Linguaggio “ancestrale” e sperimentazione linguistica nell’opera di Patrizia Vicinelli

Linguaggio “ancestrale” e sperimentazione linguistica nell’opera di Patrizia Vicinelli

(Alcune fotografie della figlia irrequieta della letteratura italiana del secondo Novecento)

 

 

Patrizia Vicinelli
Patrizia Vicinelli

La prima fotografia di Patrizia

Patrizia indossa un tubino nero e un filo di perle: è una fotografia del 1967;  l’anno prima, nel giugno 1966, si era presentata neanche ventitreenne al convegno di La Spezia del Gruppo ’63 con un background comune a molti giovani: la solita famiglia borghese, tante buone letture e una progettualità linguistica (o, meglio, artistica a 360°) lucida e consapevole. È un ritratto personale. L’anno dopo, nel 1968, diventerà un ritratto generazionale. Il bon ton (impersonato da Patrizia in quella fotografia) scompare presto; e qualche anno più tardi, in un’altra fotografia, Patrizia ha il «volto e il collo totalmente esposti dai capelli cortissimi e biondi» (come ci segnala Cecilia Bello Minciacchi nell’introduzione al volume Non sempre ricordano che raccoglie l’opera omnia[1] di Patrizia Vicinelli, pubblicato dall’Editrice Le Lettere nella collana Fuoriformato diretta da Andrea Cortellessa). Nel saggio intitolato Il sogno di evadere tutto[2] Cecilia Bello Minciacchi descrive dettagliatamente l’intera superficie acida della carta fotografica: Patrizia ha «gli zigomi alti che sembrano scolpiti e la pelle segnata dalle cicatrici da un incidente d’auto in cui, per proteggere la figlia Anastasia poco più che neonata, non si era riparata il volto con le mani».

Una fotografia di gruppo con la figlia irrequieta della letteratura italiana del secondo Novecento

Patrizia impara subito a manipolare la propria immagine pubblica; ed espunge dai suoi testi e dalle sue performance il proprio “io”. Il rifiuto (politico, non solo letterario) dell’io poetico tradizionale consente alla Vicinelli (che in alcuni testi degli anni 1961-1963 e nella raccolta intitolata à, a. A, — pubblicata in vinile e in volume nel 1967 — declina addirittura il soggetto al maschile) di non identificarsi più con l’equivoco soggetto poetico. E la voce narrante tradizionale diventa, in quello che sarà il suo testo più noto, il poemetto Non sempre ricordano (poema epico), uno Speaker generazionale. «Espropriata del monopolio dell’io», dice Niva Lorenzini nell’affettuosa e lucida prefazione Tra ustione e attrito: la poesia di Patrizia Vicinelli «[…] la poesia potrà a quel punto […] muovere verso altri, inediti approdi, nella consapevolezza […] che il cammino di chi scrive […] è sempre anche coscienza politica del fare con gli altri[3]».

Il 1960 era stato l’anno della pubblicazione ufficiale di una pietra miliare dello sperimentalismo, il poemetto La ragazza Carla di Elio Pagliarani (ma il testo circolava già da tempo tra gli “amici” del Gruppo ’63). E reminiscenze ritmiche pagliaraniane si ritroveranno ne I fondamenti dell’essere[4] di Patrizia Vicinelli: nella prima parte Il Cavaliere di Graal sono presenti evidenti tracce di una gabbia metrica costruita su un verso lungo composto da due senari. È la stessa struttura utilizzata da Pagliarani nel secondo capitolo de La ragazza Carla, i cui versi sono composti da un doppio senario dattilico con accenti sulla 2a e sulla 5a sillaba[5]. Ma il verso lungo utilizzato a livello teorico (e ne restano alcune tracce evidenti) dalla Vicinelli ne Il Cavaliere di Graal è eccedente le 12 sillabe; è questo il caso dell’incipit (dove calcoliamo una non canonica dialefe): Da ˇ un altro punto | furono | viste le stagioni (− − + − + − | + − − | + − − − + −). Com’è evidente, i due senari (che sono più  mobili rispetto alla sola forma dattilica utilizzata Pagliarani perché presentano anche la forma trocaica con ictus di 1a e 5a o 3a e 5a) tendono a posizionarsi alle “estremità” del verso. Compare così un ictus estraneo all’ambiente, ancora ritmicamente tranquillizzante, de La ragazza Carla. E quell’ictus, messo da Patrizia proprio nel mezzo del doppio senario, è un cuneo che spacca in due il verso di Pagliarani rendendolo quasi non più misurabile. La decisione sembra programmatica, poiché in un’importante nota premessa a I fondamenti dell’essere Patrizia avverte che «ognuna di queste quattro parti è corredata da una riflessionerifrazione sonora eo  fonetica».

Patrizia non è completamente allineata alle ricerche  della Neoavanguardia e del Gruppo ’63, ma va anche controcorrente. Il suo poemetto Non sempre ricordano (opera multimediale — progettata come tazebao e recitata in performance — simbolica degli anni ’70) ha delle antiche radici letterarie e non è solo un’operazione sperimentale; c’è (per fare un solo esempio) un altro poemetto, che risale al 1904, con il quale Non sempre ricordano mostra delle somiglianze linguistiche e politiche: il poemetto Italy di Giovanni Pascoli. I due testi affrontano il problema dell’emigrazione e contengono entrambi uno sperimentalismo spinto: in Pascoli si trovano residui dialettali accanto a espressioni e dialoghi in un italo−americano distorto e storpiato (con alcune rime bilingue: per esempio, nel primo canto di Italy la parola febbraio rima addirittura con Ohio); in Non sempre ricordano della Vicinelli (che non ha più la necessità, ancora presente in Pascoli, di giustificare in una nota al lettore le proprie scelte plurilinguistiche) le diverse lingue (dal latino, all’inglese, al francese, allo spagnolo ecc.) tendono ad assumere la stessa importanza letteraria e la lingua madre è (quasi) ridotta alla semplice funzione di metalinguaggio.

In una fotografia letteraria ideale, che fissa in un’immagine statica il ritratto di una schizoid woman[6], l’irrequieta Patrizia sta in mezzo a: Giovanni Pascoli, Elio Pagliarani, Dante, Gabriele d’Annunzio, ma anche Emilio Villa, Adriano Spatola, Alberto Grifi, & molti altri. E se riguardiamo con la lente d’ingrandimento questa fotografia ideale ci accorgiamo della presenza di Pier Paolo Pasolini (un “avversario” ideologico della Neoavanguardia che ha dedicato un saggio a Giovanni Pascoli sulla rivista “Officina”) e del primo Giovanni Testori che, nella cosiddetta trilogia teatrale (composta da tre opere interpretabili in sede psicanalitica: Ambleto del 1972, Macbetto del 1974 e Edipus del 1977), porta avanti una sperimentazione linguistica sui dialetti creando una lingua dalla quale emergono elementi arcaici. E in primo piano nella fotografia, tra gli autori europei e internazionali, c’è Thomas Stearns Eliot (il cui poemetto La terra desolata —ancora un poemetto! — del 1921 è idealmente vicino a Non sempre ricordano della Vicinelli). Ma Patrizia (e probabilmente ne era conscia) è equidistante da tutti. Non riesce a mettersi in posa, a stare ferma (nelle fotografie, Patrizia appare sempre “sfuocata” e in “movimento”). E infatti, nella vita reale, la Vicinelli compare in cortometraggi e film underground, recita, si occupa di videopoesia e performance.

Lo sperimentalismo: la città come cloaca linguistica

La figlia irrequieta della letteratura italiana del secondo Novecento (in preda a un «controllatissimo delirio verbale», come dice Niva Lorenzini nella Prefazione), va ostinatamente in una direzione divergente rispetto alla strada indicata dalle pietre miliari dello sperimentalismo; e infatti la Lorenzini parla di «testi spiazzanti non rubricabili» (e tali appaiono ancora oggi): «interferenze stridenti», «shock linguistici, visivi e acustici». Il poemetto Non sempre ricordano è, da questo punto di vista, un pastiche linguistico esemplare. Le diverse location in esso descritte tendono ad amalgamarsi e a formare una City dantesca e postindustriale. E questa City (data dalla somma di diverse città “reali”) è la vera protagonista del poemetto. Popolata da individui che parlano delle lingue storiche stratificate e, allo stesso tempo, una koinè letteraria composta da raffinate citazioni tratte dalle maggiori letterature europee: «l’ira funesta e irreversibile» (cit. dall’Iliade), «non voglio vederlo» (García Lorca), «come fiamme alcuni ardevano verso il cielo» (Dante), «ahi, accuso! j’accuse! ella gridò» (Zola) ecc., insieme tuttavia a espressioni tratte dalla lingua parlata quotidiana, a volte volgari (in una sorta di esasperato realismo). Le “città” descritte dalla Vicinelli sono una cloaca linguistica.

Il poemetto Non sempre ricordano è un testo «teatralizzato in otto scansioni […] che ne scandiscono il percorso, tra interferenze e attriti lessicali, in plurilinguismo estremo», precisa la Lorenzini nella Prefazione, aggiungendo che è un testo–partitura che Patrizia «eseguiva dal vivo, con quella sua abilità vocale impressionante, per duttilità e potenza, nei modi di una recitazione free–form che si poneva ai confini tra parole e musica». Un frammento di Non sempre ricordano[7] (scritto tra il 1975 e il 1985 e pubblicato in edizione ridotta in quello stesso anno) ci consente di cogliere un aspetto biografico di Patrizia (con l’avvertenza che è sempre problematico, se non impossibile, risolvere l’equazione “io = io–poetico”):

«APOTEKE: “prego, un’ampoule De Lagrange”/ i francesi dicono: “un’ampoule de maxiton/ fort”, una certa droga diabolica di 350 anfé,/ con cui, après la chute, sali mezz’ora,/ hai tempo di intervistare i cherubini,/ come quello: … certo Benito G. mexicano/ e poeta finito a colpi di shock electro/ anche! terapy in Tangier, anno 71…»[8].

Nell’ultimo verso del brano citato, che fornisce un’idea della versificazione e degli “a–capo” di Patrizia Vicinelli negli anni Settanta, compaiono tre elementi: terapia, Tangeri e [19]71. Nel 1977-’78 la «temeraria e fragile» (così la definisce la Lorenzini) Patrizia viene incarcerata per nove mesi a Rebibbia con l’accusa di aver detenuto alcuni grammi di hascisc un decennio prima circa; siamo dunque indicativamente nel ’71. Patrizia aveva vissuto quel periodo di latitanza prima di essere arrestata — e pensava di non essere più arrestata rientrando  in Italia —, in Marocco, a Tangeri. E Tangeri, in qualche modo, era stata la sua terapia: abbandonate le città delle lotte studentesche, le performance, la videopoesia, Patrizia Vicinelli s’era immersa nel mondo mitico e orientale arabo. Pieno di magia e di mistero, di astri, di pianeti e di oggetti rituali. Scritto (e disegnato) tra l’Italia e il Marocco, il libro–oggetto Non sempre ricordano, non riproducibile in serie a causa della «parte visiva e policroma compresa nei tazebao» che lo componevano, tende a configurarsi come un libro–opera–d’arte personale e magico[9], ma anche politico e rivoluzionario.

 

 

Inconscio e fondo ancestrale del linguaggio: i luoghi del mito

Patrizia s’era immersa, ancora una volta, come nel passato «nel linguaggio (e nel territorio) psicanalitico che le sarà molto caro negli anni». Cecilia Bello Minciacchi racconta, nel lungo e illuminante saggio introduttivo, che Patrizia procede a «[…] trascrizioni di sogni datati per lo più 1969−’70 con pagine e pagine di serrata autoanalisi […] e appunti di argomento psicoanalitico e filosofico (Freud, Jung, Marx), riflessioni su essere e tempo, abbozzi di materia poetica e “prove” fonetico–visive, interpretazioni […]». Dalle sue carte sparse, ancora non pubblicate, emergono oroscopi (non si sa se e quanto “letterari”). Anche nel poemetto epico Non sempre ricordano, calibrato sull’attualità, compaiono antichi miti greci e atmosfere sospese fuori del tempo. E una matrice junghiana sembra essere presente ne I fondamenti dell’Essere[10]. Si tratta di un testo complesso e di non facile catalogazione all’interno della produzione dell’autrice (interpretata, ancora oggi, quasi esclusivamente in chiave politica), “costruito” su temi mitologici e magici della tradizione esoterica occidentale: il Graal, il cavaliere, le stagioni, il fuoco, il drago, la spada, l’acqua (l’ultimo “quartetto” si intitola Attraversare il fiume), la montagna ecc[11]. E proprio l’immagine della “montagna” svolge la funzione di punto di svolta, di snodo, tra  alcuni blocchi metrici del secondo quartetto (Patrizia li chiamava “quartetti”, proprio come Eliot), intitolato Il tempo di Saturno, costruito su una progressione ritmica (della quale restano evidenti tracce): ai quinari seguono, nell’ordine, i senari, i settenari e gli ottonari. I primi 25 versi presentano una prevalenza di quinari nella “prima parte” del verso. Questo primo blocco termina con i versi «[…] È alla collina di fronte/ che vorrebbe arrivare, ma la montagna/ davanti a lui, gli serra la gola» ecc.[12] La critica non ha ancora analizzato il lato oscuro (l’altro lato, quello che non compare nelle foto ufficiali) di Patrizia Vicinelli; e il ricorso, in chiave ermeneutica, al pensiero di C. G. Jung (la cui influenza su T. S. Eliot — e, in Italia, su Cesare Pavese — è nota) potrebbe illuminare alcune zone d’ombra all’interno dei testi.

Al di là dell’aspetto ritmico (legato a una residuale metrica italiana), la tonalità emotiva de I fondamenti dell’Essere della Vicinelli deriva da un suo personalissimo utilizzo del «metodo mitico» di T. S. Eliot (caratterizzato da «un continuo parallelismo tra il mondo contemporaneo e il mondo antico», come scrisse lo stesso Eliot recensendo l’Ulisse di James Joyce[13]). Certamente il «metodo mitico» eliotiano è utilizzato — e questo è un aspetto originale rispetto a Eliot —, in chiave neoavanguardistica e sperimentale, anche in Non sempre ricordano.

I due testi della Vicinelli analizzati nel presente saggio, I fondamenti dell’Essere e Non sempre ricordano (poema epico), rappresentano due mondi conflittuali che si riflettono l’uno nell’altro intersecandosi e respingendosi (come Terra onirica e City caotica[14]). La lingua di Non sempre ricordano è “sperimentale”; ma è anche, allo stesso tempo, “arcaica” (si notino alcuni aspetti prelogici del linguaggio: la scomposizione del testo in fonemi, il ricorso a unità sonore prodotte dalla frantumazione sillabica, le frequentissime interiezioni, le onomatopee in perfetto stile futurista ecc.). In Non sempre ricordano, dunque, acquista grande importanza la parola deformata, spezzata e ridotta a puro suono istintivo e ancestrale (con valenze espressionistiche). È un urlo, quello di Patrizia e quest’urlo si trasforma in un segno grafico tracciato sulla carta. Perché anche nel «visivo», per Patrizia «c’è la parte acuminata della scrittura».

Pubblicato su IL SEGNALE, anno XXXII, nr. 95, giugno 2013


[1] Patrizia Vicinelli, Non sempre ricordano, Editrice Le Lettere, Firenze, 2009. Il volume, che porta il sottotitolo Poesia Prosa Performance, contiene un CD video con un’Antologia multimediale a cura di Daniela Rossi, regia di Riccardo Degli Alberi.

[2] Salvo diversa ed esplicita indicazione all’interno del presente testo, le virgolette caporali («») rimandano sempre al saggio introduttivo Il sogno di evadere tutto di Cecilia Bello Minciacchi, contenuto alle pagg. XXVII-LXIII in P. V., Non sempre ricordano, Le Lettere, 2009, cit.

[3] Niva Lorenzini cita l’analisi di Loredana Magazzeni, L’innocente esistere di Patrizia Vicinelli, in AA.VV., Atlante dei movimenti culturali dell’Emilia-Romagna, 1968-2007, vol. I, Poesia, Bologna, Clueb, 2007.

[4] L’opera, scritta tra il 1985 e il 1987, è divisa in quattro parti: 1. Il cavaliere di Graal; 2. Il tempo si Saturno; 3. Eros e Thanatos, il canto; 4. Attraversare il fiume.

[5] Mario Buonofiglio, Il suono di sottofondo della città e i turbamenti ritmici della Carla del Pagliarani, in Il Segnale, anno XXXI, nr. 93, I Dispari, Milano, ottobre 2012.

[6] Apotheosys of schizoid woman è il titolo della seconda opera di Patrizia Vicinelli. È una plaquette di poesia visuale con accenni alla storia dell’anarchico Pinelli e alle lotte studentesche. In Non sempre ricordano (Cfr. nota 1) è riprodotta l’edizione in bianco e nero pubblicata da Tau/ma nel 1979; il manufatto originale (un libro−collage molto colorato di dimensioni 16 x 22,5) è andato perduto. Il testo dev’essere letto dall’“ultima” pagina alla “prima”.

[7] La prima stesura di Non sempre ricordano risale al biennio 1976-’77; la seconda al 1979; la terza e ultima al 1985. L’autrice rinunciò, come ricorda Cecilia Bello Minciacchi nell’ introduzione al volume (cit.), «alla parte visiva e policroma compresa nei tazebao, troppo complicata e dispendiosa da riprodurre, e pubblicò il testo in volume». La presenza dei tazebao a colori, che sono andati perduti, indica che l’“opera” era un manufatto artigianale.

[8] P. V., Non sempre ricordano, Editrice Le Lettere, Firenze, 2009, cit., pag. 92.

[9] In questo senso, in quanto oggetto artistico e unico, il libro visivo della Vicinelli Non sempre ricordano è accostabile, a partire ovviamente dalla sensibilità laica e di “sinistra” di Patrizia, non solo a molte pagine della poesia visiva della Neoavanguardia e del Futurismo, ma anche al Libro rosso – Liber novus dello psicanalista C. G. Jung.

[10] Anche Cecilia Bello Minciacchi sembra concordare con questa lettura; alla pag. XLV della sua introduzione (cit., vedi Nota 1) dice: «Dunque il mito, che è da intendersi sia nel senso di una mitizzazione (e di una vocazione mitopoietica) privata, sia in quello di una mitizzazione archetipale e collettivamente aperta in termini junghiani —  ché Patrizia era sensibile forse più a Jung che a Freud —, si incunea nella prosa bassa del quotidiano […].»

[11]  Cfr. C. Gustav Jung, Psicologia e alchimia (1944).

[12] I primi 25 versi de Il tempo di Saturno, seconda parte de I fondamenti dell’Essere,  presentano una prevalenza di quinari nella prima parte del verso. Questo primo blocco termina con i versi «[…] È alla collina di fronte/ che vorrebbe arrivare, ma la montagna/ davanti a lui, gli serra la gola»; il secondo blocco metrico, identificabile ai vv. 26-34 («Cigni neri e nuvole promettono nera acqua» […] «nelle onde»), presenta la prevalenza di senari sempre nella prima parte dei versi; nei vv. 35-50 («aver sbagliato di poco la direzione, egli pensa» […] «aver paura di vivere molto più di morire») ritorna il quinario; nei vv. 52-65 («Entra il possibile passato nella proiezione» […] «la tentazione dell’aria») compare ancora il senario; segue un blocco di versi costruito sul settenario iniziale (vv. 66-85, «È un uccello vivente che lo viene a cercare» […] «la menzogna»); e, infine, nei vv. 86-103 («La tenerezza gli renderà incandescente» […] «del camminare unico, per ognuno il suo creativo») compare l’ottonario.

[13]  Il brano è citato in: T. S. Eliot, La terra desolata, a cura di Alessandro Serpieri, Milano, BUR, 19821.

[14] Anche il testo teatrale Cenerentola, scritto da P.V. nel carcere di Rebibbia durante gli anni di piombo e messo in scena insieme alle detenute, affronta il contrasto tra mondo “reale” e mondo “ideale”.

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Mario Buonofiglio
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3 Comments

  • Il “manufatto” originale di Apotheosys of schizoid woman (che io ho potuto sfogliare, assieme ad altri manoscritti) era nell’Archivio di Gianni Castagnoli. Una copia del libro mi fu donato da Patrizia, in via Siepelunga, nel febbraio 1985… Successivamente (durante la malattia di Patrizia) Gianni trasferì il suo domicilio e l’Archivio in via Giovanni Fattori…

  • Grazie di aver pubblicato questo saggio molto interessante e appassionato, che ci riporta accanto a una delle voci più originali e autentiche della poesia italiana.

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