di Antonio Spagnuolo
“Tutto dimostra l’attenzione di Cara al suo /nostro tempo, tutto per lui fa poesia rientrando nelle linee di difesa comune che preparano il possibile. Quale non è stato saperlo. Né chiederlo. Sarà da scoprire nelle pieghe del suo messaggio poetico: che non è un manifesto ma un sottovoce dissonante e graffiato dove le strutture contano come tecniche d’accesso a un remoto iperreale, e le parole stanno al posto di utopie”. Con queste parole termina la prefazione di Gilberto Finzi, un voler inquadrare, dopo attenta disamina, o cercare di delineare una certa maniera di lettura interpretativa di un testo che in apparenza potrebbe sembrare ostile.
La testimonianza del poeta, nella sua scansione ritmica di ampio respiro, incontra le consuete difficoltà della logica a livello stilistico – strutturale, insomma una complicazione di quella densità di scrittura, robusta e mai chiusa in un disegno preciso, un modo di omologare eccezioni tematiche in una formazione / informazione ingenua – sfuggente – portante – determinante.
La diligenza di sgomitolamento di una realizzazione, segnalata metaforicamente o fantasticamente nel racconto del passato, nel presagio del futuro nella frase – utopia, puntualizza una filosofia dell’essere nel presente “quasi al solito posto del giorno precedente”, in un tempo insospettabilmente fuori del tempo, nel gioco storico delle probabilità.
“E poi niente di enigmatico nei nostri incontri”: le equazioni del dare e dell’avere, nella lentezza di un movimento liturgico, approdano non allo smarrimento di una confessione di assoluta impotenza, ma ad una “specie di antidoto, sostituzione dello scorcio, qualcosa come un obiettivo vissuto in una identica matrice”.
La salvezza non conosce la salute del cifrarsi in un dibattito che segue alla esposizione dei fatti, definizione anche di categorie morfologiche e sintattiche, forse ancora questioni di mistica e profezia, come anche accoglimento del detto perché essenzialmente provato – spiegato con lo sforzo di una condanna ad esistere nel mondo fatto materia di malvagità ed egoismo, al di là di un recupero chiesto e forse non avuto.
Domenico Cara ritrova la funzione terapeutica della ricerca di una qualsiasi delle funzioni del linguaggio e sa rispondere, agire, ossia prende spunto dal vissuto per ri /
fare storia affascinato dallo sprofondamento del verbo nella forza di annunciarsi puro e semplice, lontano dalle definizioni categoriche o scolastiche.
La sua pagina è generosa, “dai desideri poveri uscire per un beneficio appropriabile e senza equivoci”, è l’affiorare sottinteso di romantici ricordi ove anche il dolore assuma la bellezza di un nostalgico abbandono, è la casualità dei gesti che promettono illusioni e “spezzano le connessioni del lavoro”, è la disponibilità alla musica che possa addolcire l’ansia del logorio divenuto quasi follia.
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