Temperare la punta alla morte: una testimonianza su Alessandro Ricci e sulla sua poesia

alessandro ricci 2Alessandro Ricci è stato uno degli sventurati d’ogni tempo che fanno dell’esperienza personale materia di poesia e della poesia la ragione della propria vita. Era nato a Garessio (CN) il 14 agosto del 1943 da padre romano, lì militare durante la guerra. Pur vivendo a Roma, ebbe sempre molto caro il paese natale: «Ho amato perdutamente, fermo / da mane a sera, come una frode / all’odio, l’acqua dei torrenti / e del fiume / che traversavano la mia terra», scrive ne La confessione. Vi tornava appena poteva: da ragazzo, d’estate, portando con sé amici e compagni di scuola; da adulto portandoci le donne delle quali s’innamorava. Infine, ha voluto riposarvi, accanto al padre. Alessandro si era laureato in lettere, alla Sapienza di Roma, con una tesi su Beppe Fenoglio, relatore Giuliano Manacorda, correlatore Alberto Asor Rosa. Appassionato di meccanica, di motori e d’ingranaggi, per vivere avrebbe potuto fare il progettista d’automobili, ma scelse di fare l’insegnante, fortemente deludendo le aspettative della madre, con la quale intrattenne rapporti sempre difficili. Basti a spiegarlo questo breve episodio raccontato in una lettera: «La maestra Germani chiamò i miei genitori perché avevo scritto che “felicità consiste nell’avere una cosa per volta a cui pensare”. Mia madre rimase molto soddisfatta per quel “consiste”, abbastanza raro per un ragazzino di 8/9 anni, e fece i complimenti all’insegnante […]. Mio padre invece si ammutolì, sembrava volesse chiedermi scusa per una cosa che capii subito, e maledissi quella frase e gli effetti che aveva prodotto sull’una e, soprattutto, sull’altro». E questo commento lo spinge, appena più sotto, nella stessa lettera, a spiegare perché, invece, sentisse un profondo attaccamento per il padre: «Ero orgoglioso di un padre malinconico, assorto, silenzioso e schivo – 2,5 lauree ma la scelta di fare il geometra per scendere nelle buche dei grandi lavori stradali di Roma centro con gli operai e dividere con loro lo sfilatino con la mortadella e ascoltare le loro storie difficili senza dire la sua –; ero orgoglioso di me più come un fratello che un figlio. Non ho mai voluto batterlo. Ogni volta che mi càpita un dolore più grave dei soliti lo chiamo – e il mio ateismo è forte come una fede – e gli dico: “lo vedi, papà? Ancora una volta non ti ho battuto”». Nel 1972, Alessandro partecipò alla realizzazione del film per la televisione Diario di un maestro di Vittorio De Seta. Dopo quell’esperienza, iniziò a scrivere soggetti e sceneggiature per cinema e televisione (firmate insieme all’amico regista Claudio Bondì, che ne realizzò dei brevi sceneggiati); alcune furono raccolte in volume per la ERI nel 1980 col titolo La storia a misura d’uomo. Il suo ultimo film, scritto ancora una volta insieme a Bondì, fu De Reditu – Il ritorno, dall’omonimo poemetto odeporico di Rutilio Namaziano.

Prima di tutto questo, però, e soprattutto, Alessandro Ricci è stato un grande poeta, anche a dispetto di se stesso. I suoi primi libri furono pubblicati per l’insistenza degli amici (tra i quali, Roberto Pazzi, che ne scrisse la prefazione, e Paolo Ruffilli, che editò il secondo). Dopo Indagini sul crollo, passato nel silenzio più profondo, e la conseguente delusione, egli lasciò che trascorressero anni di amori infelici, di solitudine, di speranze insoddisfatte e di lavoro senza premio. Solo a distanza di quindici anni, con la complicità di Gianfranco Palmery, che poi lo avrebbe editato, riuscii a convincerlo a pubblicare un terzo libro (che non giunse a vedere stampato): ne scelse i testi, ma la scoperta della malattia gli spense ogni residuo entusiasmo – come testimonia la breve nota aggiunta al libro – e abbandonò tutto nelle mie mani. Eppure, nonostante i suoi pudori, e in contraddizione con se stesso, soffriva per un mancato riconoscimento che sapeva di meritare, poco però facendo per rimediarvi: non s’affannò, per esempio, per pubblicare con i grandi editori[i], quelli per intenderci che riescono ad imporre un libro anche a dispetto del suo valore. Ci sono poeti – e Ricci era il primo di essi – che vivono ai margini del “gran spettacolo”, non illuminati dalle luci di scena, per inguaribile modestia e mancanza di vanità accontentandosi – e in ciò forse sbagliando – d’essere letti solo dai pochi, conoscenti o amici, dei quali stimano il giudizio; pur sapendo per ciò d’essere quasi sempre ignorati da quei compilatori di gazzette e antologie che, come gazze ladre, vengono attratti solo dal luccichio[ii]. Dopo una prima volta carica d’insostenibile ansia, nemmeno gli andarono a genio le letture pubbliche, che considerava in genere un insopportabile sfoggio di narcisismo da parte dei poeti (che «pensano / di essere belli nel massimo della vampa», scriverà ne La passeggiata), e alle quali non accettò mai di partecipare. Nel 1983, a Bologna, alla presentazione del secondo numero dell’almanacco “Le porte”, di Roberto Roversi, al quale avevamo contribuito entrambi, non rifiutò solo di leggere i propri testi, nemmeno volle ascoltare me che lo sostituivo: fuggì dalla sala (come in altra occasione e in altro luogo avrebbe fatto Beppe Salvia), riprese il treno e tornò a Roma, da solo, quella notte stessa. Onesto e rigoroso fino all’intransigenza, Alessandro aveva un rispetto di sé e della propria integrità così alto e fermo da consentirgli solo brevi lettere a rari amici. (I suoi interlocutori abituali – a parte chi scrive – erano Roversi, D’Elia, Ruffilli, Bordini, Pazzi, Canali, Varano, Ciriachi). Se alle sue lettere allegava qualche poesia, non s’aspettava di più di un veritiero giudizio. Il suo rapporto era con pochi amici e con nessuna consorteria letteraria, come anche a Roma ne esistevano. Ma con gli amici gli piaceva chiacchierare, anche di poesia. Scrive in una lettera: «Erano chiacchiere di questo genere che una dozzina di anni fa, seduti in un bar vicino a piazza Pio XI, si facevano, tra sorrisi dispettosamente auto ironici, di volta in volta con Luca Canali […], Checco Dalessandro, Beppe Salvia (dei tre ‘poetae novi’ – si era quarantenni – invisibili, sicuramente il migliore: “Ho offeso con la mia stupidità / la legge della vita: l’infinita innocenza / della sua crudeltà”. Infatti s’è ammazzato)». E commenta: «Tutt’intorno, in quel bar della Roma d’oggi, come nel thermopolium di ieri, come in ogni angolo della vita e del tempo il serissimo gioco del ‘profit and loss’, le parimenti prolifiche seduzioni agìte o, proprio lì, in atto: il fascino della diretta».

Ma, come scrisse Anceschi di Baudelaire, Ricci «fu ciò che fu perché così volle essere, e si aiutò con tutti i travestimenti calcolati, le studiate macchine che gli fu possibile inventare». La scelta della disperazione, il prepararsi da sé consapevolmente le trappole in cui cadere, il mettere in mostra i motivi della propria esperienza di auto flagellazione, furono i segnali trasparenti dell’intenzione di assecondare il proprio destino. La sua impresa fu quella di dare disperatamente forma all’angoscia, alla sua voluttà[iii], consapevole che tutto debba esserle sacrificato. Lo fece in una poesia che apparve subito, ai pochi, privilegiati lettori, di convincente maturità. (Passarono tuttavia più di quindici anni prima che alcuni, pochi membri del pubblico della poesia avessero modo di accostarsi a un suo libro: Le segnalazioni mediante i fuochi è del 1985. Nonostante la sensibile prefazione di Roberto Pazzi e alcune partecipi recensioni, di esso pochi, dicevo, si accorsero; e Indagini sul crollo – di nuovo prefato da Pazzi –, quattro anni dopo, fu desolatamente ignorato. I cavalli del nemico, che bisognò aspettare altri quindici anni, nemmeno ebbe miglior fortuna).

La virtù principale di questa poesia, mantenutasi intatta per tutto il suo tempo, è la lingua: colta, ricca, anche aspra, ma classica; e tuttavia duttile, capace di flettersi fino alla parola degradata e di raccogliere e accogliere stralci di parlato, nobilitando poi tutto con il ritmo, con l’apertura della voce e il vibrato delle sue corde. Ciò che ne nasce non è mai partitura puramente eufonica (che quando giunge a sfiorare tale rischio, il verso azzarda inarcature vertiginose – su articoli, congiunzioni, ecc. –, si fa aguzzo e imprevedibile), ma ritmico articolarsi di pensiero; perché un altro aspetto precipuo della poesia di Ricci è lo svolgersi logico del ragionamento anche in presenza di forti emozioni; insomma, se il cuore ne è elemento costitutivo, imprescindibile è la mente che ragiona e si relaziona con il mondo circostante, con l’altro da sé. Ricci non sembra mai porsi il problema della forma mentre scrive: il fatto che in lui la poesia risponda a una necessità, fa in modo che si stratifichi, si disponga sulla pagina già determinata in partenza. Voglio dire che non c’è un particolare lavoro di costruzione – salvo forse nella sua mente – della struttura strofica e del verso, anzi molto liberi; forma e contenuto, in lui, si direbbero consustanziali, ovvero mai scindibili (dove è forte o debole l’uno è forte o debole anche l’altra, e non si dà eccezione), e che perciò non costino fatica costruttiva. La strofe di Ricci, quando si dà, può essere molto lunga o molto breve, dunque variabile, ma sempre precisa, decisa, normalmente strutturata in modo da non travalicare (quasi) mai i propri confini (che sono poi quelli, come dicevo, del senso, dell’argomentare), nemmeno quando un verso si spezza in due emistichi e di conseguenza una strofe in due. Viceversa, ognuna di quelle strofe secondarie, e maggiormente quando la poesia consiste in un unico vertiginoso periodo che si avvita su se stesso, e di più col passare del tempo, i versi ricorrono di frequente a quella “pausa irrazionale”, come qualcuno l’ha definita, che è l’inarcatura. Per tutto questo, Ricci è l’unico poeta ingenuo (inteso nel senso che al termine attribuisce Schiller nel suo celebre saggio) che conosco. Come ho cercato di dire, la sua poesia nasce spontaneamente, senza programmazione, e senza preoccupazione di sorta per le conseguenze che dai suoi versi dovessero derivare, per sé o per altri: è sincera, anche quando (e se) la sincerità dovesse turbare chi legge, sia esso lettore generico e sconosciuto, sia esso l’interlocutore principe dei versi: colui, o, più spesso, colei alla quale sono destinati; è serena, anche quando è nervosa, o quando è crudele; è precisa e trasmette il “suo”senso del mondo, anche quando è breve, o non del tutto riuscita. Il “suo” senso del mondo diventa immediatamente il senso del mondo tout court; non per presunzione, ma perché non ne conosce altri e ignora la necessità di studiarne di alternativi.

Le due raccolte qui riproposte si dividono fra le grandi poesie storiche, nelle quali i temi maggiori del libro sono trasfigurati in potenti invenzioni di figure relitte e solenni, e i suoi versi “d’amore e incanto”. Con agile passo, Ricci sa muoversi lungo l’arco intero della Storia, abbandonandosi alle vertiginose discese del tempo, com’egli le chiama, che lo portano a toccare situazioni e vite (reali, come quelle di Dolabella, Cavalcanti, Ammiano Marcellino; o immaginate, come Lentulo e Suìda il Tessalico; o trasfigurate, come Furio Seniore, dietro il quale si cela Lucrezio, che più tardi tornerà col suo nome). «Figure che spariscono all’improvviso dalla pagina come un fiume carsico per riapparire poco dopo con le loro conflittuali visioni del mondo, con le loro morti a volte inevitabili e a volte volute, con le lezioni di vita consegnate intatte a un’epoca, la nostra», come scrive Fabio Ciriachi in un abbozzo di discorso critico. Subito dopo, risalendo all’indietro, tornando al suo (e nostro) presente, ecco riapparire l’anonimo poeta che esprime in prima persona i suoi molti dubbi e le rare certezze «in una sorta di muto e intimo interloquire» (ancora Ciriachi). Nascono da ciò i suoi versi d’amore, così poco sentimentali ma così pieni di sentimento, di umanità, di consapevole e dignitosa accettazione, che, scritti in una lingua media e colloquiale, si presentano disarmati, indifesi, eppure crudeli, tanto platealmente arresi alla derelizione d’ogni straziata bellezza (in un’altra lettera, scrive: «La bellezza è una ferita, contemplazione e nostalgia sono tutt’uno»); poesie d’amore che, narrando il percorso rovinoso dai gradini d’oro dell’innamoramento, alle profondità del baratro di delusione e abbandono, sono spesso fuor di metafora e di grande impatto emotivo. Non conosco nessun altro che abbia saputo descrivere meglio e più lucidamente l’attimo in cui ci si innamora, l’attimo in cui cadere innamorati[iv] suscita «alcune speranze grandi, / altre nuove, molto confuse, molto / taciute» elette «a parole / o gesti quasi subito, quasi / prima»; o il momento in cui si resta sospesi tra la felicità del prima e la disperazione del dopo: «Poi lei incontrò la dimenticanza / dove io la memoria, e il tempo / fu un punto, da cui partire / senza di me, in cui restare / proprio con lei». Fra i vagabondaggi con «il fantasma del genitore» nei luoghi dell’infanzia e le discese del tempo, là s’insinua la furia pacata della bellezza, che non è della città (o non solo, naturalmente), ma della donna amata, della donna che incanta e inganna, che lusinga e si nega, punendo ogni forma d’abbandono e di resa, ogni slancio di desiderio. Di una – e di tutte – Alessandro scrive in una lettera: «Tornerà – ho sperato – e sarà di nuovo ridente, gentile, perfetta come lei non sa di essere e forse neppure io, e poi purtroppo io l’amerò ancora di più e che non glielo dica o non la guardi o non le tocchi i capelli sarà lo stesso, perché la vampa di ogni desiderio, mio s’intende, dal più sporco al più naturale al più spirituale e pulito come un’evanescenza, un non essere quasi, si espanderà nell’ambiente e lo riempirà di peso, e lei sarà di nuovo in imbarazzo, in difficoltà, in dolore per il mio dolore». Dunque, resta la speranza; che, se non muore, però uccide. Ma «ingenua è la morte che ne deriva», è la conclusione. Perché non andò mai come si aspettava. E le speranze furono sempre deluse. Ancor prima di leggerlo in Barthes, Alessandro sapeva bene che quel che scrivi non ti farà mai amare da chi ami, e che la scrittura non è un compenso né un riscatto, tantomeno la sublimazione di qualcosa, perché è esattamente dove tu non sei; ma è da lì, da quella consapevolezza che comincia.

Fra i pochi, forti temi della poesia di sempre: la nostalgia, il viaggio, la conversazione, il trascorrere del tempo, il dolore (asciutto, riflessivo, inconsolabile, come scrive Stendhal, perciò morale) ripetuti e variati da grande poeta, le sue stelle fisse furono l’amore, che accompagna e traversa ogni pagina dei suoi libri, e la morte. La morte, a cominciare dal suicidio del pompeiano Furio Seniore, in Le segnalazioni mediante i fuochi, per finire con quello di Protadio, in una memorabile scena di De Reditu, passando per le morti di Cavalcanti, di Lentulo, il poeta cieco del Circolo di Messalla, del nonno e, soprattutto, del padre, che, ogni volta ricordata e risofferta, prefigurava l’immaginata sua. In una scena del De Reditu c’è un breve colloquio fra Rutilio e il nipote: «È il pensiero della morte che aiuta a vivere», dice Rutilio (e qui lo sceneggiatore si ricorda di Saba, citandone un verso; ma forse anche di un affilatissimo Cioran: «Tutto quel che prefigura la morte aggiunge novità alla vita, la modifica e l’amplifica»[v]). «Sembra un pensiero cristiano», gli risponde il nipote. E Rutilio ribatte: «Sembra, ma non lo è». Ciò spiega perché le sue macchinazioni (penultime, le definisce in un bel titolo) del suicidio fossero come uno scongiuro e, insieme al male di vivere, ne alimentassero la poesia: programmare il suicidio non allontana la morte, non la rinvia? In una sequenza de La confessione leggiamo: «Da buon gioielliere, / nonno sapeva forare i lobi delle / ragazze, e amare il minimo dolore / della puntura, il minimo danno / estetico alle orecchie. / Perciò l’intenerì la Browning. / Se quella / fosse stata la decisione, aveva / temperato la punta alla morte». Per Alessandro, le attività più antitetiche, progettare il suicidio e scrivere poesia, diventavano equivalenti; perché esercitarle significava, in entrambi i casi, temperare la punta alla morte. E nell’esercizio di esse non c’è niente di cristiano, o di religioso in senso stretto; c’è, anzi, la fierezza di un pensare laico nudo e senza infingimenti, rivendicato fino all’ultimo con severa consapevolezza e incarnato[vi] dalla straordinaria figura di Giuliano l’Apostata che, pur sconfitto dai «molti, folli galilei», reca un estremo messaggio di virile accettazione della morte. Sì, la morte che, «versatile più della vita»[vii], Alessandro ha sempre corteggiato, consapevole di doverla conquistare giorno per giorno (lui, montaliano, costretto ad aderire all’ungarettiano «la morte si sconta vivendo»); e che, infine, quando non ebbe più risorse, quando venne il momento – consumato in pochi mesi da un tumore ai polmoni, quasi inevitabile per un fumatore accanito (e non pentito) come lui –, nonostante un disperato amore per la vita, sapendo d’essere atteso, avrebbe potuto affrettare. «Ma il suicidio non sarebbe stata una vittoria: la morte ormai veniva a lui in maniera legittima, come una giustificazione, un dono della vita»[viii], ed egli lo capì, l’accolse e le si abbandonò, senza paura di mostrare agli altri, fossero amici o conoscenti, la propria resa[ix]. «Lo so, siete ancora / troppo viventi, non potete / seguirmi, grazie / lo stesso», farà dire a Giuliano morente, rivolto ai compagni in quel momento estremo. E noi, gli amici che nelle ultime settimane andavamo a trovare Alessandro in ospedale, tutti riascoltiamo l’eco delle sue parole, quando diceva: «Ora vai, sarai stanco», o quando pregava: «Non venire, perché mi emoziono». Fino all’ultima sera, quel 27 marzo 2004.



[i] Solo una volta fece un tentativo con Lo Specchio Mondadori, ricevendone un netto rifiuto.

[ii] Ai quali, purtroppo e troppo spesso, è affidato il possibile canone per il futuro: chi resta fuori dai loro florilegi, difficile che abbia poi residenza nel condominio delle patrie lettere; non so se bisogna rammaricarsene o gioirne.

[iii] «Colui che non si dedica alla voluttà dell’angoscia, che non assapora col pensiero i pericoli della propria estinzione e non ne assaggia i crudeli e dolci annientamenti non si libererà mai dell’ossessione della morte». E.M. Cioran, Variations sur la mort, in Œuvres, Gallimard, Paris, 2003.

[iv] Ecco un caso in cui più logica e conseguente sembra essere la lingua inglese, che parla di falling in love.

[v] E.M. Cioran, Variations sur la mort, in Œuvres, Gallimard, Paris, 2003.

[vi] In Morti parallele, nel libro postumo I cavalli del nemico, Il Labirinto, Roma, 2004

[vii] Inizio di una poesia mai finita: “Il vermicello annega nella grappa / o la rondine si fulmina sul filo. // La morte è versatile / più della vita, ma presto / il cadavere si placa e /presto sulla memoria / vincono la paura / l’amore”.

[viii] Flannery O’Connor, Malattia mortale, in Tutti i racconti, Tascabili Bompiani, maggio 2011.

[ix] E perfino l’incoerenza, come qualcuno gli rimproverò.

Francesco Dalessandro
More from Francesco Dalessandro

Alessandro Ricci: ‘I cavalli del nemico’

La peculiarità della poesia di Alessandro Ricci, ha scritto Fabio Ciriachi (l’Unità,...
Read More

7 Comments

  • Un grazie di cuore a Rosa e a Carlo. Le voci come quella di Alessandro non andrebbero perse, mai! E invece, succede spesso, troppo troppo spesso. Viva allora una rivista (o blog: chiamomolo come vogliamo) come Poesia2.0 e il suo direttore e gestore Luigi Bosco che permettono di riascoltarne l’eco e un grazie sentito anche a loro. Francesco

  • Mi ha commosso questa recensione così sentita, ricca, intensa, su un poeta come Alessandro Ricci, da quel che leggo persona riservata e schiva, e poeta grande umbratile e luminoso insieme. Mi ha commosso anche il racconto di quegli anni lontani, il riferimento a Beppe Salvia, ai suoi versi, al suo carattere timido e “fuggitivo”. Mi ha commosso l’amore profondo di un poeta come Francesco Dalessandro per l’amico che con le sue poesie continua a essere con noi più vivo che mai e nei cui confronti, pubblicando le sue poesie, come giustamente osserva Carlo Bordini, compie un atto di giustizia.

  • Caro Francesco, pubblicando le poesie di Alessandro stai facendo un atto di giustizia. Meno male che esiste la rete e che esiste Poesia 2.0. E la tua bellissima presentazione.

  • E’ possibile avere maggiori informazioni su questo poeta? A parte le sue pubblicazioni cartacee (non so quanto reperibili), sono presenti suoi testi o saggi su di lui in rete? Grazie

    • Cara Michela, nella breve scheda biografica dell’autore (http://poesia2punto0.com/2013/04/11/alessandro-ricci-scheda-autore/) troverai le indicazioni bibliografiche. In rete credo ci sia poco, ma durante le prossime due settimane su P2.0, grazie alla gentile collaborazione del poeta Francesco Dalessandro che ha curato la raccolta di tutto il materiale, rimedieremo alla mancanza di informazione pubblicando numerosi saggi, interventi critici ed anche una piccola antologia di poesie selezionate.
      A presto,
      Luigi B.

      • A Michela posso suggerire, se intanto vuol leggere qualche poesia in rete, di collegarsi al mio blog Poesie senza pari. Francesco D.

        • Avevo 16 anni, frequentavo il quarto superiore. Un professore di italiano, venuto da lontano, iniziò la sua prima lezione in classe. Non disse nulla, solo: “buongiorno omini”. Poi scrisse alla lavagna una poesia di un tale Kavafis. Così si presentò a noi. Ho riconosciuto qui, in questo sito, vedendo le foto dei poeti, quell’uomo, che stette da noi solo un anno. Non è importante sapere chi io sia, ma ora che ascolto le sue scritture, ho più chiaro cosa andrò a fare, d’ora in avanti. Le sue lezioni in classe valgono più di qualsiasi altro convegno o seminario di poesia… valgono, parlo al presente, perché le
          rivedo ogni giorno.
          iago

Lascia un commento