di Franca Alaimo
Con voce quasi sommessa, forse per un lievitare di distanze fra realtà quotidiana (con la quale tuttavia si intrattiene in un colloquio oscillante fra nausea e pietas) e l’interiore esigenza e quete di grazia estetica e teologale, Cara traccia sulla carta un esile itinerario di speranza, attraverso la lirica effusione di sensazioni sgorgate da residue limpidità ancora offerte dalla Natura nei suoi luoghi di non guasta beltà, e attraverso la resistenza di affetti salvati nel nido della memoria o trattenuti nel presente battito del cuore.
Attingendo a vecchi strumenti d’ars poetica e a inusuali soluzioni linguistiche, il poeta lancia dal suo affollato e tumultuante laboratorio dei tizzoni ardenti, nel tentativo di schiarire il buio degli errori metropolitani, del secolo disperato, con fiamme ancora visibili. Il problema è infatti quello di assicurare alla poesia un’area di sopravvivenza, dal momento che essa sembra ormai costretta per salvare la sua vocazione all’integrità ed all’autenticità dell’emozione e della commozione, a riparare nel recinto dell’esilio; e Cara, che per suo fato, ovvero, secondo etimologiche ragioni, per il suo “detto”, si è ritagliato da tempo uno spazio del tutto personale, alieno da ogni facile e volgare successo, sembra voler adesso esibire con orgogliosa e fiera consapevolezza questa sua creativa solitudo, non priva, del resto delle beatitudini di una tesa ed ispida immaginazione.
Nonostante, infatti, la crescente opacità della materia del mondo sempre più baroccamente addobbato e sguaiatamente opulento ed ingiusto, professa una fede ostinata nella parola, ed interviene sul suo corpo accerchiato e sfiancato, allo scopo di liberarla dalle incrostature e banalità e restituirle nuova grazia e vitalità per processi associativi inusitati, intentate oggettivazioni, accumuli nominali, teorie di immagini attinte da ogni dove, nella convinzione che non esistano eventi o cose non poetabili, ma che al contrario anche l’accadimento in apparenza minimo, le cose del liso quotidiano, i personaggi meno appariscenti, le attività più marginali, insomma tutta la materia del mondo possa e debba (e forse più che mai oggi in cui essa sembra maggiormente abbandonata alla voragine del Nulla) essere nominata per sfidare il flusso caotico e impermanente dell’accadere, recuperando, così, l’essenziale funzione soterica della poesia.
Il poeta Cara analizza, inoltre, in questo modo, l’intimo rapporto fra lo svuotarsi di senso della vita ed il decrescere dell’interesse, anche da parte degli intellettuali, nei confronti di una poesia che sia ricerca d’essenze e di valori; tra il proliferare del superfluo e del vacuo e la congerie di inutili e falsamente risonanti versi che nutrono di veleni il corpo della poesia sempre più caduco e destinato alla macina dell’oblio; tra la dissacrazione della bellezza e la dimenticanza, e quasi dispregio della tradizione, alla quale egli dichiara di volere ritornare, col passo agile ed aristocratico del levriero di Yeats, che dà nome alla seconda sezione del libro.
Dimostrando ancora possibile un rapporto d’armonia fra l’uomo e la materia del mondo, suo spazio ineludibile di conoscenza e di sapienza, egli ripete mistiche immersioni nel verde dei boschi, fra le docili canne, in ascolto delle voci degli animali, delle fronde, del vento, e contemplando rifà tempio onorante il suo corpo. Così egli trova nell’al di qua la sua iniziazione, riannoda legami, cerca senso in ogni cosa vivente. Da qui quel germinare di accostamenti audaci, fino al limite della significanza della parola, che, proprio perché investita di un sovrappiù di senso, diviene strenuamente significante e recupera un’irradianza sonora che la fa vibrare con un’intensità sbalorditiva.
Dicevamo che nulla si sottrae a questa investitura di verità: la conversazione con l’idraulico, l’intervista tra le masticatrici sghembe di chewing-gum…la latrina della nudità, lo spaccio ed il consumo di droghe, forse preghiera barocca / nella soffice pietà che implora ascese, i pescatori di frodo, il gironzolare del gatto della vicina, un’umile devota su scale di pietra, / o all’altezza di un discorso sul battesimo ricostruito come luminosa psicologia, e molto altro ancora, grazie ad un’ abundantia cordis che certo non manca allo scrittore Cara, sebbene accanto ad essa ora si affianchino una malinconica rassegnazione, una più appartata meditazione nate probabilmente dalla constatazione di uno venir meno della forza fisica ( non ho la tirannia per farmi forza) in seguito al procedere degli anni e alle molte lezioni impartite dalle malattie alla fragilità del proprio corpo: mi nutro con poltiglie d’ospedale / adesso che i denti sono allodole / infelici nascoste nella covata; un quieto pessimismo che non è comunque disperazione, rimanendo aperto ad entrambe le porte dell’al di qua e dell’al di là, sperando per il mondo una possibile armonia e qualche altro poeta che voglia volare ancora (dal limo) / nelle ascese dei sogni, nel divenire, e per l’oltre una felicità celeste, purificato il proprio spirito dall’animale che c’è dentro la carne piegata.
Ma fino all’accadere del transito ultimo la spes si scalda ai fuochi residui di bellezza e di antiche memorie dell’infanzia e dell’adolescenza che intessono squarci di intensa liricità: ecco l’olmo che si addormenta / sui lembi di una dolcezza / senza tempo; ecco la memoria di un’amorosa immagine: il gonfio seno / tenero ai miei sguardi / già fatti sentimento; e la vastità del bosco percepito come punto di lume di un ondoso oceano; e voli di uccelli, estuari, eriche, nuvole, e il merlo che si rifugia dentro l’anfratto del sorbo, cose che diventano pensieri “ e i miei pensieri sono tutte sensazioni. / Penso con gli occhi e con gli orecchi/ e con le mani e con i piedi / e con il naso e con la bocca” come scrive Fernando Pessoa, i cui versi introducono la prima sezione de La materia del mondo.
In questa citazione, come in moltissimi testi della raccolta, è facile trovare i punti di sgorgo della poesia di Cara: l’esigenza di un dettato poetico tutto personale, alieno dall’usura linguistica: il mio idioma s’accosta ai senza /idioma, come a infanzia, perché intende/ avvicinarsi alla primavera; l’ammirazione per i grandi maestri del passato: riaprire / gli occhi alla tradizione / con coraggio e certezza( per tuffi); il versificare come espressione di aristocratica diversità e avventura della conoscenza di sé e del mondo: ho rinunciato al sedile/ sul veliero, e ignorato un’insidiosa chiamata:/ mi sono sentito Ulisse in ogni/ coraggio e salvo quando, da solo,/ ho indossato una maschera per durare/ col mio pensiero; il desiderio di comunicare agli altri il segreto senso della vita: ho truccato il silenzio di colpi / soffici; volevo far capire a passanti,/ che nessuno era morto, anzi, nel rovo/dilagante, lasciavo in chiunque di noi/ un non eludere; e ancora: E’ per rendersi vivo che si parla/ a qualcuno; l’inseguimento della dimensione ludico-onirica della scrittura: Direi che è uno dei miei possessi/ insoliti, ma che salva la volontà/ del procedere, in versamenti più aperti, / prima che il sognare ceda alla Morte; versi che testimoniano tutti una umile quanto sicura coscienza del proprio fare, una coraggiosa capacità di resistenza contro i molti detrattori, un’emozionalità profonda, un umanissimo sentire le cose, gli altri, e una gioia segreta, un grazie incessante rivolto al proprio destino incoronato da un magnifico talento.
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