La poesia di Sebastiano Aglieco

di Rosa Salvia

sebastiano aglieco

In questa mia avventura nella poesia di Sebastiano Aglieco che si snoda dalle sofferte radici della sua Sicilia al velo di nebbia sul Parco di Monza, sua città adottiva,  mi fermo a riflettere su tre raccolte del poeta: Giornata (Edizioni la Vita Felice, 2003), Dolore della casa (Il Ponte del Sale, 2006) e Nella storia (Aisara, 2009)

Il filo rosso che le attraversa è il nesso fra visione, poesia e conoscenza “autentica”, come possibile eredità del raccogliere attraverso una parola carica di attesa, minuto dopo minuto, giornata dopo giornata, prima di venire alla luce. Certo per Aglieco la poesia non è un modo per trionfare sulla realtà e per liberarsene catarticamente. Non c’è la percezione dell’attivo operare degli uomini, l’atmosfera grava come sospesa nella sua vastità straniante e dolorosa. Due voci importanti si impongono leggendo: la passione leopardiana che spinge per essere ascoltata e dona dolore e lo specchio di Camillo Sbarbaro che proietta all’occhio una realtà tediosa e desertica. La voglia di dire sì alla vita urge nei versi, ma, allo stesso tempo, la stanchezza e la sfiducia le fanno da resistenze impietose: si crea allora un susseguirsi incalzante di immagini ad un ritmo a corrente alternata in una tecnica metaforica dello specchio contro specchio a moltiplicare all’infinito. In tutto questo rincorrersi di vive note che si allontanano sempre più dall’occhio, la melodia del verso resta quasi ammutolita. Il mondo circostante sfuma in una condizione dell’anima che trova il lenimento del lacerante ingresso nella vita attraverso il luogo certo della casa:

La casa è leggera

“La casa è leggera / un cotone che ci separa / e a malapena ci avvince. / Per strada non si sente il dolore / nessuno piange / nessuno ci guarda negli occhi. / La nostra voce riflessa / voleva essere negli altri / e invece ha scelto la casa / uno sguardo a distanza per poter dire / questa parola dura, isolata nel ferro / che non sopportiamo”. (Da Giornata ) Sottile calco degli ungarettiani “brandelli di muro”.

Calata nel “magma” di un reale stratificato e complesso, la poesia di Aglieco, come appunto già si palesa nella raccolta Giornata, appare il diagramma di un’esplorazione faticosa e sofferta che richiama il viaggio nel limbo purgatoriale di Dante, condotto per il tramite di una peculiare medietà linguistica e attraverso una mirabile discrezione dei registri. Si impone nei versi il tema degli incontri con le ombre, l’irruzione di una pluralità di figure, “segni” di un’alterità perduta, assente, convocata sulla scena poetica, sull’orlo di un silenzio definitivo, in una realtà fenomenica dai tratti incerti, sospesa tra sonno e veglia, che include passato e presente, vita e contatto con la morte. Una dimensione lirica radicata non nella descrizione elegiaca del paesaggio, ma in una successione di visioni fulminee e drammatiche (istantanee) di infinite presenze di luoghi e di persone:

Scena prima

“L’uomo viene da lontano su una bicicletta / il bambino annaffia l’albero / che è come una preghiera / una tenacia del sentire e della sua mancanza. / Questo è l’angolo del mondo / o il centro, l’ombelico / ognuno è contenuto e deve contenere / qualcosa che ci lascia spaiati, in noi stessi”.

Peraltro, come si evince dal componimento che sto per proporre, Aglieco  talora si abbandona a uno slancio di ottimismo fideistico che illumina il canto, spesso aggrovigliato e sconvolto dalla sua stessa, grande volontà di comunicare:

La natività

“I cavalli rivoltosi nella luce / i cavalieri divelti / il tronco in quella luce antica. / All’inizio del film rimane come / una macchia antecedente / un figlio, la cui nascita è numinosa. / Come se il segreto della sua venuta / si fosse costruito un varco: / ciò che improvvisamente va mostrato. / la terra genera qualcosa che abbiamo aspettato / ci vediamo riflessi nello specchio della torba / il figlio spalanca le braccia / tutti sono inginocchiati. / Forse volevi dire questo: / non abbiate paura dei bambini / e del loro canto”. Versi di una delicatezza e levità straordinari.

I bambini, tema molto caro al nostro autore, sono vissuti come sogno di resistenza al nulla, che conserva nel suo fondo una vita che nasca a principio – dalle sofferenze del mondo, e fonte di una nostalgia speculare a quella del passato irrevocabile:

Forse non mi sono impegnato abbastanza

“Forse non mi sono impegnato abbastanza / non ho perseverato nello scopo: / essere in qualcuno con saggezza / credere veramente che qualcosa ci possa salvare / ridere in questa luce chiara / delle parole che ci allontanano / con tutta la ferocia / misurano la diversità e non c’è scampo. / Credo solo / al bambino di me che ancora dice: / tutto è scritto subito in un quaderno / tornerai ancora lì / in quell’angolo di mondo / che era tutto il mondo.”

Tale costellazione tematica si arricchisce altresì di dati ricorrenti, precisi riferimenti ambientali: Danimarca – Parigi, Monza o “Via della Spidduta”  nella sua Siracusa, di una pluralità di colori contrastanti ( il mare, la torba, la nebbia), attraverso un linguaggio poetico che con suggestione e rigore coniuga poesia e prosa avvicinandosi a un uso “sottile e delicato” di quell’ “arte della dissonanza” propria, ad esempio, della poesia di Baudelaire.

Nella raccolta Dolore della casa,  la poesia prende forma da una dialettica irrisolta tra tentativo di colloquio, visione e congedo. Si configura come banco di prova, messa in causa ora del soggetto poetante  (il senso di colpa del sopravvissuto, il ritardo e il rimorso che irrevocabilmente si matura nei confronti di coloro che non ci sono più), ora del linguaggio (la possibilità di rappresentare ciò che, per definizione, è limite insondabile e inconoscibile, dato inesperibile).

Il ritmo ossimorico dell’opposizione fra antico e nuovo, vita e morte, è nucleo intuitivo di cui l’intera produzione poetica di Aglieco diviene metafora variamente modulata.

Di questa raccolta, dedicata alla madre, alla sua morte nelle terre assolate di Sicilia, mi colpisce in primo luogo il tono pacato dei versi quando invece il poeta vorrebbe  sanguinare, urlare. Ma quanto vi è in lui di più eroico non è la sua forza, piuttosto la disperata semplicità del suo controllo, la sua mano d’acciaio dal tocco leggero, gentile, senza eccessi, senza sbavature:

Più grande il tuo corpo

“Più grande il tuo corpo / – tu, piccola assente /madre bambina / tornata nel tuo ventre”. Versi di struggente tenerezza.

Un figlio va condotto per mano

“Un figlio va condotto per mano da queste / estremità; da una parte una landa piantata / con fatica, dall’altra quel luogo dove / a volte, si può ritornare. La terra è dare / per quello che si riceve, scendere e salire / al cielo con fatica. Tu, Telemaco, nei miei / sonni, sei ancora in questo bambino che / risale il mare, cercando le orme di un padre”.

Piove,  piove, piove

“Piove, piove, piove / devo tornare a casa / fermare la tua immagine distanziata / in un colore freddo della non memoria / dove tutto è contenuto in un altro tempo / un tempo più pulito e più sincero / riaperto alle mani / al mondo dei bambini. / Circondatela nello stare quieto e nella / misura, nel mondo piccolo delle / piccole voci, sicura, nell’affetto delle voci. / Circondatela stretta fra i limoni / le more selvagge delle strade / gli amati melograni / la granita al limone.

Ramingo il poeta non cede allo sconforto, ma si attarda nel labirinto misterioso delle immagini poetiche, anzi, il labirinto è la sua casa, perché è luogo senza uscita, o meglio un luogo che ha mille uscite, nessuna delle quali però porterà fuori di esso. Nella quotidianità banale e ripetitiva, l’insignificanza si tramuta, e una scappatoia accede al limine, dove il pensiero ricerca una diversa cifra delle cose e la poesia si scopre ad essere filosofia:

Prigioni

“Ecco il mistero delle mani di fronte ai / simili, illumina, custodisci, in questo tempo / di monti che colpiscono la fronte / la voce di un nuovo viaggiatore. / Essere nel tempo, senza tempo / questa è l’illusione. Questo sento / questo vedo: cambiamento dei / capelli, o della pelle, prigioni in / ostaggio della mente”.

Alla parola ho chiesto tutto  

“Alla parola ho chiesto tutto / la strada del ritorno e / la formula per sedare il vento; / ma c’è una frattura nel mare / il segno di una separazione / in cui, a volte, un dio c’ intrattiene. / Si deve partire con onore o / legarsi a una strada, un frutto”.

A volte in brevi composizioni, come in quest’ultima, in altre più lungamente, il poeta tenta la strada della metamorfosi di se stesso in nuove immagini di sé, degli altri e del mondo che vive. Non “cede” al visibile, e apre una sua personale metafisica dell’invisibile, eccede la concretezza per accedere all’oltre, e sciogliere la rete misteriosa che ci imprigiona a ciò che ci sfugge, ma che affascinante e misteriosa ci irretisce. Sceglie sempre di offrire a sé nuove traiettorie, e di percorrere quasi con ostinazione l’esplorazione del suo pensiero: “Sempre in me avventuriero della parola / ho accolto un dio: / vieni, spalancami con le tue chiglie / riempimi di un vino amaro. “[…] (Dolore della casa) e più avanti: […] “ Nei flussi e riflussi della marea / il mare mi ha condotto dove la parola è cava / assenza di uomini, dolore ricucito nei confini”.

Anche dove pare ci sia un uso della parola già frequentato, il poeta non si abbandona al già detto, e forza il significato, a volte anche il significante, per lasciar parlare da sé un suono. Con grande cura comunica il suo “essere” tutto nel linguaggio, tutto rappreso nel peso delle parole e degli spazi bianchi, perché, anche questi, pur silenzio, sono la via amorosa insieme a quelle, verso la ricerca della sua verità.

La raccolta Nella storia è pur essa un ansare potente (sempre accompagnato dal mormorio interiore leopardiano), che cerca di attuare l’impossibile innesto tra il respiro individuale del poeta e quello dissonante e fragoroso del suo tempo. Versi che presuppongono il silenzio, ma percorso sotterraneamente da un ronzio elettrico che avverte del fatto che la tensione non è caduta ma implosa, o piuttosto vaporizzata. Sembra un gioco di allontanamento da ciò che pulsa vivido; il gioco della coscienza che scivola e si nasconde dal coinvolgimento, si sposta ai margini, si dirige verso l’esterno, nel vicoli nascosti della riflessione. Luogo da cui prende avvio un processo fluido di pensieri, che rincorrono le proprie radici, la propria terra d’origine:

Poema per una terra

“Potrei elencare dei nomi /mettere in fila le tappe del cambiamento / i volti dimenticati / i visi che ci hanno accompagnati / fare i nomi dei nemici / infuriarmi per un tempo / una pietà sottratta, una diaspora / ma so che giungerei in questa piazza / in questo reliquiario di Sicilia / dove niente cambia”. […]

Ho sempre pensato a una rifondazione

“Ho sempre pensato a una rifondazione / uno stato della parola / in cui le cose emergono dalle loro trame /  per un avvicendamento del sonno / i pensieri in una riva asciutta / ossa indelebili / cantilena di un popolo intero. / Tutto sarà restituito / nel suo unico pensiero / un flusso di sangue / che chiede una costrizione / un figlio dagli occhi duri / emersi dalle macerie. / Pagheremo lo sconforto ai vivi / e le parole si ammutineranno”.

Nell “ammutinamento” delle parole, i piani del tempo si incrociano e si confondono e il presente irrompe drammaticamente schizzando come una granata. Il linguaggio delle emozioni, sembra suggerire il poeta, accede alla metafisica dell’esistente, nella pura consapevolezza che ogni cosa torna al suo principio.

Interessante di questa raccolta una sezione dal titolo “Oriente prossimo venturo” per gli attori di Metropolis di Cosenza in occasione della recita dello spettacolo “Saraievo! Sarajevo!, 25 aprile 1994.

Aglieco ha una grande passione per il teatro, importantissimo veicolo culturale, cui si dedica anche con i suoi piccoli alunni.

Nei componimenti di questa sezione impetuoso è lo slancio civile contro le insensatezze e la follia della guerra:

I reduci

“Vale per queste piccole nuove mani / per gli occhi che tanto hanno veduto / finché ci cantava la vittoria nelle strade / abbiamo spezzato lo stesso pane / e siamo stati fratelli – / noi siamo stati paria / i semi indeboliti con / l’oltraggio nel cuore. / Bestia viscida e schifosa / pulsazione nella preghiera / stato di polvere nel sangue – / noi siamo stai i morti del novantadue / il sangue marcio / l’innocenza tradita”.

Se si ripercorre la letteratura che va dagli anni Sessanta sino ai nostri giorni, si ritrova spesso questo senso drammatico di dolore e comunione nella sconfitta. Ma in Aglieco questa sofferenza non dà respiro alle giornate, gli rende penosa la propria condizione di “distanza” rispetto alla quotidianità,   e difficile un qualsiasi abbandono al riposo negli affetti, al sonno del pensiero. E non vale forse per tanti in questa nostra epoca demonica? almeno per quelli che  hanno coscienza? Il poeta ha una sola distinzione rispetto agli altri uomini, egli ha il dono di parlarne, dare testimonianza, mostrare il proprio sdegno e la propria bellezza:

Un punto per incontrarsi

“Ho sognato di concentrarvi tutti / sul palmo di una mano e rivedervi bambini / nella parola mi sono dannato / per segnarvi il viso / e ancora adesso, ora che tutto è passato / senza più maestri e senza letteratura / la paura mi rivolta in questa casa che mi / ospita, per dirmi che sono distante”.

 Risentita obscuritas mallarmeana e tempestosa espressività shakespeariana sono le tonalità e i timbri dodecafonici di questa poesia che passa dalla raffigurazione oggettiva alla trasfigurazione soggettiva di sé e del mondo.

A voi ho restituito il mio sconforto

“A voi ho restituito il mio sconforto / in una valigia di dieci anni / troverete solo una dedica / un taccuino sporco di poesia. / Uomini contusi nella Storia / bambini inarrivabili / nessuna parola / può rendere onore al dolore”.

E’ tutta qui la preghiera

“ E’ tutta qui la preghiera / il grumo della mano per non soffrire.”

E di fronte al Nulla heideggeriano sul quale si staglia la vita nel suo Dasein , sembra dirci il poeta, è necessario prima fare tabula rasa delle esorcizzazioni illusorie, a cominciare da quella della morte per finire con quella del tempo. E’ qui tutto il senso più “alto” del Nichilismo non distruttivo, ma coraggiosamente ricostruttivo che è il perno di tutta la produzione poetica di Aglieco.

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Redazione
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5 Comments

  • Cosa scrivere di una poesia così alta nella sua profondità se non che vi sono poeti come Sebastiano che nulla hanno da invidiare ai “laureati” dell’ambiente letterario? Umanissima e profonda, incivile, poiché oggi la parola civile (per me) ha assunto connotazioni poco edificanti se la rapporto alla “civiltà” che ci circonda; poesia che mi ricorda la frase di Ungaretti (cito a memoria) : io non sono un sentimentale,sono un uomo di sentimento. La “frattura del mare” e “questo bambino che / risale il mare, cercando le orme di un padre” e ancora “nessuna parola / può rendere onore al dolore”sono immagini bellissime. La nota di Rosa è partecipata e puntuale. Grazie. Mi serviva, oggi, la bellezza. Oggi più che mai. E qui l’ho trovata.
    Liliana Z.

    • “incivile, poiché oggi la parola civile (per me) ha
      assunto connotazioni poco edificanti se la rapporto alla “civiltà”
      che ci circonda; poesia che mi ricorda la frase di Ungaretti (cito a memoria) :
      io non sono un sentimentale,sono un uomo di sentimento.” Interessante annotazione. Da approfondire. Grazie

  • Grazie Sebastiano per le tue belle riflessioni. Misterioso e affascinante è stato per me il viaggio nella tua poesia.

  • Cara Rosa, è sempre strano quando gli altri – in genere quelli che ti hanno capito di più – decidono di scrivere dei tuoi versi. C’è un misto di conferma per ciò che hai cercato di dire nei tuoi versi, e di scoperta, per ciò che non capisci e che rimane da chiarire a se stessi: del resto un lavoro che possono fare solo i lettori. In questo tuo testo la conferma risiede nel tono drammatico che sottolinei, a volte tragico; nel rapporto con gli scrittori amati, soprattutto Leopardi, e anche nell’idea che fare poesia non è attività scissa dal pensare: fare poesia è, come qualcuno ha detto, un pensare per immagini; nel suono “dodecafonico” . La scoperta risiede ancora nella parola “dodecafonia”, in quanto non si tratta solo di stridere ma di cantare in toto, di avvertire tutti i suoni. Penso a questa cosa in rapporto al fatto che ultimamente i miei versi, inediti, suonano di più, ma poi rinunciano anche alla musica, e in fondo esprimono questa tensione, di cui parli, del cantare in coro e del cantare da soli. Un’altra cosa che mi interessa, di quello che dici, è il riferimento, in effetti, al “limbo purgatoriale”. Sì, direi che è proprio così…

    Un grazie di cuore per questa tua voglia di leggermi e di scrivere di me, il dono più bello che un lettore possa fare a te ma soprattutto all’opera; perchè l’opera, io penso, se è tale, dovrebbe sopravvivere al suo stesso autore; non appartenergli più. Essere semplicemente. Sebastiano

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