di Adam Vaccaro
L’ultima raccolta di versi di Domenico Cara è un testo che completa la trilogia composta con “Passeggiare nella brughiera” e “Filigrane innaturali”. Forme diverse per un unico discorso, circolare e insieme non con – cluso. Un percorso interminabile e non direzionato, quale quello di molta poesia moderna, e di quella di Cara in particolare.
Partirei da un segno, che potrebbe apparire elemento del paratesto (come datazione, note ecc.) e che connota questo libro rispetto agli stessi altri due della trilogia. Ogni titolazione dei singoli testi è qui eliminata; ogni pagina e componimento è invece ornata, o trafitta, da un asterisco posto in alto a sinistra. E’ un segno connotativo che, da un lato mostra la difficoltà di qualificare certi segni come paratestuali, in quanto ogni segno della pagina tende a essere risucchiato dal vortice semantico del testo, dall’altro indica ben altri sensi.
E’ un segno che pare collocare il testo in uno spazio di ininterrotta nota a margine, quasi di superfluità, tuttavia negata per il fatto che non smette di esserci. Da parte mia tendo a leggerlo come un segno della complessità della scrittura: esalta l’autonomia del testo e insieme riduce la sua presunzione di essere tutto:” così la rosa era lì il tuo fiore /…/ dove per disincanti eravamo superflui”; sono il primo e l’ultimo verso del componimento di p. 51. Da questa marginalità e superfluità esibite, il testo guadagna posizioni centrali fino a diventare teca di “ vessilli del re” (titolo della seconda sezione), cioè del soggetto che scrive. Entrambe le posizioni sono false e vere al tempo stesso. Ognuna di esse incorpora infatti la recitazione del vero, se così si può dire. Perché ognuna di esse mostra noncuranza, autoironia e disincanto sapienti. Per es. il re è tale perché “Scrivendo si è dimenticato persino di se stesso”, recita il testo – esergo della sezione, firmato “Anonimo del XXI secolo (sic!).
L’ “Anonimo” esalta se stesso e il suo fare, e recupera così centralità del Tutto, proprio dalla posizione noncurante di questa sua “nuova solitudine” – di “Aboli bibelot” del “Sonetto in X” di Mallarmé (Feltrinelli, Milano,1966); può essere, su tale celebre testo e sui nodi tematico che coinvolge, un utile punto critico quello fatto sul n° 59 di “Anterem”, II sem.1999, pp. 51 – 53, da Lucien Dallenbach). Dunque né autonomia del testo, intesa come chiusa riflessione di e su, solo se stesso,, né strumentalità monodirezionata utile ad altro, siano ideologie del cuore (sfoghi affettivi, tristizie varie, gioiosi trallallà) o pensierose ideologie, salvifiche di sé o del mondo.
Sicché queste forme aiutano a porre un (se non il) punto, di un nuovo inizio, che le scritture del nuovo millennio dovranno (spero) prima o poi affrontare: dopo aver incorporato un secolo di fondamentali riflessioni sul proprio fare, cercare nuove forme per ridurre il distacco dal turbinio violento che accade là, fuori dalla stanza. Non mi pare cosa da poco, poco frequente tra i tanti beati bibelot oggi in circolazione, trasmettere una tensione ad andare oltre una concezione autoreferenziale del testo.. Insomma non è un gioco marginale del Soggetto Scrivente (SS), nella misura in cui riesce a ricondurre (sé, il testo e noi) al centro delle incessanti metamorfosi della vita.
Da questo sereno disincanto (ci) viene così anche un grande insegnamento etico: nessun atteggiamento disperato o piangente. Una virilità, invece, spogliata da ogni maschilismo, fatta di una tensione a esserci, nonostante tutto. Continuare a dire ciò, sempre e comunque, diventa fare l’inarrivabile convulso intreccio di magica crudeltà e piacere della complessità; diventa gesto sacrale dell’intento di bene – dire la fortuna di essere qui. E utilizzare le parole e i segni inventati per l’usuale connotazione metaforica delle c. d. natura (aria, foglie, animali, cosmi ecc.) mi pare serva, in questo tessuto testuale, più che a parlare di sé con la “lingua della natura” (come dice nella prefazione Francesco Muzzioli), a mostrare la “natura della lingua”, come corpo tra i corpi, forma tra le forme; se nel suo insieme esalta al massimo se stessa muovendo da una posizione dimentica di sé. E’ la posizione migliore per favorire l’uso metonimico della lingua, quello dell’area mentale relativa alle modalità di linguaggio dell’Es, che tende sempre a ricondurre una parte a immagine del tutto.
Proprio come il SS, che raggiunge meglio l’insieme da una noncuranza e afasia di sé, dall’anonimia, riducendo persino (pur nell’ovvio gioco, che dice e nega, dell’autoironia)il proprio nome a superfluo orpello. Solo così riesce a significare “la fusione del Cosmo” (aggiunge Muzzioli e concordo), fermo restando che tale intreccio è ottenibile solo da un’operatività mentale complessa che va oltre “gli scarti di una metafora”: ”Ognuno tra draghi irregolari/…/…s’agglutina / con la violenza d’un demone fisso/…/ in qualche casolare della postumità” (p. 29), forse cercando per “il folletto dell’io” provvisorie uscite “dagli assedi in cerca d’aria e d’astri, / e da profeti a cui abbiamo / affidato il garofano dei nostri ombrelli” (p.29).
Bastano pochi estratti per dare conto di un tessuto testuale, che pur ri – verso in una furiosa calma ri – costruttiva, di basso – alto – dentro – fuori, non trasmette mai sensi di autoappagamento, ma mostra incessanti segni di insofferenza: di chi non basta a se stesso ed evoca l’altro, quale oltre in cui risiedono forme e corpi della nostalgia di un senso perduto, che nell’incrocio gioia / disperazione pone infine la nostra responsabilità di essere vivi.
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