di Arnaldo Lucchitta
Tra psico – favole, detti e contro – detti, inaspettate scenografiche boutades, arditi e improbabili accostamenti, conflittualità verbali nel gioco iroso /ironico della parola, esiti inattesi con complicazioni deformanti, Domenico Cara ci offre, con “Dopo gli statuti” (Panda Edizioni, 1981) un testo d’una febbrile pensosità sovente squassato da sussulti parossistici, intriso di tensioni ir /risolte, denunce, atti di accusa e di contro – accusa.
Un testo di scottante attualità, di palpitazioni vitali, di ipotesi di salvezza, attese insinuanti, istanza prag –enig /matiche in pagine spesso permeate d’un fervore impressionistico, ans(im)anti, quasi un furor verbale nel magma del dis /amore del Dubbio e dell’in /certezza.
E’ un’angoscia, quella di Cara, priva di lenimenti, con imposizioni di non – esistenza, un “morire” esistenziale intriso di sentori emozionali (“il mio albero scapigliato…), con una smisurata esigenza di libertà. La vena dello scrittore si fa largo e lascia alle spalle malinconie di alberi carducciani, grayani detriti estetizzanti, larvate ir/reali trasformazioni misterhydiane, “mementi” tarchettiani arrovesciati in amoroso ludibrio; ci presenta, invece, demistificazioni psichiche, paralisi submentali, suggestioni anti – storiche, fissità inquietanti, disillusioni e politici disincanti.
V’è tutta la realtà (squallida impietosa) dei nostri giorni; frustrazioni intime, petulanze fallocratiche, pietrificazioni oggettuali, excursus su cose oggetti ritualità metropolitane, acute e argute riflessioni sulla frusta quotidianità.
Si avverte un fatalismo di fondo mitigato dall’affezione per l’arte (la pittura come amore alternativo) e acuito dal terrore (ricorrente) della paralisi fonica, delle secche mentali, enigmatiche e polivalenti, nel labirinto di utopie, astrazioni, trabocchetti dialettici.
L’autore sembra vacillare di fronte al dilagare della narcisistica eccentricità, del diffuso dilettantismo, dei “vanesi con ambizioni di pubblicità, gli invidiosi che tentano di imitare il dialogo e la servile mania orecchiantistica dell’altro, il plagio”. “Come migliore (e più utile) preghiera”? Ma sono attimi. Rifiutati il camaleontismo solitudinale, i miracoli, le “inutili estasi amorose”, l’ondosa fissità di scontati atteggiamenti…, ecco l’affacciarsi di prospetti di rivoluzioni, la creazione di una realtà umana su misura, l’enigma dell’Inoltre e del Dopo.
Quali dei per la nostra epoca?
“Dopo gli aridi e ipertesi giochi degli astuti”, Domenico Cara, prima di suggerire una nuova possibile (o probabile) via da percorrere, si leva alcuni prudori per l’arteriosclerosi burocratica e ci regala squarci indimenticabili, esemplari ed emblematici, infuocati e sarcastici (con particolare riferimento al durissimo atto d’accusa contro la classe (e la feccia) politica d’oggi: pagg. 70 – 71).
Lo scrittore rifiuta la pietà per l’uomo: “ L’uomo non ha bisogno di alcuna “pietà” (sic)ma di una civile (e non provvisoria) sostanziale benevolenza, non retrospettiva, né perbenistica che lo estranea comunque!”, un modello lontano da quello canonico che “è offensivo, la sua simulazione: pietà, amore del prossimo, non fare agli altri ciò che…, non sono affatto propiziatori”. “Risalire alla invariabile immagine della dignità di ognuno ha un più disinvolto e coraggioso motivo di rimedio”, e auspica un nuovo pragmatismo (“non sentimentale, né nostalgico”), una “rivoluzione” che cerchi di ottenere la verità dalla sua libertà.
“Gli anatemi non bastano, sono necessari l’azione e il contrasto simultaneo per raggiungere in qualche punto i traumi della “rivoluzione mancata”; ma bisognerebbe intendersi ulteriormente sull’idea di “rivoluzione”, visto che l’allusione è diventata un’esplicita e pervasiva nozione di masochismo distruttivo, di pubblica perdizione, entrando nell’area della sua ricerca, nella filmografia dei suoi rapporti reali, nei fotogrammi, uno per uno, di ciò che si muove all’interno degli sconvolgimenti generali (e di ciò che si annulla per segnalarne la brutale barriera). Un enigma indubbiamente, che va riabilitato per continuare in quel richiamo post – sessantottesco, e all’ordine (e disordine) inconscio delle nostre abitudini radunate qua e là in piccole metafore”.
A colui che si appresta alla lettura d’una simile opera, è opportuno ribadire che essa è un insieme di abbozzi, aforismi, proposte, “prove per l’ideazione di un racconto possibile” e pertanto sbaglierebbe chi volesse andare alla ricerca, tra le righe, tra le pagine, di una trattazione rigorosa e organica, di un preciso intarsio narrativo di largo respiro, proprio del romanzo o del saggio o d’altro ancora.
Ed è (anche) questa particolare dimensione strutturale, questa a / poetica frammentarietà che dona a “Dopo gli statuti”, un fascino inconsueto.
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