Lungo l’arioso sentiero di Salvia

di Gabriella Sica

salviaCi voleva un manipolo di poeti del Veneto (Munaro, Cecchinel, Casagrande e Di Palmo stesso) – che  ha varato una sigla, Il Ponte del Sale, da un antico ponte di Rovigo dove operano – per pubblicare, con elegante e ineccepibile e celestina veste grafica, I begli occhi del ladro di Beppe Salvia.

L’Italia culturale di oggi, troppo spesso misera e inadeguata, non ha ancora saputo ricambiare la generosità di un così magnifico frutto poetico maturato in pochi anni, dieci per la precisione, tra la seconda metà degli Anni Settanta e la prima metà degli Ottanta. Con le sue belle poesie, quasi un vademecum, Salvia ha magnificamente raccolto l’insegnamento che Petrarca ci ha lasciato sulla scienza del cuore e quella scienza lui ha rilanciato con freschezza e sapienza.

Ci volevano altri poeti per curare un altro, già grande poeta e riconosciuto autore cult delle nuove generazioni, scomparso ormai quasi venti anni fa, un sabato, il 6 aprile del 1985.

Nel giorno della Passione, lui che compare in alcune foto, tra le sue rare, intento ad una memorabile lettura, una delle sue poche, tra le rovine del teatro di Tusculum, illuminato solo dalla luna e curvo, appoggiato ad una colonna di tortura, come Cristo nel giorno della Passione: «e io pallido e stanco come un mondo / intero dovessi sopportar tutto / su la mia schiena, faticavo tanto / m’immaginavo mondi tutti assai / più lievi e volatili di questo mio, / che tanto m’affliggeva e tormentava, e vaneggiavo di nascoste verità / e cieli quieti di pensieri chiari». In un giorno di primavera, «tra odori di mari lontani e queste vicine / piante di odori. La salvia la menta», dove il suo nome riprende scherzando, come era anche nella sua natura, l’umile natura di pianta officinale.

«Non ho pazienza più per niente, niente / più rimane della nostra fortuna». Non aveva avuto più pazienza Beppe per sopportare la vita dolorosa, accettarne l’ineluttabile dipanarsi, e in un giorno primaverile, lui che era un poeta che aveva riportato la lingua della poesia ad una nuova e splendida primavera, era volato via. Ma quando è morto, lui che aveva scritto «e non ho tempo e non ho vero verso», aveva già lasciato ai posteri la sua eredità: «Io ricordo, e d’ogni memoria niente mi è possibile mutare. Questo v’insegno: v’è arte e seppiatela usare».

Pasquale Di Palmo ha approntato una magnifica scelta antologica dai tre introvabili libri di Salvia, usciti tutti postumi. A cominciare dal primo, Estate di Elisa Sansovino, che lui stesso aveva comunque preparato insieme a me per i «Quaderni di Prato pagano», Cuore (cieli celesti) ed Elemosine eleusine, entrambi curati da Arnaldo Colasanti. Ed ha aggiunto anche tre belle prose, tra le sue, tutte ancora inedite, che sanno dell’amato Landolfi anche visitato a Pico dov’è la sua tomba.

Il veneto Pasquale Di Palmo sa, da lontano, finalmente vedere il Salvia romano ed anche rendere omaggio ad una stagione romana della poesia, insolitamente osservata con rispetto e cura nell’introduzione, “Beppe Salvia o dell’«aerea vita»”. Chissà che non sia stato per Di Palmo anche un libro «scaramantico» e «un sentiero arioso» per tornare nell’Italia centrale, come aveva fatto nelle sue poesie di Ritorno a Sovana. Sfoltendo comunque le tre raccolte, Di Palmo ha restituito una nuova chiarezza alla poesia di Salvia di cui emergono i temi centrali, quello della casa, dell’amicizia, della fedeltà, della vita.

Beppe ha avuto molti amici, compagni di strada della poesia, ha inventato con loro riviste e libri, fogli e incontri, progettato idee e sogni, ha scritto e disegnato con loro, in quegli anni romani tanto creativi. In una delle sue più belle poesie, un magnifico ed emozionante sonetto, Beppe così scrive: «A scrivere ho imparato dagli amici, / ma senza di loro. Tu m’hai insegnato / a amare, ma senza di te. La vita / con il suo dolore m’insegna a vivere, / ma quasi senza vita…». Perché Beppe, che veniva dal Sud, dalla terra di Orazio e di Scotellaro, ma anche dalla Sicilia, era tornato al sonetto italiano, di Giacomo da Lentini, di Petrarca e Foscolo, da cui germogliava la limpidezza della sua poesia, un sonetto inaudito in quegli anni e prima di tanti neo-metricismi e con una meravigliosa solarità mediterranea e anche una gaia leggerezza che bisognerà pure una volta per tutte saper riconoscere. E questa edizione, competente e di bella umiltà, potrà dare i giusti frutti: far conoscere Salvia oltre la cerchia dei suoi già tanti ammiratori e consentirgli quell’edizione filologica dell’opera completa che comunque gli spetta.

(già su “La Stampa”, Tuttolibri, 27 novembre 2004)

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