Il catechismo del dissenso

di Augusta Mazzella di Bosco

L'enigma e la stratregiaTentativo di trarre un bilancio di saggezza dall’esperienza, con quanto di caotico, frammentario e spesso contraddittorio dall’esperienza si riverbera sulla saggezza stessa, l’aforisma, che sempre tiene un poco in sé dell’antico proverbio (biblico) per certa sua pregnanza coercitiva, inevitabilmente si presenta come generalizzaione. Di genereralizzazioni c’è bisogno, si sa, specie ai fini della vita pratica e della didattica, ma può darsi che il loro uso venga privilegiato di per sé e dia perciò luogo a impensate complicazioni, il cui scopo potrebbe eludere l’utilitarismo originario per aprirsi alla creatività più immaginosa. Anche le vedute semplificate possono infatti riprodursi oltremisura, gonfiarsi, assumere la pervicacia di un vizio, tradire una certa visuale ossessiva che è poi un accumulo di barriere difensive contro una vita intesa in senso persecutorio, contro la stessa oracolarità dell’autore cui si nega distensione e dolcezza altrettanto rigidamente e cavillosamente che agli altri. E questa sembra la pur affascinante (dis)misura scelta da Domenico Cara (“A volte ho paura di una mia ostinata e perentoria disciplina…”), aforisma come rischio di smentita della lucida visione, “orlo che è precipizio” o ambigua patologia: sicché le massime che si succedono con l’intenzione prima di un chirurgo nitore  – interrogativi, chiose, confessioni (“In seguito anch’io…”), auspici, strali predicativi, giudizi prettamente aristotelici – eccole, l più delle volte, sbandare nel loro corso, assumendo il ruolo cantabile dei…versi. Solo così almeno si potrebbe definire la loro ideale incompiutezza. E l’esprit de géométrie quindi non può convincerci della soppressione totale di un esprit de finesse. Prendiamo ad esempio le sezioni “Metodo dell’istante” e “Calcolo del frammento” dove si dà luogo alla lamentazione d’essere stato defraudato di quel tesoro unico che in genere è disprezzato da saggio: “Esploro ogni giorno la parte di tempo di cui ognuno di noi è derubato”, l’istante, irrilevante condizione temporale o diritto di dissipazione di qualche parte del proprio finalismo creativo, s’identifica con lo slancio istintivo, ingenuo, verso un oggetto che non sia necessariamente nobilitato dall’altrui consenso. Pervade infatti tutta la raccolta il rammarico di uno stato d’innocenza perduto, anche se attraverso uno schermo prudente, a causa di una certa programmatica disapprovazione verso ogni cedimento sentimentale, “romantico”, o forse contaminato dall’esperienza d’altri in precedenza: “la tensione romantica, ecco rispunta dalla stupidità giovanile…”

Appare chiaro che, nella tecnica del discorso mutilato, della proposizione subordinata che si fa sintatticamente protagonista inglobando una taciuta ma intuibile principale, su ognuno cioè di questi isolotti della visione di Cara grava la presenza di uno o più aforismi d’altri, tutta zavorra da scaricare, sì, ma appiccicosa al massimo: una contro – sapienza di marca collettiva, topoi acriticamente trasmessi, siano pur stati i piloni classici della moralità dei padri, sui quali però pesa il sospetto di un intento interessato e rapace (v. af. 21, 34, pag. 50, pag. 37, pag.51). L’aforisma ha compiuto il suo iter, infruttuoso, sembra, attraverso lo stucchevole ottimismo cinquecentesco di poter codificare l’ideale rapporto fra l’uomo e la natura, per svegliarsi solo nel secolo scorso alla constatazione che l’unico rapporto degno d’essere considerato fosse quello del singolo con la collettività; questo iter deluso così come questo rapporto si ripresentano ossessivi nella visione di Domenico Cara, lo vediamo dalla lunga serie di esecrazioni di cui egli gratifica gli altri (l’ovvietà – le velleità – il sontuoso – le immondizie – la farsa- la complicità- i pigmei intellettuali- il gregge – la maschera, ecc. ecc.). Vediamo pure, però, che la contestazione – rapporto si attua quasi sempre nell’ambito linguistico letterario (la selva degli “innesti” – af. 8 pag.19 –può darne l’idea); e quanto la letteratura sia sentita come misura essenziale d’umanità lo si comprende da un buon numero di aforismi dedicati a smascherare gli espedienti della scalata al successo da parte degli scrittori fatti in serie.

Dov’è l’amore(non vagliato soltanto nelle sue deviazioni dal ruolo)? Dov’è l’amicizia dov’è un qualunque riconoscimento d’un elemento genuino, non distruttivo, del rapporto umano? “Cosa possono identificare (di noi) improvvisamente due braccia aperte?”. Tuttavia, lungi dal risuscitare l’aforisma di Schopenauer, Cara pretende che il mondo esista concretamente e al di fuori di lui, per potervi scaricare sopra il suo rancore. Né gli serve d’altro canto una morte di Dio – se dobbiamo proprio seguire il filone aforistico indicato da Lanuzza in prefazione – poiché è evidente il desiderio che anche il Padre sia lì, pur enigmatico e muto, per potergli gettare in faccia la vergognosa iniquità della Creazione. Se lo strumento (aforistico) è freddo, la materia è bollente e i rancori debbono poggiare su concreti antefatti.

Ma l’atmosfera che si vorrebbe linguisticamente preziosa della fabbrica delle massime si sconvolge e si annebbia nel franare dell’osservatorio lucreziano entro il magma deprecato di “noi”, il che trascina ad una scelta tonale persino pateticamente intimistica (“Scopriamo insieme se…”) e diaristica, come in un continuo rimando ad accidentalità autobiografiche –sia pur con tutte le precauzioni difensive- nelle quali il nemico additato al biasimo sarebbe “lo schema” (“l’immobile paese”?) che richiede febbrile e costante indagine a scopo liberatorio, ma che pure, a volte, sfidando l’occhio consapevole del suo analista, lo travolge contro ogni proposito, gli confonde la visione del mondo con la visione di sé. Il vero nemico è il fratello umano(“Ma il dolore di Caino è consanguineo al nostro destino?”), cronologicamente individuato, ma franando l’opposizione individuale continuamente nell’unità corale, la sofferenza più acuta e assieme la densità più poetica si manifestano nell’impossibilità di sganciare la propria identità dal fratello – nemico.

“L’un contro l’altro(e solitamente a fianco)”: questa condizione d’imprigionamento dell’io (v. af. 155 pag. 92, af. 16 pag. 20, af. 48 pag. 23 ecc.) sembra prendere anch’essa la via della problematicità linguistica (“piuttosto che nella limpidezza”, “senti delle strane voci che si dirigono nel senso opposto a tutto ciò che insieme vorremmo ascoltare…”, “malgrado la lucidità di associazione…” ecc.). Anche il tema del singolo    è tarato dalla sua scala d’esecrazioni (“l’idiozia privata”, “ smarrito la strada”, “una posticcia autocritica”, “l’angoscia della subordinazione”…) ma la delusione è soprattutto della sfera espressiva (“Il dubbio che tutti i dettagli non siano composti che da scadenti fossili…”, af. 69 pag. 25).

“I sensi dell’uscita” è una sezione che sembra darci in particolare la storia antecedente. Si direbbe cioè che Cara sia approdato all’indagine apparentemente discontinua sugli enigmi del rapporto umano già estenuato da un antico e interminabile processo a suo carico dove tutto il suo argomentare in difesa di sé, iniziato nel modo più fiducioso e più schietto, fosse stato demolito nel modo più sarcastico e umiliante e lo avesse lasciato nella “paura di soggiacere ad una qualsiasi  morte possibile” nella distanza quasi infinita venutasi a creare fra il soggetto desideroso di relazionare e la risposta attesa (distanza che prendeva assieme un aspetto affettivo e culturale?); “clima immoralistico e pettegolo”! ma una volta sentito probabilmente elitario ed esoterico, la cui presunta superiorità si sarebbe espressa soprattutto a livello linguistico – teniamo infatti conto del continuo rimando a un violentato terreno di comunicabilità arcaica e genuina – e che avrebbe tolto all’emarginato ogni via di scampo, scartando tutto il suo dicibile (“Quando dissociare la propria personalità dalle pubbliche esigenze vuol dire distruggersi…”) e, se lo scrivere e il parlare sono gli unici mezzi di sopravvivenza e se la morte è soprattutto letteraria, non resta che adottare le condizioni lessicali dei presunti reggitori del mondo conoscibile, raggiungendo infine quella fisionomia iniziatica di esperto ineguagliabile della parola, che un tempo aveva sprigionato fascino e dannazione. Avevano dunque vinto…”le sofisticazioni”! “nei cui lungometraggi si seccano e si concludono certe passioni, anche aspettando da una qualche parte della foresta e allontanandosi per non essere in qualche modo avvelenati”.

Quindi, un prendere le distanze dal proprio sé primitivo, grandi distanze, moltiplicando i poteri significanti, allusivi, inventando trappole, confondendo nessi, deviando tragitti (“La soddisfazione dello sciamano, di riaffiorare con i suoi simboli irti”) contro quel sé rimasto, in fondo, malato di nostalgia per l’infanzia e la fiaba (af. 8 pag. 83 e ancora: ”Ho disperso i fiuti balsamici dei mattini calabresi…”, “ciottoli in qualche modo argentei, tondi, sui quali inventare figure e fiabe agognate…” ecc.). D’accordo con Lanuzza, qui ci sono versi d’un lungo poema, ma non crederei troppo in un ruolo d’osservatore superno, distaccato, il che presupporrebbe anche un intatto orgoglio di centralità planetaria, poiché traspare piuttosto nel nostro autore quel continuo precipitare, attraverso l’impersonalità, nei crepacci appena additati al pubblico biasimo. L’assenza di soggetto espresso o l’io fittizio, anche, junghianamente, la “persona”, è un qualcosa, in Domenico Cara, tenuto, sì, assieme paradossalmente, dalla dissezione della massa sociale per categorie o meglio per debolezze (“Divisa a spicchi, l’arancia imita il mondo”), ma la meridionalità dell’autore, salita ad espugnare la cultura del Nord regolatore di civiltà e razzista (non a caso l’esordio avviene su una rivista belga, quanto di più a nord può trovare!), vivendo questa cultura come un processo a se stessa, vi ha trovato assoluzione, come già si è detto, con lo strappo da sé, che era poi lo strappo da un mondo semiologico, quello a senso unico: “ La notte dell’emigrante dai misti dialetti (accorati ed espressi con estremo pudore) alle tenebre dei linguaggi acquisiti come epigrafi e forzate dicotomie intuitive, di una sopravvivenza distante attraversate da forme immobili e mimetiche di occulto (o aperto) razzismo!” Così lo straziante af. 101 di “Granaglie dell’età dionisiaca”, sezione che bene inquadra una storia umana drammatizzata prima di tutto a livello di verbalizzazione. Sull’involontarietà delle devianze, che seguono ad “una coatta forza di cose”, Domenico Cara si pronuncia più volte (af. 16 pag. 20 ed altri) ed è quindi disposto a sviluppare un triste fatalismo circa i propri ed altrui  “precipizi”, come si vede particolarmente bene in questa sezione.

Ma c’è un altro aspetto, molto più passionalmente costruttivo, ed è l’intenso moralismo della sezione “Sul muro”, là dove l’abitudine al generale mercato è attribuita al Nord e l’inimicizia del mondo e di Dio risentono pure della sede tecnologica preferenziale della civiltà: diversamente da Ramella Bagneri – un altro raffinato misantropo confesso – nel quale l’angoscia persecutoria sembra denunciare origini familiari anziché regionali, Cara è più accessibile a una ricerca o strategia di sopravvivenza con il suo catechismo del dissenso, pieno di interrogativi che lo distaccano dal compiacimento abitualmente funebre delle ultime avanguardie. E’ lui stesso dunque a sentirla, l’esigenza di “un progetto sempre meno inquieto (e sapienziale) per sopravvivere” (af. 23 pag. 105): stanchezza della cultura, quando essa ha preso la forma di una torta troppo piccola da spartire, quando presuppone guerra e reciproco inganno (ma non dovrebbe essere infinito lo spazio del pensiero e dell’arte?, af. 18 pag. 28, af. 74 pag. 32, af. 35 pag. 38, af.1 pag. 19, ecc.).

Proprio questo sofferto coinvolgimento, circolo ermeneutico del dubbio che il soggetto coltiva anche su di sé –con quanti caustici ritratti egli sembra quasi finire ad identificarsi? -,costituisce il dinamismo segreto del ruolo scelto oggi dal poeta, ruolo che generalmente è immobile, quello del saggio: “La nascita di una nuova sensualità!” è autobiografia o descrizione ambientale? “IL predominio, senza pacificazione!” è un biasimo o un rimorso? E dopo che tanto è stato detto sulla futilità dell’essere relativamente ad altri, ecco che ci troviamo di fronte a un sorprendente “Non sono ancora riuscito ad esprimere alcuna indispensabilità di me stesso!”.

Rituali e stereotipi diventano piovre – la convinzione della femminilità rigorosamente codificata (zitelle, bovary, baldracche, Virginia woolfismo, zie lamentose) finisce con l’incrinare la virilità trionfante. Non sarà forse la virilità un errore neanche portato fino in fondo? (af. 61 pag. 109) e qui, forse, Cara pensa alle conclusioni della nuova biologia. Oppure, uno stereotipo non portato fino in fondo semplicemente perché la femminilità vi si è insinuata dentro, con le sue qualità tipiche tanto censurate o idealizzate? Dietro ogni flash di Domenico Cara   si è portati a supporre una vivida concretezza di personaggi, ma certo avida, infettiva. Solo l’emergere del sogno come un diritto (“quello che conta è la linea di un sogno inconfessato…”) nella percezione che il sogno potrebbe essere, in fondo produttore di moralità più che l’aforisma stesso (af. 66 pag. 109, af. 103 pag. 40), ci avverte che dal mondo angoscioso delle generalizzazioni esistono ancora uscite verso la speranza o “un nuovo tempo”, ed anche verso la poesia (“come un’inevitabile nuvola che oscilla nel clima dell’ineffabile, o intorno al suo crepuscolo ocra”), felice anacronismo di sentimenti di fronte a una letteratura che pretende di aver già tutto pensato, sognato, tentato: “Maestro di verità, fino alla nausea!”.

In regime di strategie, più che di Sistema si dovrebbe parlare di Sistemi, poiché ci si trova a dover anzitutto sgrovigliare parecchie istanze incrociate, valga ad esempio l’af. 21 a pag. 50 sulla prostituta, con vari gravami stratificati nell’antefatto: e l’antica disapprovazione familiare e il senso di colpa di fronte alla nuova morale femminista (che proibisce l’oggettificare) e il disagio della trasgressione di schemi erotici legati al ceto sociale o culturale di ieri e di oggi. Viene persino da stupirsi che in tutto questo labirintico errare fra i divieti possa ancora esistere la dolcezza umana (“il profondo sorriso dell’addio”).

E’ anche stupefacente che un simile intricato rapporto col mondo possa sfociare in una dimensione etica coerente anziché nella frammentazione disimpegnata di tanta poesia d’oggi, proprio nel momento così subdolo della confessione, quando si pone sul tavolo persino la scissione d’identità fra il desiderio d’essere libero e la vergogna di volersi anche far vedere libero. Ansia di radicale purezza, dunque protesa al recupero di quella “totalità a un certo punto smarrita” (af. 32 pag. 50)nell’assordamento dei Sistemi sconfinanti l’uno nell’altro, sicché anche la fiaba ne è stata contaminata (af. 70 pag. 98).

Il “contenuto”, eresia ripudiata già da un pezzo, dall’invasione del formalismo, fa sentire tutto il suo peso (“Come riprendersi il mondo se non con il primo granello di sabbia?”) nell’offerta formalmente prosastica che un poeta fa di sé, mimando a volte le lunghe pudiche cadenze della prosa –confessione, ma, mediante inattese sospensioni, cesure poste a monte anziché  a valle e tanti altri personalissimi espedienti, facendosi anche partecipe dello straniamento poetico.

Poiché, naturalmente, non domina qui il carattere della precisione oggettiva ma solo il gioco di essa, una costante di obliquità restando la nota principale, rispetto al discorso, sempre per abbracciare un di più, qual di più che, nel discorso, risulta indicibile, tanto è impregnato di paura e nostalgia, paura della nostalgia, vergogna della paura: tutto ciò che il poeta sente umano e fecondo ma respinto al di fuori della parola permessa, l’intero bagaglio delle sottrazioni celate sotto formalistiche acquisizioni, ma da queste non compensate. Il sottofondo che arriviamo a sfiorare è insolito, in Domenico Cara, è un’ombra di umile accettazione del patire –assieme l’indegnità, regressione salutare che ci spiega la fluida e pacificante suggestione di questi aforismi e ci cattura a molte deliziose riletture, nel segreto quasi materno delle sue caverne morali, pre- morali, extra  -morali.

Confida il poeta nell’aforisma 67 pag. 98. “Oggi finalmente ho rinunciato a scrivere il più bel libro della mia vita…” Ma forse ci è riuscito, a scriverlo, proprio perché vi ha rinunciato.

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