Vivere senza poesia – Intervista a Luca Rizzatello

 

Quando hai scritto “La fragranza vespertina del latte alle ginocchia” da quanto tempo eri in piedi? Sarebbe una forzatura rintracciare in questa lunga e avvincente storia degenerativa della osteoartrosi elementi autobiografici?

Eticamente parlando, sarebbe forse più corretto stabilire per quanto tempo io fossi stato seduto; in termini di autobiografismo: non posso negare che se le teorie dell’ereditarietà – dio non voglia – dovessero rivelarsi fondate, l’osteoartrosi potrebbe minare in futuro il mio celeberrimo buonumore. Nella fattispecie, La fragranza vespertina del latte alle ginocchia intende rivendicare il valore cruciale che riveste la narrativa d’evasione in questi tempi fatti di scadenze e di sensazionalismo; ed è proprio questo che volevo dire al mio lettore: la vita è fatta di compromessi, fa parte del gioco, ma in ogni momento della giornata ricorda che tu sei speciale, e che ci sono dei gesti quotidiani – poniamo la mungitura – che anche se la gente cool [mio il corsivo] considera “da sfigati” [mie le virgolette], in realtà sono importanti. Tanto per te quanto per la mucca.

 

Parlando di buonumore, mi vengono in mente il tuo pamphlet “Contro i coriandoli – l’infelicità è ancora possibile?” ed il suo sequel “O piangi o vomiti! – Il potere della scelta nella strategia del benessere postumo“. In qualità di esperto del tema, ti sarei grato se riuscissi ad offrirci maggiori delucidazioni sulle origini e le ragioni del detto: “ridi, ridi, che la mamma ha fatto gli gnocchi”.

Ogni libraio – nonchè ogni lettore forte (ed è interessante rilevare come la corrispondenza tra i due insiemi non sia necessariamente biunivoca) ­– sa che una parte assai consistente delle novità editoriali viene proposta al pubblico di giovedì; inoltre è assodato che i format orbitanti attorno alla divina arte della cucina siano come non mai una garanzia di successo. Elisabetta Migliavada (Direttore editoriale della narrativa straniera Garzanti), ha dichiarato che “È proprio questa la originalità del libro di Vanessa Diffenbaugh, simile per certi aspetti a quello che fece Joanne Harris con Chocolat, peraltro pubblicato da Garzanti, primo editore al mondo. La struttura e l’idea sono le stesse, cibo e amore da una parte, fiori e amore dall’altra, ma mentre con ‘cioccolato e spezie’ è nato un genere molto fortunato, il romanzo floreale è, per il momento, unico.” (tratto da ibuk.it, aprile 2012, a cura di Oddina Pittatore). Mi viene ora in mente che nella lingua inglese la parola che definisce ciò che noi chiamiamo ‘coriandoli’ sia confetti; il cerchio sembrerebbe chiudersi.

 

Dunque “coriandoli” come matrimonio tra immagine carnevalesca simbolica dello scherzo, della ragazzata, e spezia che dà sapore alla carne e, metaforicamente, alla vita. Questa tuo atteggiamento neo-rinascimentale nel bel mezzo della crisi postmoderna del contemporaneo evidenzia una attenzione quasi maniacale alla tua epoca. In tal senso, vedo il tuo “Le viole non sbocciano nei comignoli” come una invettiva di stampo ecologista in chiave civile, come una reinterpretazione, una rilettura ed un adattamento del Celentano de “Il ragazzo della via gluck” . È corretto?

I riti carnacialeschi nascono per esorcizzare l’apocalisse, ne fanno una parodia. Prima ho letto un articolo che riportava la storia di una coppia di coniugi che aveva stipulato un accordo prematrimoniale relativo alla pratica di pratiche sessuali estreme da consumarsi nei bei dì a venire. È andata a finire che al momento della separazione questo contratto si è rivelato non avere alcun valore legale, e il marito-padrone è stato denunciato dalla moglie-schiava per stalking e maltrattamenti. Quindi credo sia una questione di sfumature. Le viole non sbocciano nei comigli è un romanzo storico di rigido impianto tradizionale. Il fatto che il suo riscontro commerciale sia stato inferiore alle aspettative va ricondotto proprio a tale impostazione, al rigore filologico radicale in sede di composizione, alla rinuncia a qualsivoglia sconto o ammiccamento stilistico. E sì, la tua analisi è corretta; nella storia, nelle storie, non ci sono soltanto gli eroi, e quella di Mary Elizabeth (la protagonista del romanzo) è a tutti gli effetti la storia di una di noi. In altri termini, è come se la lezione del Celentano de Il ragazzo della via Gluck si fosse propagata retroattivamente.

 

Vivere senza poesia: un invito? una constatazione? una prova? una sfida? e il soggetto, poi?

L’analisi va condotta su più livelli. Vivere senza poesia, inteso come blog, si configura come un dispositivo retorico che si regge sul rispetto di un’unica costrizione: non è possibile comunicare al di fuori della superficie della copertina. La messa in atto di questo assunto produce inevitabilmente una sintesi dei contenuti di partenza, tanto sul versante verbale quanto su quello grafico; e le conclusioni che si possono trarre non sono distanti da quelle del conte di Montecristo calviniano. Perciò potrei dire che il registro ironico, o quello patetico, o quello erotico, non sono altro che degli strumenti a servizio del marketing, degli specchietti per le allodole; oppure potrei dire che la poesia Can vei la lauzeta mover di Bernart de Ventadorn è dedicata ad una allodola. Vivere senza poesia, inteso come stato esistenziale, è evidentemente possibile, per quanto mi riguarda; per ora rimane nell’alveo delle possibilità, ma non escludo possa accadere. Credo si dovrebbe dire questo agli amici in ascolto: si può amare la poesia anche senza sentirsi in dovere di pubblicare un libro. C’è una domanda la cui risposta risolverebbe molte questioni: la poesia potrebbe sopravvivere alla scomparsa dei libri? Bisognerebbe capire se il codice poetico sia geneticamente allergico alle dinamiche commerciali o se sia il sistema formazione-critica-premi letterari a determinare tale condizione.

 

Fuor di polemica, la tua ultima risposta mi è sembrata un modo di girare intorno alla questione evitando di dare una risposta. Sarò dunque più diretto e ti chiedo: ti sei o non ti sei liberamente ispirato a Marcella Bella per il tuo “Montaigne e Verdi”? Credi che il riutilizzo in chiave postmoderna di materiale appartenente alla tradizione, attraverso processi di mush-up, cut-up, blobbing, mixing e chirurgia estetica sia la causa o il sintomo della crisi del pensiero contemporaneo? Assieme al soggetto che si vuole oggi a tutti i costi assente, non rischia di scomparire anche il prodotto della sua mente?

Come Marcella Bella insegna, ho preferito lasciare che la vis polemica evaporasse nell’aria. Ai processi che molto puntualmente hai citato vorrei aggiungere il più recente genere glo-fi/hypnagogic pop, riferibile prevalentemente ad ambiti musicali e grafici; del tutto inconsapevolmente nel 2007 ho scritto un libro di hypnagogic poetry, ma questo l’avrei scoperto soltanto tre anni più tardi. Siccome vorrei evitare di girare intorno alla questione, farò due esempi, anzi tre. Il primo è la deformità fisica di Giacomo Leopardi, e il conseguente dilemma: ha essa (la deformità) influito sulla scelta delle tematiche sviluppate dal Nostro – ma anche sulla messa a punto della sua tecnica poetica –, oppure sarebbe limitante se non addirittura offensivo anche solo farsi sfiorare dal pensiero che essa possa essere stata una variabile significativa? Il secondo è la fotografia sulla quarta di copertina del libro dell’intellettuale tardonovecentesco-tipo che esprime con forza la debolezza del suo pensiero attraverso il grado di infeltrimento del suo maglioncino. Per essere più chiaro: il mio modello non è questo, ma questo. Il terzo è la conclusione del tuo saggio Il fenomeno comunitario nell’era della quarta dimensione: “È necessario mettere in discussione l’impostazione di una realtà iocentrica più che antropocentrica, per poter trovare e risolvere il punto di intersezione tra la vita in quanto reale e la vita come simulacro di se stessa. E il modo migliore per giungere a questo punto di intersezione, a questo nucleo da dove tutto ha inizio, è attraverso il linguaggio. La parola non operativizzata è la migliore ed unica tecnologia di cui disponiamo per raggiungere il nostro obiettivo: il cambiamento attraverso l’immaginazione: quel luogo dove l’uomo può esercitare senza timore la sua libertà, libero dal fascino e dal giogo del miracolo, del mistero e della autorità di cui parlava Ivan Karamazov a proposito del Gran Inquisitore” [http://www.anteremedizioni.it/files/file/saggio_di_LuigiBosco.pdf (mio il link)]. Quindi sì, rischia di scomparire il prodotto della sua mente in quanto emanazione del soggetto, ma anche e soprattutto il soggetto in quanto emanazione del prodotto della sua mente.

 

Dunque vivere senza soggetto pare non sia possibile o, almeno, non auspicabile – anche se, con il soggetto, verrebbero meno un sacco di problemi. Il punto, però, è che sia proprio questa, storicamente, la direzione: l’estinzione del soggetto e del suo pensiero. Il linguaggio pare non essere più in grado di generare lacanianamente soggettività. Però, se non è possibile comunicare al di fuori della superficie della copertina, come tu affermi, quali sono le possibilità che ci restano? La tua ironia “patetica”, come tu stesso l’hai definita, e la cui matrice mi sembra essere più vicina all’umorismo pirandelliano che al sarcasmo distruttivo postmoderno, è una critica del linguaggio e degli strumenti espressivi che personalmente apprezzo molto. La questione, però, è: come evitare che tale metodo critico si standardizzi e, standardizzandosi, diventi una posa non più in grado di spingere il discorso (il pensiero) al di là della critica che essa stessa propone?

Per spiegare la dinamica del desiderio Lacan introduce il concetto di logica della mancanza che, come si legge nell’enciclopedia Treccani, “si manifesta sia in modo negativo sul ‘registro’ reale (come compromesso nel sintomo) sia in modo positivo sul ‘registro’ immaginario (per es., nel sogno)”; tornando a noi: come uscire dalla bidimensionalità della superficie della copertina? C’é un espediente, al quale sarebbe riduttivo attribuire una funzione meramente commerciale: la fascetta promozionale. Che essendo ormai su tutti i libri, di fatto ha perso il suo valore originario di catalizzatore dell’attenzione/applicatore del principio di autorità; rimane in ogni caso un tentativo di sfondamento dello spazio, in grado di aprire un canale diretto con il – si spera –  lettore, oppure di attivare dei cortocircuiti intertestuali. Poi fuori dalla superficie della copertina c’é la polvere, e sotto c’é lo scaffale, ma non sempre. Il fatto é che il soggetto pensante deve occuparsi della sua dermatite, del bollo dell’auto, della lotta contro la forza di gravità, di cosa indossare per l’aperitivo; quindi, come fai notare tu, tutto sommato l’assenza del soggetto pensante eviterebbe in molti casi svariate seccature. L’altra sera una candidata al titolo di miss Italia é stata invitata dal presentatore a lanciare un appello, per convincere i telespettatori a votarla; il suo discorso si reggeva sostanzialmente su questi argomenti: 1. sono un persona semplice; 2. sono esattamente come appaio. Allora un giurato le ha chiesto ‘ti é mai capitato di percepire la tua bellezza come un limite?‘. Così ho pensato a due cose: 1. che c’é un platano il cui seme é stato piantato negli anni ’40, quando ancora la statale non c’era; se centrato ad una velocità sufficiente,  mettendoci pure un tempestivo intervento di chirurgia maxillo facciale, il limite della bellezza potrebbe manifestarsi in tutto il suo fulgore; 2. Il biologo Adolf Portmann nel 1956 ha scritto che “Gli esseri in rapporto con il mondo non sono solo macchine viventi, la cui attività é il metabolismo, in funzione del quale addirittura vivono. Essi sono soprattutto degli esseri che manifestano se stessi nella loro peculiarità senza che questa autopresentazione debba primariamente rapportarsi a degli organi di senso. […] Non abbiamo alcun motivo di considerare tali modi di autopresentazione come meno primari, meno determinanti ai fini del rapporto dell’organismo con il mondo che non i processi della digestione, della respirazione o della riproduzione.” (Le forme viventi, Adelphi). Quanto al patetico, esso é un carattere fondamentale della nostra tradizione, da Virgilio a Edmondo De Amicis, passando per Pietro Metastasio; ho l’impressione che ci sia stato un processo di rimozione, a vantaggio dell’ironia cinica, o dell’autoironia, una forma di elemosina per lavarsi la coscienza, ovvero una posizione di dominio raggiunta obliquamente. Nei tempi recenti accade anche che un fenomeno formalmente patetico, poniamo un primissimo piano della lacrima di un ciabattino ottuagenario di Buenos Aires che a distanza di settantacinque anni si ricongiunge con la sorella che non si é mai mossa da Viterbo, venga definito impropriamente come pornografico; e questo non fa onore né all’una né all’altra categoria.

 

Alla fine, comunque, il succo del discorso qual è?

Un personaggio chiave del mio romanzo La contea degli agopuntori ambidestri è il Professor Reyhnardt – celebrato dal mondo accademico per essere, tra le altre cose, albino e seguace di Caissa –, il quale, prima di infilare la testa nel forno, compone aleatoriamente un numero telefonico e al malcapitato sussurra:  ‘se la scienza è falsificabile, allora la menzogna deve essere espressa con metodo rigorosamente ascientifico’. Questo è quanto.


Luca Rizzatello è nato a Rovigo nel 1983. Nel 2005 fonda con l’artista Nicola Cavallaro il laboratorio Prufrock spa, producendo un album musicale (Albus, -a, -um) e videoinstallazioni per reading poetici. Dal 2004 è giurato e coordinatore del Premio letterario Anna Osti di Costa di Rovigo. Nel 2007 pubblica il libro Ossidi se piove (Valentina Editrice).  Nel 2008 entra a far parte della giuria del concorso di poesia bandito dall’Associazione Culturale Tapirulan, patrocinato dall’Università degli studi di Parma, e cura la raccolta antologica Grilli per l’attesa – Una riscrittura di Pinocchio (Valentina Editrice), versione libresca del progetto di riscrittura per ambienti Make it Happening, elaborato con frederico f. (Father MurphySt. Louis & Lawrence Books). Dal 2009 cura la rassegna Precipitati e composti, per la promozione del rapporto tra composizione poetica e composizione musicale. Collabora con il portale Poesia 2.0, con la rubrica tigre contro grammofono. Nel 2012 pubblica il libro mano morta con dita (Valentina Editrice), e fonda le Edizioni Prufrock spa.

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Luigi Bosco
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