovente lettera ai posteri: «Questo v’insegno: v’è arte e sappiatela usare».

(già su “La Stampa”, Tuttolibri, 27 gennaio 2007)

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