La poesia dichiarativa di Luciano Nota

sopra la terra nera luciano notaPoesia algidamente dichiarativa con la neutralità del cuore che esorbita dalla dicitura quasi neutrale delle parole, quasi una antica decalcomania, con chiasmo di impianto ottico e sguardo acustico; poesia che assimila lo spettatore al lettore, il monologo al colloquio, che tende alla forma monologica per sua intima, innata pulsione quale logos dell’anamnesi, segnale di ciò che è scomparso, inghiottito dal dolore, ragione fondante del perché il silenzio delle parole necessarie sia oggi, nel Dopo il Moderno, un qualcosa di incomprensibile o inenarrabile. La collocazione ubiquitaria del discorso poetico di Luciano Nota è come qualcosa di chiuso, sigillato nel suo bronzeo cofanetto a triplice serratura, dentro il sarcofago che la cultura del Novecento ha predisposto per la poesia ad un tempo dichiarativa e dell’anamnesi.

Si comprende allora come il discorso poetico di Luciano Nota abbia perduto ogni connotazione di «poetico» così come lo abbiamo frequentato nel Novecento: ci sono i poeti amati: Sinisgalli, Luzi, il primo Montale, ma digeriti e assimilati; la stessa campitura metrica, il verso «stretto», con il suo moto gelatinoso, con l’a capo, la rima assente e tutti gli strumenti della retorica che sono stati lasciati cadere nel pozzo senza fondo di una tradizione naufragata… quello che rimane è un frasario reso puro dalla sua non belligerante posizione di terzietà:

Devo tornare a ricompormi
in una cesta di silenzio
o in qualche scorza prodigiosa.
Anni vissuti senza tregua
voltando gli òmeri al mattino
in un fluire interminabile
di soli senza soli
di forze impavide e sghembe.
Avrei già gioito
se avessi bussato alle cortecce
sarei forse già propaggine.
Ma ora che son qui
acceso in ombra fra gli ulivi
con l’eco dentro il mondo
canto versi ai pettirossi.

*

Ho tentato a lungo
di essere re.
Ora posso scendere.

*

La morte mi parla
sradica i miei iris.
Ad ogni soffio, ad ogni strappo
con amore mi deride.

*

Calma è la luna dietro il muro.
dietro il muro calmo
faccio all’amore con la luna.

Affiorano torsi che rispondono e riecheggiano la normatività della tradizione:

È chiaro:
in fondo il nero
in alto il nero
in superficie il nero.

Una dicitura composta e fulminante. E la pagina bianca è il vuoto che la colata gelida della poiesis occupa con esatta circospezione.

Nelle condizioni stilistiche di una poesia così rarefatta, il discorso poetico non può che riflettere via da sé la «normatività» della cultura del tardo Novecento; in un certo senso, il poeta lucano ritorna alle origini stilistiche del Novecento, rifiuta tutto ciò che ha prodotto il logos della razionalità e della «normatività», vuole ritornare ad una poesia che sia integralmente e modernamente lirica.

In un certo senso, dicevo, la scrittura poetica di Luciano Nota è la sconfessione più radicale del «poetico» e dei generi poetici intesi come posticci, inautentici, ma è anche la sconfessione di una letteratura che comunica soltanto con se stessa, con le sue liturgie, i suoi riti, con i fossili delle sue post-avanguardie (vere o presunte), con gli sperimentalismi e i decorativismi di poetiche lucidate e polite, e poi arrugginite e marcite, per Nota operazioni tutte equipollenti in quanto refrattarie ad essere abitate da un discorso poetico antico e moderno insieme.

Lo stesso stile da «anamnesi», con quegli evidenti segmenti lirici, quel radicamento alla «terra nera» ai «fazzoletti d’orto senza tempo»,  è quello più confacente alle esigenze espressive dell’autore, il più vicino al suo bisogno di autenticità, all’esemplarità di un «vissuto» dentro l’imbuto di un universo concentrazionario.

Un scrittura giunta al piano terreno della funzione poetica, dopo il quale non ci può essere ritorno né verso l’elegia né verso le odierne scritture instabili  con i suoi riti dell’autocelebrazione della poesia per la poesia o della poesia fondata sul principio ironico, imbarcazioni giunte al limite del piccolo cabotaggio delle poetiche impoetiche dell’autosarcasmo e dell’autoparodia, alla saturazione della funzione fatica.

Così, dolorosamente il Novecento si allontana dalla poesia di Luciano Nota con il suo cumulo di strade sbarrate e strade divelte e strade a senso unico.

Potrei morire e rifiorire
svuotarmi di lime perfette
di corpi, di resti distorti.
Morire attaccato ad un fiume
con le braccia più nere del vento.
Rinascere poi su un pezzo di gelso
in un mare o su un colosso più duro.
Ma è proprio ciò che mi spaventa
questo colosso che non conosco
questo corpo supremo fatto di firmamento
di fazzoletti d’orto
senza tempo.

*

Sfatto ciò che c’era da sfare
accomodati i comodini
gli angoli, le scale,
posati gli accendini in verticale.
Stirate le camicie
i neuroni, le avvisaglie.
Messe a bagno le ultime incertezze.
Accesa la luce..
D’improvviso tutto si smuove:
gli sfatti, gli accendini, le camicie
gli angoli, le scale, i comodini.
Financo i cecchini
che prima non c’erano.

Giorgio Linguaglossa
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