10 appunti su “Nel vero delle cose” di Corrado Bagnoli

di Roberto Caracci

nel vero delle cose - bagnoli1) ABITARE NEL LUOGO DELL’EPIFANIA

Essere nel vero delle cose vuol dire essere non nelle cose o nella loro apparenza, ma nella loro verità più profonda, nel loro nocciolo più riposto, nel loro segreto.  La poesia di Bagnoli sfiora, tocca e racconta gli oggetti, le cose e le emozioni stesse, alla ricerca di un manifestare che sia epifanico, ossia che non si fermi ai colori della superficie.  Essere dentro le cose vuol dire essere dentro una o  ‘la’ loro verità. In questo termine così impegnativo, che da una parte rinvia al vero leopardiano dall’altro al volo hegeliano di una pensosa nottola, Bagnoli ripone  la sua fiducia di poeta che vuol vederci chiaro (vederci in trasparenza, appunto, oltre il fenomeno ma attraverso il fenomeno, nella quintessenza o noumeno o significato ultimo delle cose)

Se fosse così che s’impara/per il balenare imprevisto, inaspettato delle cose; da questo loro apparire/come uno scherzo, dentro/un ripostiglio che la città/ s’era tenuto segreto?

 

2) L’ESSER DENTRO COME CLAUSTROFILIA E CLAUTROFOBIA

In questa volontà di essere ‘dentro’, che si contrappone a una situazione fatale di ex-sistere come essere fuori da tutto, dalle cose, dagli altri e talvolta da se stessi, sta la claustrofilia poetica di Bagnoli,  questo piacere del segreto, del luogo interiore, della cantina dell’io buia e protetta,  o del paese/patria fortificato da confini che spesso la vita non garantisce.

Allora è qui/ che insieme alle cose /io vado a finire:/ in questa patria di sassi,/ e colline, ho una casa segreta

Ma d’altra parte l’amore di ciò che è raccolto, racchiuso, legato e secreto, rivela poi una seconda faccia, che è quella della claustrofobia del poeta che conosce bene l’aperto non protetto, il caotico fiorire nello spazio e la bellezza proliferante del fuori, o di ciò che come una rosa spande i suoi petali all’esterno.

Ogni cosa di oggi si apre però/ come un fiore, la terra sembra/ non avere memoria, non io.

Io sto dentro questo/ bozzolo di tempo/ come risucchiato nella vertigine.

3) IL DENTRO E IL FUORI DEL LINGUAGGIO

E se è vero che poi ciò che lega (come logos e come legein), raccoglie e vincola l’esperienza esistenziale di un poeta è proprio il linguaggio con cui le cose vengono dette, laddove quelle cose poi campeggiano e viaggiano nel tempo su un sfondo che nemmeno la parola riesce a controllare, ecco che il problema resta quello di un linguaggio che fiorisca esso stesso come una rosa, magari una gialla rosa tardiva, ed espanda i propri petali in uno spazio non codificato.

…Figlia tardiva su un ramo/ dimenticato tra gli altri….

Sicchè in questo modo il vento, i colori, le emozioni e il dolore della vita possano trovare luogo nella parola senza esserne ingabbiati, senza che il vero delle cose sia ricoperto da quel sudario colorato che spesso sono le parole.
E’ la doppia anima di Bagnoli, quella che vuole abitare o dimorare in una radura che raccolga il dentro delle cose, il loro cuore o il loro segreto, come una bomboniera, e quella che invece si lascia andare al flusso di una vita fatta di lampi e bagliori, di svolte e soffi di vento, imprevedibile e irresistibile proprio per questo, ma anche spietatamente esigente nei confronti della parola che la dice.
Del resto nel lessico di Corrado ricorre la misura e il misurare proprio in relazione alla fatale volontà o velleità che noi –come poeti o come uomini- abbiamo di riportare cose, emozioni ed esperienze a schemi controllabili, a geometrie stabili, a organizzazioni di logiche e retoriche affini a un cosmo regolare più che al caos di cui siamo probabilmente fatti, con l’inevitabile scacco che può conseguirne: la vita non si misura, se neanche il legein delle parole riesce a raccoglierla e a contenerla.

4)IL DENTRO-FUORI DELLA SOGLIA

C’è un esser dentro che dunque gratifica- è l’essere dentro il vero delle cose- ma c’è anche un esser dentro che mortifica e intrappola, ed è l’essere dentro le cose prive della loro verità, nel loro manifestarsi senza epifania. E allora la condizione del poeta resta quella del dentro-fuori, ossia della soglia dove da una parte si può beneficiare di un angolo alle spalle  dove andare a rifugiarsi, dall’altra –sul foglio bianco aperto – si può godere dello spazio spalancato alla parola, a quelle parole che si aprono a ventaglio come una promessa sulle vite a venire. In questo movimento doppio del raccogliersi e dell’espandersi, del richiudersi della parola come petalo e del suo riaprirsi estemporaneo alla vita, si situa uno dei topoi ricorrenti della poesia di Bagnoli: una doppia corrente che rende la sua poesia tesa come una corda fra un pensoso rigore e una festante plasticità.
E così abbiamo da un lato il dentro della nebbia, dove perdersi e ritrovare ogni cosa più vera, e nella cui umidità ritrovare il battesimo di un giorno nuovo, dove anche il dolore nominato diventa un dolore più leggero.

Mi ci perdo, credo/perché mi sembra/ogni cosa più vera: /dimenticata la sera, il giorno ha il suo battesimo.

Dall’altro lato, vi è il dentro claustrofobico di una stalla, metafora del mondo o di una sua parte,  dove qualcuno ti richiude di sera , per stringere le mani su di te all’alba come un animale che muore un poco ogni giorno;

Io sto dentro al mondo./ Hai voluto così. Ogni sera/chiudi la porta e non so/ se sarà domani che le mani/ mi stringeranno per l’ultima volta. /Sono stanco di morire ogni giorno.

oppure il dentro soffocante e vertiginoso di un bozzolo di tempo accorciato in una istantanea sulla riva del mare; oppure ancora, per rimanere sulla metafora della vita come immagine intrappolata dentro un fotogramma, l’esser come dentro una cartolina delle stesse cose del mondo, immobili e sfocate.

Il mondo è fatto di cose/piccole e ferme che stanno/ tutte quasi in una cartolina.

Poi c’è anche il dentro claustrofilo di un paesaggio familiare e materno come una valle, una patria di sassi e colline, una patria segreta: è in dentro di ciò che riusciamo a custodire, dentro il sacro recinto del nostro io più profondo, e a difendere dalle tempeste e dalle frane.
Ma poi c’è anche e soprattutto il fuori, il fuori dove ogni cosa si apre come un fiore e la terra non sembra avere memoria (fuori dalla cornice della cartolina); c’è il fuori delle valigie e dei viaggi, dove si reimpara ogni volte a vivere; e soprattutto il fuori della parola che a ventaglio si affaccia alla vita e –pur tentata di misurarla- non la chiude ma la evoca, la suggerisce, ne porta il soffio, l’odore, e ne aumenta in noi la fame (la parola non cattura la vita come le macchine fotografiche dei turisti).

5)IL GIACIMENTO SEGRETO

Perché in fondo l’essenza o il vero dello spettacolo delle cose, non sta solo in quel giacimento o ripostiglio dell’anima nel quale vanno a cadere, ma anche nei lampi e nei balenii di cui l’esistenza è fatta. Come si possono misurare o catturare lampi e bagliori? E’ vero che certi giorni sembrano quadri, immobili come istantanee, ma la vita è una pinacoteca dove il tempo, come un vento capriccioso, fa saltare tutte le cornici: restano grumi di colore e cose dense, su una tavolozza dove, in fondo, tutto felicemente e disperatamente si mescola nei minuti come nelle stagioni dell’esistenza.

6)IL DENTRO E IL FUORI DELL’AMORE: LA CASA E L’ESILIO.

Anche l’amore è uno stare dentro, un abitare o dimorare nel vero delle cose, in quel porto sicuro che solo un incontro a due luminoso come un’aurora può far materializzare.

Lo assecondo, questo posto che sai,/questa casa di foglie/che solo tu puoi abitare.

Nella seconda sezione del libro, si procede lungo una sorta di piccolo canzoniere dell’amore e del disinganno, attraverso rapide tappe. Malgrado la metafora della rosa e delle spine che accompagnano ogni grande amore,

Sei la mia rosa e so/ogni tua spina spinosa….

è un’esperienza che sa di istante pieno e di immortalità. Poi, dopo l’impennata, la caduta, dove ancora una volta si parla di un dolore che cerca naturalmente la sua parola, il linguaggio, per essere nominato e dunque alleggerito, visto che esso non trova più la sua casa o il suo porto (e il linguaggio non è solo la casa dell’essere ma a quanto pare anche del dolore).
E mentre prima, al tempo dell’amore fiammeggiante, il dentro era un essere nel vero della terra e nel porto sicuro, ora ancora una volta quel dentro muta segno e diventa la prigionia di un cassetto dove mi puoi riporre in cui l’io finisce in mezzo alle forbici e che non tagliano più e alle lampadine usate. Anche lui finisce come le cose, in quel segreto luogo senza luce che non più un nido caldo, ma il ripostiglio degli arnesi vecchi.

7)IL TELAIO LIRICO DI BAGNOLI

Tutto questo espresso con solito stile di Bagnoli, un linguaggio franto, spezzato, fatto di frantumi sintattici e di rapide illuminazioni, di un respiro fermo ma breve di frasi inanellate in un lungo telaio paratattico, una sorta di discorso-puzzle o di mosaico teso, plastico, in cui l’autore continua a raccontare e ragionare poetando, a seguire un filo argomentativi nel momento stesso in cui rievoca e rappresenta.

8)LAMPI ED EPIFANIE NEL PAESE RIABITATO

Il tempo dei lampi è quello di una ripetuta promessa di epifania, talvolta soddisfatta, talvolta delusa, ma sempre attuale nel mutare delle stagioni. E’ così che procede il tempo, a strappi di felicità o di dolore, costringendoti ogni volta a reimparare quello che credevi di gia appreso. La parola insegue questi cortocircuiti del tempo, questi balenii dell’esperienza, e per farlo deve essa stessa in fondo rinunciare ad avere una casa, a spiegare la vita e se stessa. E noi stessi siamo linguaggio che non può essere tradotto senza esse tradito.
E’ questo che il poeta cerca di dire alla piccola interlocutrice –sua figlia- della terza sezione. Ma ciò che più conta è quello che egli impara o reimpara da lei, la voce delle cose (attraverso la sua voce) che precede la traduzione di qualunque parola. E’ da lei, dice, che impara ad abitare il paese che sono.
Perché  altro è abitare nel linguaggio o nella sua casa, altro abitare nelle sorgenti stesse della parola, dove la vita è continua emozione, esperienza e scoperta. La parola del poeta deve all’altezza del vento e delle nuvole che gli occhi di una bimba vedono.

Imparo da te ad abitare/ il paese che a volte/ ho scordato che sono.

9)LA LINGUA DELLE COSE: UN RIAPPRENDIMENTO

Ma il  reale vero delle cose è ciò che vedono gli occhi di un bimbo, di un figlio neonato, prima che il padre –o che un poeta padre- possa tradurlo in parole. Nell’ultima sezione del libro, che ha il titolo del volume, il protagonista è il figlio da poco nato, da cui il padre più volte riconosce di riapprendere il reale linguaggio della vita. Sono i suoi occhi, gli occhi del figlio, che squarciano il silenzio e parlano, perché aiutano a vedere o a rivedere quello che finora era sfuggito, un mondo nuovo, o l’intero mondo. E’ a quelle sorgenti, alla reale ‘visione’- accompagnata da quel lallismo che ha ancora il suono del mondo- del bimbo, che il padre può attingere, per abitare ex novo il mondo.

E forse hai ragione/ ch’è dentro e ch’è fuori /che dobbiamo imparare.

E’ come se con la piccola anima venuta al mondo il poeta ripercorresse lo stesso cammino del linguaggio, dal silenzio dello sguardo, alla parola-cosa, fino a un linguaggio ancora situato nel vero delle cose, che sa ancora di odori, di colori, di suoni. Ed è decisivo qui che sia il padre a rinunciare a raccontare al figlio appena nato il mondo, con le parole usate e abusate del linguaggio codificato, per sentirsi lui invece l’allievo e l’ascoltatore di un racconto primordiale, fresco come l’aria che parla la lingua del mare. Qui siamo prima del libro, prima della parole, nel paese dove è il vento a girare le pagine di qualsiasi volume.

10)LA LUCE INFANTILE DEGLI OCCHI E IL VERO DELLE COSE

Alla fine il nuovo libro che l’autore vorrebbe scrivere, dice, sarebbe fatto di queste non- parole che stanno all’origine della parola, di questa palingenesi del mondo in cui sono le cose a raccontarsi attraverso gli sguardi, le smorfie, il lessico storpiato di un bambino. Per retrocedere almeno un attimo e riabituare per una volta in prossimità delle cose, nel paese dove il mondo ti tocca prima che tutto abbia il tempo di essere nominato. Poi il nome arriverà, la parola imporrà le sue leggi e interpreterà lo sguardo di un bambino. Ma chi sa se allora saremo ancora nel vero delle cose.

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