Corrado Bagnoli: “Uichendtuttoattaccato”

di Mauro Ferrari

bagnoli casa di vetro desioUn bell’esordio narrativo, quello di Corrado Bagnoli, già ben noto come poeta: Uichendtuttoattaccato è un libro originale che dimostra come la narrativa sia ancora vitale, al di là di sterili dibattiti sulla crisi o l’impossibilità del romanzo che troppo spesso mascherano l’incapacità di inventare nuove storie da raccontare e soprattutto,  nuovi modi e punti di vista per farlo.

 È utile soffermarsi preliminarmente sulla tipologia di questo libro, che non è un vero e proprio romanzo (anche se non ha tutti i torti a chiamarlo così Nicola Vacca), ma neppure una semplice raccolta di racconti, magari uniti da un filo narrativo o pretesto: si tratta di un polittico, o piuttosto di una sovrapposizione di quadri in trasparenza, che nell’insieme danno un quadro sfaccettato e complesso quanto la vita stessa. La creazione dei personaggi ha infatti qualcosa di shakespeariano, almeno nel senso che dà a questa espressione Harold Bloom, come “invenzione dell’uomo” e capacità di costruire personaggi che siano persino “più grandi della vita”, o meglio della nostra capacità di abbracciarli con un unico sguardo definitivo che ne espunga ed esorcizzi l’irriducibile e contraddittoria complessità.

Bagnoli propone, come spunto unificante, una sequenza di istantanee colte in un tempo festivo, “una domenica che è già lunedì”: il tempo che ci è lasciato per il ripiegamento interiore, nella dimensione del sé o degli affetti, per coltivare insomma noi stessi al di fuori del processo produttivo e, al limite, sociale. Va infatti precisato che Bagnoli rivela il meccanismo della vita dal punto di vista sentimentale, nel momento in cui sono più inermi e indifesi i suoi personaggi, tutti alle prese con problemi di adattamento alla vita intesa come bios, ambiente, rapporti umani e sentimentali, più che lavorativi, economici, sociali.

Qual è allora il punto di vista del narratore? Luicheguarda è appena fuori dalla cornice, vede senza essere visto e senza fare parte della storia, ma non è un narratore onnisciente: la sua visuale non gli permette di cogliere tutto, come ripete più volte; osserva i propri personaggi mentre definiscono se stessi al di là dei suoi intenti, le sue insegnanti di ogni età, da dietro le loro spalle, da dietro uno specchio, dal sedile posteriore di un’auto riflessi dentro lo specchietto, dall’interno di un bicchiere, da fuori la finestra o accucciato dietro un bidone, sempre con cautela e pudore. Tutte persone in carne ed ossa, tiene a precisare l’Autore quasi a garanzia di un supposto realismo, che lui realmente conosce e ha incontrato anche se sappiamo che “Luicheguarda non è Luicheracconta”, perché ci sono troppe variabili e troppe derive in gioco.

In questo universo quasi interamente femminile, in cui gli uomini mostrano un non velato cinismo e una congenita incapacità di “frenare, dare, compatire”, non vi sono Caratteri, come il nome che viene loro appioppato dal burlesco narratore può far sembrare: siamo lontani da Teofrasto o dal Seicento, come pure dalle intenzioni della commedia – a meno che non la si intenda in senso balzachiano, come commedia umana, totalizzante, e ancora una volta shakespeariano. Il tono leggero, il riso amaro non nasce dal senso del Comico come categoria – castigare i costumi ridendo, censurare atteggiamenti e vizi in nome della ragione, della normalità, della maturità, della società. Anzi, non c’è nulla di moralistico in Bagnoli. I protagonisti in fondo subiscono il dramma della vita come un meccanismo che li ha triturati. Certo, hanno compiuto scelte o hanno scelto di non compierle e adattarsi; quindi ora sono lì, hanno “un nome e un luogo” che li definisce e imprigiona, e lo sanno. È questo il dramma, anzi la tragedia: è però una tragedia che affrontano con orgoglio, con qualche scatto di ribellione misurata, ma spesso con rassegnazione. E, come la tragedia porta come rovescio il senso della “gaiezza che trasfigura tutto quel terrore” (Yeats), così occorre alleviare la pesantezza altrimenti insopportabile del tragico tramite lo strumento di trascrizione. Ecco come il narratore assume il compito del Buffone di Re Lear.

Ma come comportarsi di fronte a tanto senso del tragico? Bagnoli abbraccia la sua visuale con sguardo ricco di humanitas: niente cinismo ma anche niente morale e patetismo. La nota di leggerezza che Bagnoli sa dare alla pagina (si fatica a definirla ironia o umorismo) allontana l’insopportabile sguardo che, invece di abbracciare la tragedia con occhio asciutto, lo confina all’interno di un giudizio, una definizione, una reazione emotiva sia pur compassionevole. Ci si può immaginare Shakespeare che giudica Lear, Amleto o Antonio?

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