Sulla poesia di Alessandro Ricci

di Mario Albano

alessandro ricci (2)Alessandro Ricci, nato a Garessio (CN) nel 1943, vive a Roma da molti anni; qui insegna e si sente  romano in un modo affatto particolare, instancabile passeggiatore fra le antichità vissute al presente, un poco come la sua poesia, fra le più colte della sua generazione, amata da Luca Canali, da Giorgio Caproni, da Roberto Roversi, da intenditori insomma di acuto giudizio. Fra questi, anzi , proprio Caproni ebbe l’occasione  di parlarmi di Ricci qualche settimana prima di morire, e con la semplicità apparente che lo distingueva, lo definì “un poeta vero, cioè schivo, molto raffinato, forse troppo lucido”.

In effetti, Ricci è uno di quei letterati appartati, che non vogliono frequentare né salotti, né parlare dei loro versi e tanto meno praticare quell’arte dell’apparire che è invece propria di tanti altri di cui è inutile fare il nome e il cognome. Tuttavia è tradotto all’estero, vince premi di considerevole valore (il Pannunzio-Torino nel ’79, il premio Gozzano nel ’89) ed è apprezzato in una ristretta cerchia di critici come D’Elia , Ruffilli e Fortini, oltre a quelli su citati.

Qualcuno ha coniato il termine “sommersa”, per la poesia di alcuni intellettuali come Ricci, ma io non credo molto in questo genere di etichette, e preferisco usare, a tutto tondo, la semplice definizione di “classica” per la lirica di Ricci, e altri come il Bordini, come specie particolare della contemporaneità. Si capirà meglio l’asserzione, leggendo questa poesia, fra le più note, «Il lago di Costanza» (da Le segnalazioni mediante i fuochi, Piovan Editore, 1985):

I due cavalieri incapparono
senza sapersi nella groàna rimescolata
dalla pioggia, il lago di Costanza
intravisto nell’uragano, chi dalla Magna
venendo e chi dalla terra degli Ungari,
senza conoscere né perché né dove
andassero galoppando da settimane,
maledetti da satana e cristo,
morsi dalla memoria
in quella pasqua omicida.
S’incrociarono
per mai più vedersi in uno scopeto
dove la bufera faceva tinnire
le canne e impantanare i cavalli,
ma ognuno capì di quel momento
gli occhi ardenti dell’altro
nella celata, e gridò un saluto d’amore
e disperazione nella sua lingua, tra il fumo
delle bestie e i tonfi nella gora,
perché si esaudisse.
Poi ancora
la corsa fradicia senza meta
e senza girarsi, più forte
sentendo il cuore nella corazza,
quel cuore caìno
e assurdo, e il rimorso di castella
e dame e l’affettuosa concordia
degli alberi in remotissime primavere,
finché riapparve il lago,
immenso nella tempesta,
e fu da solo.

La costruzione, il lessico, la pienezza del verso che non celano l’emozione ma, al contrario, la fanno assaporare come un armagnac di buona annata (o se cito questa bevanda è perché essa possiede un potente “retrogusto” che ci fa riassaporare dopo aver bevuto), ovvero senza la maledetta iperbole, la metafora ridondante, sono, a mio parere, cosa evidente.
Ma, se ci si occupa di Ricci in una rivista romana, è anche perché questo poeta è profondamente, intimamente innamorato di Roma e non vi è quasi poesia che non la comprenda, la carezzi con nostalgia.

Intendiamoci, la Roma di un poeta non è, di necessità, sincronica, cioè quella del vissuto urbano quotidiano, oggi o l’altro ieri; c’è sicuramente anche quella (la poesia “Ad agosto mio padre camminava soltanto per Roma”, e molte altre), ma il suo tempo è diacronico, egli si sposta indietro a piacimento, facendo rivivere l’Isola Tiberina, vestali e senatori, padri epicurei e figli di Enea.
Per la prima, vi sono versi tratti da “Il padre, la città e i cani” (da Indagini sul crollo, Edizioni del Leone, 1989) che si spiegano da soli:

Roma, quando si offre a un rito,
può svuotarsi del tutto, anche
delle spie innamorate che seguono
antichi o ignorati percorsi;
può contare fra i suoi abitanti
un uomo e un cane gentili
e basta e, se vuole, nemmeno
loro e la voce gemella del fiume.

Ma è soprattutto nell’investitura diacronica che si compie l’esercizio poetico più alto. Quei personaggi come Messalla, il Cavaliere bretone errante, Catullo, Furio Seniore, Elvio, Licinio hanno nomi antichi, ma sono uomini di oggi, con tutti i dilaceranti nonsensi della contemporaneità, ed è come se guardassero alla Roma attuale da quella di allora, più che viceversa, passando in un continuum temporale esile, e pure visibile.
Fra le molte composizioni, che appunto, compiono questa migrazione di anime nel tempo, mi pare molto bella “212 d.C., a Tiro. Lettera di un padre al figlio” (da Le segnalazioni mediante i fuochi):

Un tuo collega della notte mi dice
che vuoi rinunciare alle giornate
dormendo e con ciò stesso al posto
di giudice, all’amore della caldea,
a Lisia di quand’eri giovinetto e pure
alle poesiole asclepiadee
cui saltuariamente ti dedichi.

Poi mi dice che cerchi il sapore
della morte nella città vecchia di Hiram
e sul molo di Alessandro, senza fiaccola
né compagna.

Io non so dirti nulla,
e qui mi resta pochissimo.

Non ti ho dato né bellezza
né intelligenza soverchie, e dell’una
e dell’altra ho visto sbiadire
i mediocri germogli. Ma forse hai gusto,
uno stile antichissimo che risale
dalla memoria macinata e sparsa,
senza fatica: perciò l’editto di Caracalla
non muta le tue giornate, né la folla
demente per i duemila anni forse di Byblos.
Diodoro ti basta a sapere quello che i tuoi
vissero con entusiasmo.

Qui si caricano ancora porpora e vetro,
l’alta e la bassa marea sono quanto mai
percettibili nel Porto Sidonio, e la luce
e il colore, e così vengono
e vengono carovane dai resti
dell’antichissima Ur:
ma non c’è un ritmo soltanto, sia fuori
che dentro di te.

Dunque non sai se dormire o amministrarti.
Sei ubriaco di novità.
Hai noia dei funzionari imperiali, la Fenicia
s’arrangia, tutte le pòleis avvilite nell’applauso,
gli astrologi assiri, la propaganda giudea,
i Traci fortunati in amore.

Troppe manie sulla tua terra
troppo ascolto nella tua testa.

Io non so quanto la storia incida,
né il tanto o il poco di morte
con cui ognuno si affonda o esalta la vita
dicendo «Eccomi malgrado l’Imperatore,
eccomi ancor prima di Menes, scriba
o nomade, patèsi o schiavo».

Non so quanto conti quello che fai:
i messaggi degli dèi – del cielo e della terra – io
li rimando indietro. Se bene
o male hai deciso, o se mai ti sarà dato
di scegliere, io non so dirti nulla,
e qui mi resta pochissimo.

È, come si vede, la lettera di un padre declinante, che non vuole opprimere, ma è preoccupato, e la chiave della poesia sta in quella ammissione “ma forse hai gusto”, indicando in questa specie di eredità cromosomica (“uno stile antichissimo che risale… senza fatica”) una speranza che, chi abbia figli, come il sottoscritto, non è disposto a perdere quando Alessandria sia Lambada, e Hiram lo scempio cimiteriale dei McDonald.

Ricci, afferma nella prefazione al volume Le segnalazioni mediante i fuochi lo scrittore Roberto Pazzi, “scriveva questo pitture antiche del moderno quando però in Italia la moda di Costantino Kavafis non era ancora dilagata a far ritrattare certe affermazioni sulla morte della letteratura predicate dalle avanguardie. I suoi Suìda, i suoi Dolabella, i suoi Furio, non li doveva altro che alla sua più intima natura di vorace consumatore dell’emozione, di drogato della memoria, d’infelice cittadino del Tempo”; e più in là prosegue asserendo che “non si renderebbe onore alla complessità della sua ricerca poetica, che dura da vent’anni, se non si mettesse in luce il filo che la unisce alla seconda dove il poeta abbandona il filtro delle antiche età per una più diretta immedesimazione nel quotidiano e nel presente”.

Tuttavia, quanto s’è detto fino ad ora rappresenta più che altro le coordinate di un luogo poetico, forse s’è intuito il ceppo moderno (Pound, Eliot soprattutto) e la forma. Ma quel che rende la poesia di Ricci particolare e distinguibile è quella sorta di “dannazione del cercare”, come dice Pazzi, quell’interrogare senza fine, “nudi di certezze, ricchi solo di domande” che suscitano certi nomi (Rimbaud, Luzi, lo stesso Caproni, Montale) ed evocano una posizione nella vita che ha tutto del transitorio, del viaggio inutile e però non fine a se stesso.

Insistentemente, ogni volta che concludo una lettura di Ricci, mi vengono in mente quei versi di Tommaso Campanella, cosi disperati e dolorosi: Temo che per morir non si migliora / lo stato uman / per questo io non m’uccido: /ché tanto ampio di miserie il nido /che, per lungo mutar, non si va fuora. È la stessa sensazione che mi procura T. S. Eliot nella Terra desolata o negli Uomini vuoti, e che in filosofia è Wittgenstein, in pittura Munch. Voglio dire che la condizione della miseria umana è sentita da Ricci come la propria condizione, ma che la disperazione non è, illusoriamente, un dolore, ma una forma di lucida coscienza, il senso di un limite intrinseco e invincibile con il quale occorre convivere più che combattere:

Amerei la vita pur
nella luce dei neon, tra i soffi
della Faema Express, le monete
da cinquanta nel piatto,
il trillare idiota dei flipper
laggiù nel fondo.

Pazzi scrive, nella prefazione a Indagini sul crollo, che “è in quel condizionale del verbo amare, in quella riserva del sì, in quell’indugio al suo abbraccio una delle note dominami della poesia di quest’ultimo libro di versi”.
In effetti, con Indagini sul crollo si ha proprio “l’impressione di essere in un regno dei morti dal quale guardare alla vita come a un sogno amico, stupendoci di averla ancora così impressa a lettere di fuoco nel cuore, di averla così struggentemente amata e offesa con i mille nodi che ci ha lanciato per catturarci”.
È una delle ultime poesie di Ricci, questa Indagini sul crollo, che dà il titolo all’ultimo volume edito, e probabilmente la più significativa della raccolta:

Se temendo sperassi che tutti i prossimi d’età
sono invecchiati di colpo e continuano a fare,
a vivere sapendo che li aspetta la fine
di quanti infinitamente ci precedettero,
e lo pensano al caffè, sull’autobus,
davanti alla scrivania e nell’attimo
del risveglio, allora il gesto sbadato
che ci priva del desiderio, dalla rondine
che migra alle viole appassite, dalla ruggine
che rode all’invecchiamento del cane, dei denti,
dei camerieri; lo stesso
momento di panico d’un occhiale
che affonda nell’acqua alta, del vaso
che precipita nel vuoto, del bimbo matto
che attraversa la strada se guidiamo veloci
sono nulla (o tutto?)
rispetto allo strapiombo perpetuo
dei nostri vecchi, che pure sonnecchiano
immoti e oscuri nelle stanze della città,
o su panchine autunnali assorbono
pacatamente il sole, mentre
i giovanissimi della specie volano intorno
con idee di vittoria, trionfi
della carne, fantasie ingegnose
sulle apparizioni del mondo.

Se temendo sperassi che la vicenda è questa
e non io un ben diversamente battuto,
allora la pazienza,
davanti all’allegria e al dolore
più rotondi e perfetti negli altri,
sarebbe amore e onore forse per questo giro
smisurato di valzer,
per questo gioco.

Dalla poesia, e da molte altre, emerge, infine, un elemento che è per lo più dato per scontato, ma che io sottolineo sempre, quando l’incontro; una forma di umanesimo coniugato con una forte coscienza civile, una passione confessata per gli umili, e la loro comunicante transitorietà, che è verità piena e morale. Non è sempre facile ricordare negli anfratti e nelle gore della lirica (e il limite di Montale, ad esempio) chi siamo e chi siano gli altri, e quanta parte di noi sia posta nel tutto che circonda.  Non è solo questione d’attenzione (purtroppo figlia, talora, della compassione) al mondo e alle contraddizioni, ma di stare da una parte, e una sola.

Su questo ultimo dato vorrei chiudere queste note sulla poesia di Ricci, sconsigliandone la lettura a yuppies in carriera e fagocitatori di professione, a esegeti del salotto e della moda, a quelli che si inchinano senza provare mal di schiena, agli estimatori del vecchio detto mafioso “cummannari è megghiu che fotteri” (che fesseria!).

Quella è un’altra razza, che poi la poesia non la legge, per nostra fortuna. Ma se pensate che dignità e disperazione non siano antitetici, e che per capire bisogna saper offrire la propria carne, quando si sia poeti o amanti, Ricci va conosciuto e di lì ad amarlo è in pratica tutt’uno.

L’occhio su Roma”, Anno I, Numero II, Ottobre 1990

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  • Poesia ad altissima concentrazione colta e allusiva quella di Alessandro Ricci. Il suo complesso, delicato universo, è ripercorso con affondi di grande finezza e competenza da Mario Albano. Testimonianze come questa placano la rabbia per un poeta rimasto troppo a lungo nell’ombra.

  • Poesia ad altissima concentrazione colta e allusiva quella di Alessandro Ricci. Il suo complesso, delicato universo, è ripercorso con affondi di grande finezza e competenza da Mario Albano. Testimonianze come questa placano la rabbia per un poeta rimasto troppo a lungo nell’ombra.

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