Lettera aperta su minimalismo e conflitto di interesse – Navio Celese a Giorgio Linguaglossa

 

Caro Giorgio Linguaglossa

sto seguendo su Poesia2.0 il dibattito che si è alimentato con il tuo intervento sulla poesia di Milo De Angelis. Non sono sorpreso della piega che va assumendo. E’ certo che uno dei punti controversi e impliciti alla discussione riguarda il costume letterario. Le posizioni nel blog si stanno appassionatamente orientando pro/contro Milo De Angelis. La sua poesia c’entra poco. La cosa è più evidente ora che vengono messi in campo nomi importanti della critica facendo ricorso a una sorta di contundente principium auctoritatis. Prassi che non è estranea ai vari aspetti della società contemporanea: da quello della politica e dello sport, a quello della stampa e della cultura in generale. Pubblicare oggi non ha connotati molto diversi dalla scalata al potere di qualsiasi tipo. Sullo sfondo lo scambio solidale all’interno l’establishment (per esempio, la circolarità delle recensioni e dei premi letterari che creano fidelizzazioni oltre che blasoni e credenziali. Perché il blog non s’incarica di indagarne numericamente i circuiti per poi pubblicarne i risultati? Tante recensioni io a te, tante a debito verso me; tanti premi a te e tanti a me; qui in giuria io e là tu. Avrebbero più efficacia di qualsiasi dibattito critico. Benché il costume sia oggetto proprio della sociologia e non della critica).

Dunque, tu vai conducendo un’azione, valida e coraggiosa, per tentare di mettere in  discussione le storture della società letteraria nostrana. La tua indignazione però si presta facilmente ad essere scambiata strumentalmente per insulto e offesa; e quella dei tuoi sostenitori per invidia professionale. I testi e gli autori che analizzi sono piuttosto i nuclei emergenti dello stato di degrado creativo della poesia che tu scambi per stagnazione. Lo fai mettendoti in discussione, e a rischio di recriminazioni nell’ambito letterario. La tua scelta scoperta, frontale e indipendente, non è oggi di poco conto. Sei sicuramente dalla parte maggioritaria, ma meno protetta. E perciò condannato a una fatica mitica.

Provo a raccontarti quello che mi veniva in mente a proposito del dibattito in corso sul sito Poesia2.0. Sono le riflessioni di qualche giorno fa, ma te le ripropongo. Non parlerò del caso specifico, perché sarebbe riduttivo e poco interessante se non fosse per la foga degli interventi.

Anzitutto credo che non ci sia mai intima scissione fra l’atteggiamento dello scrittore di fronte alla pagina bianca, e la qualità della sua poesia. Chi, mentre scrive, ha per obiettivo l’editore, il successo, la carriera, le antologie, i repertori, i 740, ecc. ecc. e li assume di volta in volta a lettore ideale, mescola sottili veleni alla propria scrittura che prima o poi finiscono per intossicare il lettore; il quale in ogni caso se ne accorge a livello profondo; peggio se ne ha consapevolezza e finge (complicemente) di non badarci. Questa considerazione psicologica (o se vuoi moralistica), per quanto mi riguarda mi tiene alla larga da qualsiasi testo o un libro di poesia che seppure lontanamente mi faccia sospettare quell’atteggiamento che, come ben sai, non sfugge a chi si occupa di poesia. E’ una delle ragioni per le quali la mia diffidenza riguarda soprattutto le case editrici più smaliziate e sottoposte alle regole del mercato editoriale. Per inciso: il fervore polemico che attualmente sta investendo la SIAE e la sta rovistando, è un segnale di quanto contino gli interessi economici delle major. Se hai occasione, seguine gli avvenimenti, e vi troverai una chiave di lettura a molte delle questioni iperuraniche che andiamo dibattendo.

In effetti, la poesia italiana attuale è andata inevitabilmente ad assestarsi verso la stagnazione anche per ragioni che sono intrinseche al mercato e al suo sviluppo, senza dover fare riferimento alle grandi ideologie novecentesche che l’hanno contrastato (penso che in fondo pure Fortini ne sia stato complice debole o distratto. Forse si è rivelato più efficace l’assalto distruttivo di Sanguineti e della Neoavanguardia!). Sui ripiani delle librerie trovi tutto ciò che si può far circolare; che sia di cattiva o pessima qualità poco importa. Si fa ricorso a ogni genere di artificio, mantenendo sempre fisso nell’obiettivo l’acquirente (o il lettore) che viene braccato nelle zone profonde del suo narcisismo e vanità. Non sono neppure estranee le modalità dell’editing editoriale, ormai così diffuso, che sostituiscono l’autore con un feticcio diffratto e diffrangente che si riverbera surrettiziamente nel fruitore. Non a caso la poesia moderna ha un grande padre in Eliot, la cui poesia in origine è stata oggetto dell’etiting portentoso di Pound; o come lo vogliamo chiamare? Ce ne siamo dimenticati?

A ben vedere, una concausa genetica del minimalismo (estenuata estremità editoriale della Linea Lombarda) che tu combatti, risiede secondo me da esigenze di diffusione oltre i miseri confini  nazionali della poesia e della nostra letteratura in generale. Tradurre i grandi lirici è pressoché impossibile, ci arrangiamo; salvo coloro che scrivono di proposito in un esperanto letterario. La poesia minimalista si può tradurre in morse e in signuno, senza eccessiva dispersione di senso. Inoltre il minimalismo consente all’autore-poeta di “esercitarsi” in maniera canonica, evitando facilmente “errori” sia linguistici che stilistici; oppure di dovervi impegnare faticosamente il mestiere e il talento o assumersi l’obbligo di produrre alcunché di originale. E’ sufficiente disseminare di figure retoriche quel poco di pensieri grossolani, banali o astrusi per rendere la lettura criptica e suggestiva; il lettore è appagato (o stordito) dai cunicoli di non-senso che deve contribuire a colmare di significato, come in una tavola enigmistica; e è per di più lusingato dalla facilità di imitazione del modello o prototipo; si esalta, già pronto all’emulazione perché affascinato dalla possibilità di segmentare la scrittura in versi. Diciamocelo pure, in fondo il minimalismo non è altro che la reiterazione memetica oltre che un metodo e una modalità di scrittura poetica! Ecco allora la pletora degli scrittori di poesia che ci assedia e soffoca. E che contribuisce a  mantenere in piedi alcune case editrici autoctone che non vanno per il sottile o le loro collane di poesia. Il minimalismo riveste uniformemente i poeti di tute mimetiche, indistinguibili nella notte della poesia. Il lettore può scegliere a caso e riconoscersi; il critico può dirne ciò che vuole e farsene egemone, occupando uno spazio non suo e ribaltando il ruolo poeta-critico in quello di critico-poeta con la prevalenza, infine, delle poetiche sulla poesia (altra innaturale e perniciosissima scissione/inversione che molti s’ostinano a non riconoscere, forse perché si presta poca attenzione ai meccanismi profondi messi in gioco durante la scrittura in fieri. Guai ai compiti in classe! Il testo poetico è sempre accompagnato da una poetica. Tuttavia il grado di consapevolezza e ingerenza di questa produce il passaggio della poesia alla scrittura poetica e quindi a una tecnica di scrittura che ha visto sorgere addirittura scuole di scrittura. Invece la poesia autentica di solito è inversamente proporzionale alla cogenza della tecnica. Come in una sorta di principio di indeterminazione più la poetica è vicina al suo oggetto, più la poesia se ne allontana (perdonami l’uso semplicistico di queste categorie, ma è per intendersi prima e meglio). Ecco perché a volte, dopo i primi libri di ottima poesia, seguono imitazioni degli stessi da parte dell’autore: la poesia si è trasformata in tecnica poetica a disposizione degli epigoni e degli imitatori (i molti). Qui sta davvero lo snodo etico piuttosto che estetico della poesia attuale. Siamo nel campo della riproducibilità tecnica e del mercato (all’interno del quale è contenuta l’antinomia scrittura aggettivale/ scrittura sostanziale). Il minimalismo è l’estremizzazione della tecnica letteraria, tanto da condurci alla stagnazione, senza via d’uscita. Il minimalismo, all’osso, è una tecnica letteraria! I manifesti-cordata hanno sostituito la produzione di massa – funzionale sia all’editoria che alla critica alla genialità-libertà del singolo. Non è un caso che siano stati sempre i ragazzi e gli sventati a provocare le grandi svolte storiche in poesia e in letteratura.

Il minimalismo offre per giunta molte opportunità lassiste di giudizi arbitrari nei premi letterari proprio per il livello di indistinzione qualitativa che propone. Potrà confermarlo senza paura di smentita chi ha fatto parte di giurie e spesso ha dovuto assistere a pratiche sconcertanti; le cui estremizzazioni scandalistiche vengono – estemporaneamente e sommariamente – alla luce sulla stampa. In questi casi, si tratta di estetica o di etica, in letteratura e in poesia? Di quanti premi letterari si è occupata la stampa negli ultimi tempi mettendo in luce la corruzione intellettuale che vi si era accampata? Tuttavia diamo per scontate e accettiamo supinamente molte di queste liturgie e coreografie. Larga parte della critica ne ha grandi colpe quando ha accettato di non essere indipendente; di assumersi un ruolo promozionale o di ufficio stampa; di aver privilegiato la poesia “senza qualità” per poterla poi egemonizzare e trasformare lo stile in style e il testo in capo griffato o in una suppellettile trendy. Si ripropone così l’ovvia e reiterata domanda di come mai filtrano nelle case editrici di peso, poeti mediocri, supportati dai rating eccessivamente benevoli della critica “di caratura” ? La questione contiene poi almeno due altre dicotomie discriminatorie sintetizzate nelle contrapposte opzioni Nord/Sud, Città/Campagna, di cui Milano è sintesi e paradigma. E inoltre: può certa critica professionale scrivere obiettivamente – e stroncare quando è doveroso – un libro e un poeta nullo o inconsistente se è stato pubblicato da una casa editrice con la quale si hanno impegni collaterali o che si teme? Non c’è un obiettivo conflitto di interessi fra critico e autore/editore? Quello che più angoscia è il fatto che quasi tutti siamo coscienti dello stato di degrado della letteratura ma siamo altrettanto impotenti. Non è possibile mettere in campo delle proposte che non provochino reazioni e conflitti, piuttosto che soluzioni ragionate.

Dunque, caro Linguaglossa, a me sembra che in fondo tu non stia discettando della buona o cattiva poesia – se ha ancora un senso farlo – ma sostanzialmente del cinismo autofago della società letteraria che si sta consumando nella propria digestione acida. Lo fai però con gli strumenti eterogenei della critica filosofica e ideologica. E’ necessario a questo punto che tu ti convinca che si tratta di ben altro e lo espliciti, perché il dibattito si svolga sul piano di pertinenza; che mi sembra essere semmai quello del costume letterario di cui i testi sono solo i sintomi, e le recensioni i referti. Lasciamo strare quindi le proposte per il futuro e l’eternità; a quelle ci penserà il tempo implacabile che corroderà i cartigli o li dissolverà in polvere appena riesumati da qualsiasi teca in cui vengono mantenuti sterili. Fai invece bene ad avventurarti nella palude per dare coraggio ai dispersi e ai disorientati.

Ciao, Navio Celese

Giorgio Linguaglossa
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15 Comments

  • Ringrazio Roberto Russo per le sue parole lusinghiere. Sono d’accordo con la sua nota polemica rivolta a certi lettori negligenti che non comprendono la logica interna di una poesia e dunque credono che tutto sia permutabile. Ma a loro sembra così proprio perché non la comprendono!
    E ripropongo la lettura della poesia di Milo De Angelis a cui Russo accenna nel suo ultimo intervento.

    Scrivendo “il citofono chiede ancora la tua voce”, De Angelis vuole sottolineare la forza imperativa degli oggetti che ci chiamano a sé e ci chiedono di parlare. E’ un tema frequente in questo autore. De Angelis ha ripetuto più volte che gli oggetti amati, le strade e i luoghi amati esigono la nostra parola, quella che sa nominarli con esattezza. Solo così riprendono ad esistere.
    Ora, tutta la poesia in questione è attraversata da questa esigenza. Rileggetela (la riporto alla fine di questo mio intervento) e vedrete che si tratta di un ritorno. C’è qualcuno che ritrova una strada del suo passato e scorge un portone dove era avvenuto qualcosa di essenziale, qualcosa di felice che ha lasciato una traccia (“La luce parlava. Sulla tua fronte/il prodigio”). E’ sera, la strada è deserta, si vede solo la luce fioca del citofono. Il ricordo si fa vivo. Appaiono dei gesti e dei colori: “un vestito,/i gialli, gli azzurri,/un colletto”. Tutto gli domanda di restare, di afferrare meglio quei frammenti di e quei richiami di un’altra stagione. E tutto gli impone di parlare (“Il citofono chiede ancora/la tua voce. Se non parli, / tutto si oscura”).

    E lui davvero sente che quel citofono “pretende” la sua voce. Altrimenti dominerà la solitudine: “solitudine saliente/solitudine innata”. Altrimenti i corpi incontreranno il nulla: “congiungersi/ dei petti nel nulla”. La parola è l’unica via. Quel citofono l’attende. L’unica via per ritrovare la terra è la parola, che gira insieme a lei: “stretta alla terra/ruota la parola”. Bisogna fermarla e pronunciarla perché il tempo perduto si riaffacci.

    E’ una poesia, in fondo, semplice. Segue una sua logica, che non è quella del discorso comune, ma esiste e viene condotta fino in fondo. Afferrando il filo di questa logica e fermandosi con cura su ogni verso, sarà possibile comprenderla ed entrare nella scena che ci viene presentata.

    “La luce parlava. Sulla tua fronte
    il prodigio. La nudità
    di tutto il sangue. Un vestito,
    i gialli, gli azzurri,
    un colletto. Il citofono chiede ancora
    la tua voce. Se non parli,
    tutto si oscura. Solitudine saliente.
    Solitudine innata. Congiungersi
    dei petti nel nulla. Stretta alla terra,
    ruota la parola”.

    da “Quell’andarsene nel buio dei cortili”, ed. Mondadori, 2010, pagina 55

  • Leggo in ritardo la discussione sul minimalismo e su Milo De Angelis, poeta che ho frequentato con una certa attenzione. Mi ha colpito la volgarità intellettuale di Laura Canciani. La quale, per dimostrare il suo odio, prende una poesia di De Angelis e la cambia a modo suo. Ma il modo di De Angelis (come ha dimostrato per filo e per segno Nicola Borletti) ha una necessità molto seria. Quello della Canciani è gratuito e ottuso. Assomiglia, appunto, a Laura Canciani.

    Roberto Russo

  • Milo De Angelis, a mio parere, non riguarda il minimalismo né romano né milanese. E’ lontanissimo da Zeichen, Cucchi, Magrelli. I suoi pregi e i suoi difetti vanno cercati altrove. De Angelis viene dall’emisfero opposto, ossia da una sorta di massimalismo esasperato, con domande che sono sempre puntate al limite. La presenza di Zarathustra – e in generale del titanismo tragico di ascendenza tedesca – attraversa per intero un libro come “Distante un padre”. E’ un libro di svolta, quest’ultimo, dopo un esito a mio parere poco felice come “Terra del viso”. E’ un libro-universo. Un mondo intero in subbuglio che cerca quiete. E non può trovarla. De Angelis mi appare qui un poeta senza pace, un’anima impazzita.

    Ma non c’è solo Nietzsche in lui, per fortuna. C’è anche l’anima russa. E l’anima russa conosce l’epica. L’anima russa si dilata. Conosce la vastità di Pierre Bezuchov e del dottor Zivago. Conosce l’ampio respiro dell’epica. Tanto Nietzche è verticale, quanto l’anima russa è smisurata. Se “Distante un padre” suona febbrile, “Biografia sommaria” suona russo, con gli andanti di Rachmaninov. Qui la furia si placa e si spiega. Qui entrano in scena i personaggi, la terza persona singolare, il racconto di Donatella De Giovanni, della tenera melò, della saltatrice ferita, di Nadia Campana. Qui si entra nel compatto, nel rallentamento, nel dramma seguito passo dopo passo (“Cartina muta”) e non più gridato nei suoi vertici o nei suoi sotterranei. No, piuttosto accompagnato con il fiato sospeso, pedinato metro per metro (“L’unica data”). “Distante un padre” era un poema della montagna, per citare una poetessa cara a De Angelis. Partiva dalla nota più alta e non scendeva, puntava ancora più in alto, tra picchi e baratri, rupi e capogiri, cadute a precipizio e voli disperati. “Biografia sommaria” riprende invece la tradizione realista di Lermontov, Turgenev, Goncarov, tutti figli di Puskin.

    “Biografia sommaria” è forse il libro di De Angelis che amo di più. Mi piace anche “Distante un padre”, ma lo temo: è un gorgo, fa paura. Non amo invece il suo antenato “Millimetri”, libro fermo e impenetrabile, che può avere dei bei versi qua e là, ma rimane un masso oscuro. Ed ecco “Tema dell’addio”. Pochi l’ hanno capito. Non è una storia personale, ma è un libro del distacco, di ogni distacco. O meglio: può partire da una vicenda biografica, ma dopo un attimo sentiamo che non è quello l’essenziale ed entriamo nel mondo dei morti e di quelli che hanno perso anche la morte. “Tema dell’addio” è un’elegia che diventa cosmogonia, un compianto che diventa la natura delle cose. Virgilio e Lucrezio insomma. Che poi sono i due classici più letti e tradotti dal poeta milanese. E’ vero però che “Tema dell’addio” ha una nota dominante, una nota che rimane sempre quella per tutto il libro: è monotono, nel senso etimologico del termine. Invece “Quell’andarsene nel buio dei cortili”, lo sappiamo, ha una musica più varia. E’ il libro delle ombre che vanno in tante direzioni e si spargono lungo le tangenziali

    Sottrarre Milo De Angelis allo schematismo. Questo credo sia il compito più importante di un critico, ma anche di un lettore comune. E d’altronde ogni suo libro si sottrae da solo alle sigle riassuntive. O comunque tenta seriamente di farlo, anche quando non ci riesce per intero (“Millimetri”, “Terra del viso”). La poesia di De Angelis è un mondo e per entrarvi occorre fare un lungo cammino, con l’equipaggiamento giusto e la mente sgombra. Rinchiuderlo in formule come “nostalgia”, “minimalismo” o “sproblematizzazione” (questa poi!) è la strada più facile, certo, ma è anche la via maestra per non comprenderlo.

    Marco Azzolini

  • a proposito delle «polpette» e delle «uova sode»

    … a proposito delle «polpette» e delle «uova sode» di cui è fatta tanta poesia contemporanea, da Zeichen a Magrelli, e alla «realtà immediata» (l’empiria) dei poeti lombardi, che dire? Sono cibi di plastica cotta, messa in cottura in un forno a micro onde. Anche la poesia di un De Angelis è fatta in un forno a micro onde. Ci metti dentro delle parole (dispari) e tiri fuori una composizione precotta, anzi, cotta a puntino mediante l’asintattismo, la asimmetria, la «dis-metria» (come dice Linguaglossa). Insomma, si tratta di una merce. E di una religione. Della religione della merce con sopra scritto il prezzo di copertina. Tanta più «religione» quanta più «stilizzazione» c’è stata messa dentro.

    In definitiva, come ha ben scritto Navio Celese, sono poesie replicabili, imitabili, clonabili all’infinito (e crdo di averlo dimostrato riscrivendo una poesia di De Angelis usando le sue stesse parole ma cambiandole di posto all’interno dello stesso verso).

    E poi c’è la nuova religione della poesia che va di moda presso le giovani generazioni femminili! un disastro, un vero cataclisma: da qeusto punto di vista Mariangela Gualtieri e Jolanda Insana sono speculari, l’una sostiene indirettamente l’altra; lo sperimentalismo (senza esperimento, senza verifica) dell’una sostiene lo sperimentalismo (del cuore e dell’anima) dell’altra.

    Con la critica di Linguaglossa siamo di fronte ad una guerra (tutta privata e pubblica, e quindi politica) che il critico ha deciso di fare al «minimalismo», intendendo in questa categoria qualcosa che esula dallo stile letterario ma che invece la sostanza gassosa di cui è rivestito il pianeta sul quale poggiamo i piedi. Il «minimalismo» per Linguaglossa è una sostanza interamente gassosa, è il nuovo modo di essere della forma-merce con cui si danno tutte le merci culturali (e non solo); è quel tegumento, quel rivestimento che rende riconoscibili tanto il design delle calzature femminili quanto la gestualità minimale del presidente del consiglio Mario Monti. L’ostilità del critico romano verso il minimalismo ha ragioni politiche (ma non nel senso di una politica intesa nell’accezione comune!). Si può non condividere la sua impostazione ma bisogna riconoscergli una grande coerenza di impostazione.

    Analogamente, con la poesia di Linguaglossa siamo davanti a qualcosa che obbliga il lettore ad arrestarsi, a fermarsi, a concentrare la sua attenzione sul testo. Il testo è qualcosa che non si offre, non si dà alla mercè della «merce», ma resiste nella sua immobilità, come una natura morta. Ha qualcosa di inesplicabile, in un linguaggio cifrato che nasconde un interrogativo; non lo dà gratis, il lettore, se vuole, lo deve cercare, lo deve scoprire. Sempre se lo desidera. La poesia è lì, immobile e attende, punta sul tempo in una attesa dis-sperata che verrà un tempo (messianico?) in cui celebrerà il proprio «lutto».

    Laura Canciani

  • Linguaglossa è sempre assai stimolante e bisogna ringraziarlo di questo. A volte si compiace di parlare deliberatamente astruso e in rarissimi casi perfino incomprensibile, ma nessuno è perfetto. Quello che colpisce è la sua passione, il suo fuoco, l’integralismo che è (quasi) sempre dei novatori. A me sembra che la sua funzione (nel pezzetto di ministoria della letteratura nella quale ci troviamo incagliati come microbi nel fondo d’un bicchiere mal lavato) sia con tutta evidenza quella dello squassatore, del rompiscatole (in senso buono)… insomma del provocatore.
    Poiché difetto purtroppo dello spirito rivoluzionario non riesco a condividere i suoi furori, nondimeno ne sono affascinato e in parte ne condivido i motivi.
    Giustamente Linguaglossa si rivolge ai poeti, e non ai lettori. Il lettore avrebbe tutto il diritto di dirgli “Ma se mi piacciono Tizio e Caio, tu che vuoi da me?”, il poeta invece deve pur chiedersi se, indipendentemente dai tanti o pochi consensi, la sua direzione è giusta, o almeno coerente, o almeno ragionevole.
    Il nemico di Linguaglossa è il minimalismo, in un’accezione più ampia di quella specifica letteraria. In un certo senso la sua battaglia è politica, perché i mulini contro cui si batte non concernono solo la poesia, ma il costume.
    Un costume che ha visto dilagare in rete la poesia con inusitata ampiezza ma a tutto discapito della profondità.
    Un costume mai come ora permissivo. Un aneddoto divertente su Vincenzo Cardarelli è che una volta un amico, che l’ospitava e che praticamente in quel periodo lo manteneva, osò dopo lunghe titubanze mostrargli qualche sua poesia. Pare che dopo averle lette Cardarelli intimasse all’ormai ex amico di tornare a dargli del lei. Voglio dire che una volta “fare” il poeta era un serio e alto lavoro (certo, anche questo è mito, ma mi serve per schematizzare) e oggi è invece, più che altro un hobby assai diffuso. E il minimalismo è necessario perché mica tutti hanno fiato e pensiero per scrivere in grande! Il punto sul quale divergo nettamente da Linguaglossa riguarda le sue conclusioni: “l’unico modo per uscirne, a questo punto, è rompere il giocattolo, sfasciare tutto, affossare tutto ciò che deve essere affossato, mandare a picco il Titanic con tutti i suoi ospiti ossequiosi e insignificanti.”
    Sempre sempre sempre nella storia (e non solo in quella della letteratura) chi voleva romper tutto ha finito per rompersi da sé. Il loglio si separa dal grano solo al tempo della mietitura e dubito che perfino Linguaglossa possa essere il Grande Mietitore.
    L’unico minimalismo che m’accomuna agli odiati minimalisti è questo: la fede nel grano (che, pur mischiato a soverchianti quantità di loglio, c’è, esiste), l’indifferenza per il successo confezionato dagli editori (che è poi come dire l’indifferenza per il successo tout court), la consapevolezza che il lavoro del fare poesia quando è serio è un lavoro diligente e faticoso. Un lavoro che si intesse di poetica “in faciendo” e attraverso il confronto parietico e non presuntuoso con i più bravi. Io spero che il Titanic non affondi, anche perché penso che moltissimi dei suoi “ospiti ossequiosi e insignificanti” prima o poi capiranno che “andare a caccia di cervi” -come diceva quel signore – e più divertente del fare poesia.
    Poi resteranno i quattro fessi che scrivono sapendosi bravi e vivendo ogni giorno il disagio di non essere geni.

  • Gent.mo Nicola Borletti,

    non vorrei apparire quale stroncatore della poesia di De Angelis, perché non lo sono, nel passato ne ho scritto in termini positivi e problematici (ma nessuno si è accorto che anche nei primi articoli di 20 anni fa io indicavo alcuni nodi irrisolti o che si avviavano a diventare delle congiunture stilistiche) e nell’ultimo articolo (quello che ha causato una grande discussione) ho definito la sua poesia di «indubbia caratura». Quindi vorrei precisare che non faccio mai personalismi né mi interessano le persone fisiche che ci sono dietro i testi. Quello che voglio dire è che questa poesia così ricca di asintattismi, di pars pro toto, di dettagli con salti logici e sintattici, con inversioni e abbreviazioni iperboliche (i gialli, gli azzurri, il citofono che chiede la voce, etc.), dopo 40 anni di attività ha dato i suoi frutti e che possiamo tranquillamente voltare pagina. Non si può più scrivere alla maniera di De Angelis perché è diventata una maniera, una procedura ben oliata, una tecnica quasi automatica. Il mio articolo e i miei successivi commenti volevano risvegliare le intelligenze su questo problema, che per questa via si imbocca un vicolo cieco, che la poesia italiana deve (se vuole sopravvivere) svoltare per un’altra strada e avere il coraggio di percorrerla fino in fondo. Fare come hanno fatto i miei detrattori (che hanno tentato di coprirmi di epiteti non proprio signorili perché avevo rotto il vaso di Pandora) i quali hanno citato tutto il Gotha della critica sulla poesia del Nostro, mi è sembrato scorretto (come bene ha indicato Navio Celese) mi è sembrato reclamare il “principium auctoritatis” delle celebrità della critica italiana. Posto questo preambolo, il succo del mio discorso è molto semplice, e l’ho detto chiaramente: c’è bisogno in Italia di cambiare registro stilistico, cambiare strada, cambiare il punto di vista dal quale si guarda alla poesia italiana. Non credo di aver pronunciato anatemi o eresie rivolte ad alcuno, ho tentato di rimanere sul piano del ragionamento oggettivo e della riflessione critica. Quella tecnica, quella procedura di De Angelis è facilmente replicabile, clonabile, riattuabile come ha dimostrato la riscrittura di parte di quella poesia fatta da Laura Canciani, e questo è un segnale molto negativo della bontà e autenticità della poesia deangelisiana degli ultimi due decenni: che essa è diventata, presso gli epigoni, replicabile, che ha esaurito la sua funzione propulsiva.

    RIPORTO IL COMMENTO di Laura Canciani del 15 settembre 2012 09:29

    Caro Giorgio Linguaglossa,

    ti prendo in parola: ho impiegato due minuti a clonare variandola la poesia citata da Borletti:

    (versione di Milo De Angelis)

    La luce parlava. Sulla tua fronte
    il prodigio. La nudità
    di tutto il sangue. Un vestito,
    i gialli, gli azzurri,
    un colletto. Il citofono chiede ancora
    la tua voce. Se non parli,
    tutto si oscura. Solitudine saliente.
    Solitudine innata. Congiungersi
    dei petti nel nulla. Stretta alla terra,
    ruota la parola.

    ecco la mia riscrittura:

    Il buio parlava. Il prodigio
    sopra la tua fronte. Un vestito
    di tutto il sangue. La nudità,
    gli azzurri,i gialli,
    un bottone. La tua voce chiede ancora
    il citofono. Tutto si oscura
    se parli. Solitudine innata .
    Solitudine saliente. Congiungersi
    del nulla sui petti. Ruota alla terra,
    la parola stretta.

    Laura Canciani

    *

    un tale Daniele Barbieri,

    va fantasticando di “critica prescrittiva” e di “giusto o sbagliato” quali categorie presenti nella mia prosa critica… ovviamente Barbieri (e un tale Teo che lo cita) è libero di fantasticare intorno a sue supposizioni e sue elucubrazioni che nulla hanno a che spartire con i testi dei miei commenti critici. Tra l’altro, il Barbieri, se avesse cognizione di corretta metodologia critica, dovrebbe citare uno o più brani quali exemplum di “critica prescrittiva” e poi fare le sue osservazioni critiche.

    Caro Barbieri, non so se lei ha studiato all’università (e in quale università) come si scrive in prosa critica: un discorso metodologico corretto lo si fa citando uno o più brani dell’interlocutore e tentando di dirimerne le contraddizioni interne al testo critico preso in esame, non mettendo in bocca al nostro interlocutore locuzioni che questi non ha mai profferito.

    Io non ho mai parlato di poesia «giusta» o «sbagliata», queste sono sue semplificazioni e sue mistificazioni di quello che è il mio pensiero critico (mi creda, un po’ più complesso).

    Per quanto riguarda le sue superficialissime considerazioni su Adorno, faccio cordialmente notare al Barbieri che sta cianciando di uno dei maggiori filosofi del Novecento che ha scritto tre tra i massimi volumi del pensiero del secondo Novecento: «Minima moralia», «Dialettica dell’illuminismo» e «Teoria estetica», libri editi da Einaudi. Non perdo tempo ad occuparmi delle altre sue paralogie perché inquinate da pressappochismo, falsificazione di tesi altrui e rozzezza di argomentazioni.

    Per quanto riguarda la contrapposizione Fortini De Angelis, lascio a Barbieri questa rozza semplificazione di cui nei miei scritti non c’è traccia alcuna, le cose sono un po’ più complesse di quelle che è in grado di recepire il limitato cervello di questo signore.
    Per quanto riguarda le banalità del Barbieri sulla questione dell’«autenticità-inautenticità», beh non ho nulla da aggiungere.

  • Gent.le Giuseppe Angilletta,

    lei coglie un punto centrale quando dice:

    «se tutto è minimalismo, se il minimalismo è la cornice e il quadro, se l’essenza della nostra epoca è data dal minimalismo, se non si può sfuggire in alcun modo al minimalismo, a che pro fare una opposizione ad esso così dura e senza speranza di successo alcuno?»

    Proprio qui sta il punto: è che io non voglio avere alcun successo; so benissimo che le mie posizioni critiche non hanno alcuna possibilità di successo, ma cionondimeno io, in qualità di essere pensante, ho l’obbligo (davanti alla mia coscienza) di esprimere il mio pensiero nel modo più chiaro possibile anche se ciò mi alienerà la simpatia dei minimalisti e dei poteri forti ad esso connessi. Poi Lei mi chiede:

    «in queste condizioni, ha senso fare una opposizione al minimalismo?».

    In queste condizioni l’unico “senso” è quello che io dò a me stesso. Anche se tutti gli altri sette miliardi di esseri pensanti aderissero al minimalismo ed io soltanto seguissi da solo l’opposizione ad esso, ebbene, continuerei a fare la mia critica al minimalismo alla stessa stregua. Il pensiero critico non è qualcosa che può essere messo sul banco dei pegni, è una testimonianza, una testimonianza che un giorno di qui è passato l’homo sapiens sapiens.

    a Luigi Bosco,

    io non ho mai parlato di «poesia vera», ché sarebbe un atto di ingenuità da parte mia se lo avessi fatto… e non posso neanche parlare di «poesia per me», perché così cadrei nella Babele dei soggetti empirici che tutti si equivalgono perché tutti insignificanti. Io esercito la mia critica su una cosa che «è», esiste nel mondo, è un «ente», è qualcosa di oggettivo che ha un suo valore o disvalore (al di là della mia esistenza o inesistenza come “me” empirico).

  • …ma… vorrei chiedere a Giorgio Linguaglossa e a Navio Celese:

    1) se tutto è minimalismo, se il minimalismo è la cornice e il quadro, se l’essenza della nostra epoca è data dal minimalismo, se non si può sfuggire in alcun modo al minimalismo, a che pro fare una opposizione ad esso così dura e senza speranza di successo alcuno?

    2) in queste condizioni, ha senso fare una opposizione al minimalismo?

    • che è un po’ come dire, caro Giuseppe:

      se in tutta europa c’è il nazifascismo, essenza dell’epoca, da cui non si può sfuggire, a che pro opporsi?
      o anche
      se in tutta europa ci fregano i soldi e ci fanno morire di fame, a che pro manifestare?

      Ora, mi rendo conto che il paragone è assolutamente fuori luogo e, scanso equivoci, confermo che non sono convinto che il minimalismo sia il nazifascismo e non sto affermando che Abate o Linguaglossa siano dei partigiani. Restiamo calmi. Era solo per rendere l’idea dell’assurdità che ho provato leggendo il tuo messaggio, Giuseppe.

      Però mi riaggancio al tuo spunto, e chiedo (richiedo in realtà una cosa che già ho chiesto nell’altro dibattito): perché parlare di poesia giusta? perché parlare di poesia vera? perché non limitarsi a parlare semplicemente di poesia, magari “poesia per me”?

      Luigi B.

  • @ Ennio Abate.

    vorrei precisare che non c’è nessuna volontà da parte mia di “demonizzare” il minimalismo. Che il minimalismo sia una corrente letteraria ma non solo letteraria che lo si ritrova in ogni ambito del nostro mondo, credo non ci sia ombra di dubbio: nella Moda, nel Marketing, nell’architettura, nelle arti figurative, addirittura nei modi e nei costumi del quotidiano, nel linguaggio corrente, nei modi di dire e di fare, nel linguaggio degli sms etc. detto questo, poiché esercito la funzione di critico di testi di poesia non posso che esercitare la mia analisi critica che su dei testi di poesia, ma di qui a dire che indico il minimalismo come il responsabile dei mali della società contemporanea ne passa! Diciamo che in termini marxiani il minimalismo è una sovrastruttura (addirittura anche i comunicati dell’ufficio stampa del Vaticano risentono dello stile del minimalismo!); addirittura il Presidente del Consiglio Monti è un esemplare semiotico straordinario del minimalismo dell’età della recessione! Posto in chiaro dunque che si tratta di una sovrastruttura, nella mia qualità di critico non posso che esercitare una critica del minimalismo ben sapendo che si tratta di una sovrastruttura e che si tratta di una sovrastruttura epocale! cioè a dire, invasiva e totalizzante. Certo, andare contro corrente non è facile e mi espone a incomprensioni, a resistenze testarde e a vere e proprie avversioni da parte di chi non comprende che la mia ottica è diametralmente opposta al minimalismo, vuole cambiare il minimalismo per cambiare una sovrastruttura.
    Per cambiare la struttura del Modello Unico del capitalismo occidentale… beh, la cosa è un po’ più grande di me e una formica non può certo spostare una montagna…

    Vorrei precisare poi che oltre a esserci un conflitto d’interesse tra i critici degli uffici stampa a tempo pieno e a tempo parziale degli editori più rappresentativi e gli autori pubblicati da quei medesimi editori, si verifica anche il fenomeno ben più grave della COLLUSIONE D’INTERESSI paralleli e convergenti quando il regolo, la misura dell’interesse individuale è fornito dalla speranza di poter un giorno pubblicare con quelle case editrici maggiormente rappresentative. Ciò stante, nessuno infatti oggi si perita di stroncare opere mediocri pubblicate da certi editori forti per non inimicarsi quelle fonti eventuali e futuribili. Questo che dico è autoevidente e coinvolge anche i cd. critici accademici e non.
    Nella mia veste di critico indipendente ho citato non pochi nomi di poeti (morti e viventi) che ritengo di grande valore ma che non sono mai stati pubblicati dagli editori maggiormente rappresentativi. Perché? Ma probabilmente perché non scrivono alla maniera degli allineati al minimalismo…
    Come è noto, l’istituzione letteraria (come qualsiasi altra istituzione) è elitaria al massimo grado e funziona per cooptazione e affiliazione.
    Così il cerchio si chiude, il cane si morde la coda. Chi non si adegua (stilisticamente) resta fuori.

    giorgio linguaglossa

  • Segnalo che la Lettera di Navio Celese a Giorgio Linguaglossa viene discussa anche sul blog Moltinpoesia a questo link:

    http://moltinpoesia.blogspot.it/2012/09/navio-celese-giorgio-linguagloss.html

    e solo per stavolta copio qui, su Poesia 2.0, la mia prima riflessione-commento su di essa:

    Ennio Abate:

    Per punti:

    1.« Sullo sfondo lo scambio solidale all’interno dell’establishment (per esempio, la circolarità delle recensioni e dei premi letterari che creano fidelizzazioni oltre che blasoni e credenziali). Perché il blog non s’incarica di indagarne numericamente i circuiti per poi pubblicarne i risultati? Tante recensioni io a te, tante a debito verso me; tanti premi a te e tanti a me; qui in giuria io e là tu. Avrebbero più efficacia di qualsiasi dibattito critico» (Celese).

    Non siamo un blog che ha informazioni dirette dagli ambienti editoriali, giornalistici e accademici che curano la macchina delle recensioni o dei premi letterari. Se qualche “talpa” fornisse notizie documentate, non esiteremmo, dopo averle valutate, a pubblicarle e a ragionarci su. Né abbiamo le forze sufficienti per svolgere vere e proprie inchieste su questo o altri temi.

    2. «Le storture della società letteraria nostrana» ci accompagnano da secoli. Sono storture politiche ed è bene sapere che non le possono correggere dei singoli per quanto coraggiosi e con idee chiarissime. O si riforma un movimento politico che investa al contempo queste e quelle generali o si è condannati i più a sopportarle e qualcuno a mettersi sulla strada dei Robin Hood, dei don Chisciotte, delle anime belle, dei bastian contrari, dei testimoni impotenti, degli *indignados”. È bene saperlo e dirselo.

    3. È semplicistica, moralistica e manichea la distinzione che Celese fa tra «chi, mentre scrive, ha per obiettivo l’editore, il successo, la carriera, le antologie, i repertori, i 740, ecc. ecc. e li assume di volta in volta a lettore ideale» e un idealistico scrittore che non ha alcuno di questi obiettivi ma scrive – che so – per il solo gusto di scrivere. Ci sono pratiche di scritture che rientrano in pieno nelle regole del mercato editoriale e pratiche che ne sono ai margini. Tra i rappresentati di questi due mondi ci sono contrasti reali, ma anche intrecci altrettanto reali e “attrazioni” reciproche (spesso “fatali”!).

    4. Se « la poesia italiana attuale è andata inevitabilmente ad assestarsi verso la stagnazione » non è *solo* « per ragioni che sono intrinseche al mercato e al suo sviluppo», ma anche a causa del disfacimento delle forze sociali e e politiche che quel mercato (capitalistico) volevano combattere in generale o almeno evitare che esso sottomettesse alle sue regole la cultura e la scuola.
    E non mi si venga a dire che Fortini è stato «complice debole o distratto» di un tale processo. Basta leggere i suoi libri e le sue analisi dell’industria culturale e vedere anche i suoi comportamenti e le cose che ha scritto quando era alla Olivetti, all’unversità di siena, al Corriere della sera. Che Sanguineti e la Neovanguardia abbiano efficacemente condotto un loro «assalto distruttivo» è una balla. Tant’è vero che il mercato si è ulteriormente espanso e rafforzato, macinando sotto i suoi dentacci anche la “rivoluzione” di Sanguineti & C. Proprio il venir meno di un fronte antimercantile (e in parte anticapitalistico, perché il mercato non coincide col capitalismo e preesisteva ad esso…) dovrebbe rendere più prudenti nell’affrontare la questione, che è complicatissima, e più decisi nello studiare nuove strategie, d’individuare chi possa essere il soggetto che le pratichi e chi sono oggi i veri nemici.

    5. È il «minimalismo» il vero responsabile di questa crisi? il vero nemico?
    Io ho scritto: «Nello specifico del discorso sulla poesia, è vero, come dice Linguaglossa, che la “democratizzazione” dei linguaggi poetici “quotidiani” subisce l’egemonia di quelli dei mass media ed è ad essi subordinata (e depauperata delle sue potenzialità)».
    In altre parole parlo di un adattamento di questi poeti al *mainstream* (apolitico) dominante. Detto in termini più chiari: si sono adattati ai gusti dei vincitori. Celese, che non ha o esclude il mio lessico politico e forse non è interessato a quest’aspetto della questione per me fondamentale, difende una sorta di “professionalità poetica” *d’antan*; e sostiene che la poesia minimalista è facile, «si può tradurre in morse e in signuno», tende a una « reiterazione memetica», evita la fatica del mestiere e del talento e non si assume «l’obbligo di produrre alcunché di originale». È vero, ma questo dimostra ancor più quanto sia difficile contrastare polticamente questo *mainstream* e quanto vana sia la sua semplice denuncia moralistica. Se prima eravamo in 100 a “tenere il punto”, a difendere anche in poesia uno “stile antimercantile” oggi siamo ridotti in 4 gatti. E dobbiamo saperlo e non dobbiamo miagolare invano o farci le serenate tra noi.

    6. Anche Celese se la prende ( come avrebbe fatto Montale se fosse ancora vivo) con la massificazione della poesia ( coi “moltinpoesia” dovrei dire…), con la « pletora degli scrittori di poesia che ci assedia e soffoca». (Invece di interrogarsi più a fondo sul fenomeno, come io da tempo e da isolato cerco di fare…). Ma se la prende anche con «le poetiche sulla poesia ((altra innaturale e perniciosissima scissione/inversione)» e agita il vessillo ( liberale, aggiungo io) della « genialità-libertà del singolo». Ah, Rimbaud, croce e delizia dei ribelli!
    Al minimalismo imputa poi « molte opportunità lassiste di giudizi arbitrari nei premi letterari proprio per il livello di indistinzione qualitativa che propone». ( Ma davvero son tutti minimalisti quelli che hanno portato «la corruzione intellettuale» nei premi letterari?). In fin dei conti poi non mi pare neppure lui convinto che il vero male sia imputabile al minimalismo se non indica antidoti e conclude rassegnatamente: «Quello che più angoscia è il fatto che quasi tutti siamo coscienti dello stato di degrado della letteratura ma siamo altrettanto impotenti. Non è possibile mettere in campo delle proposte che non provochino reazioni e conflitti, piuttosto che soluzioni ragionate».
    E allora mi chiedo che ce ne facciamo di denunce ( o lamentazioni?) che sembrano arrendersi di fronte al « cinismo autofago della società letteraria che si sta consumando nella propria digestione acida»? Basta aspettare che si consumi fino in fondo. Manca, con tutto rispetto, una proposta.

    6. Giorgio riprende e difende queste posizioni di Celese, che coincidono in buona sostanza con le sue analisi, ma egli sottovaluta e semplifica le cose.
    Per «prendere le distanze (critiche)» e fare «poesia nuova o «diversa» ( io dico «esodante») ce ne vuole. Perché, come ho detto sopra, veniamo da una sconfitta e non esiste un vero soggetto (politico-poetico) che possa, in poesia, fare quello che si dovrebbe fare ( e che, aggiungo io, non si sa ancora bene in cosa consista!).
    Non è affatto «di una evidenza assoluta il conflitto di interessi tra i critici che lavorano a stretto contatto con gli uffici stampa degli editori maggiori e i libri sfornati da quegli editori».
    Lo sarà per lui, ma non per l’esercito di aspiranti poeti, che bussano più numerosi che mai proprio alle porte di quei critici e di quegli uffici stampa.
    Torno a ripetere fraternamente che l’ipotesi, affacciata dal giovane Ivan Pozzoni anche sul bog Moltinpoesia e che ora vedo da lui ripresa, quella cioè di « rompere il giocattolo, sfasciare tutto, affossare tutto ciò che deve essere affossato, mandare a picco il Titanic con tutti i suoi ospiti ossequiosi e insignificanti» è veramente di un estremismo infantile eroicistico e vano.

    7. Ripropongo allora pazientemente all’attenzione la mia posizione accanto alla sua e a quella di Celese, sperando in un confronto approfondito:
    « Nello specifico del discorso sulla poesia, è vero, come dice Linguaglossa, che la “democratizzazione” dei linguaggi poetici “quotidiani” subisce l’egemonia di quelli dei mass media ed è ad essi subordinata (e depauperata delle sue potenzialità). Anche perché – aggiungo io – democrazia e poesia non possono ridursi mai alla sola dimensione del quotidiano. È però anche vero che l’ opposto della medaglia, e cioè l’aristocraticismo, che oggi permane in certe frange del ceto medio più ostile alle mode “democratiche” e muove una critica in parte accettabile alla democratizzazione fasulla che ci viene imposta, richiamandosi ad un immaginario antico, premoderno o vicino alle Origini, appare patetico coi suoi tratti di nobiltà decaduta e imbronciata. Sterile, dunque, quanto il democraticismo, che si vuole arrogante, rampante o falsamente modesto.
    Le critiche di Linguaglossa ai settori “democraticisti” della ricerca poetica odierna avrebbero un valore euristico, anche ai fini dell’inchiesta che ho evocato, se fossero depurate dal moralismo o dalla pretesa di rappresentare la “linea”” o la poetica buona. Che manca e andrebbe cercata. Qui un altro punto di dissenso con lui. Va bene dibattere tra contrapposizioni interne alla ex-piccola borghesia, come quella tra i poeti proposti da Linguaglossa (Madonna, Busacca, ecc.) e i minimalisti-quotidianisti, o, per riferirmi a Ivan Pozzoni, tra i poeti che scrivono poesie e i poeti che dicono di fare “non poesie”. Non penso, però, che queste siano le differenze ultime e determinanti; e che, confliggendo tra loro e portando a una certa chiarificazione delle poetiche, ci faranno uscire dalla crisi della poesia. Anche se – nolenti o volenti – la «post- poesia» ci avesse portato su un nuovo terreno, come Linguaglossa sostiene, da qui non si scorge affatto la luce di una nuova aurora».

  • Caro Navìo, ho aggiunto la parte mancante. Spero che ora sia tutto corretto e scusami se ciò è accaduto per una mia svista.

    Caro Giorgio (e Navìo),
    ciò che tu sottolinei con un rimando è proprio ciò su cui io concordo della lettera nello specifico e del discorso in generale.
    Parlare di autenticità in poesia è, per me, piuttosto complesso nella misura in cui diventa difficile distinguere la tecnica dai tecnicismi e dai manierismi all’interno di un sistema linguistico quale quello della poesia, dotato di proprie regole (o non-regole).
    Voglio dire, il fatto stesso che la poesia si distingua all’interno del più ampio bacino della letteratura fa di essa una posa, in un certo senso. Come la letteratura in generale diventa una posa rispetto al linguaggio parlato; come diventa una posa (o escamotage narrativo-stilistico) l’utilizzo del linguaggio parlato in una forma scritta.
    Il problema del linguaggio in generale è proprio questo: è esso stesso un cane che si morde la coda, poiché nel momento in cui si manifesta in una differenza come atto critico di una sua operativizzazione, quando tale differenza si naturalizza diviene posa, simulazione. In tal senso diventa complicato distinguere ciò che di autentico c’è in poesia.
    Sempre circa la autenticità, ho delle riserve anche per un’altra ragione: spesso e volentieri si confonde l’autenticità con una specie di spontaneismo naif che è anch’esso causa delle crisi mistiche dei vari poeti sparsi in giro.
    L’estremizzazione della tecnica letteraria che conduce alla stagnazione non credo sia colpa del minimalismo, quanto piuttosto delle pratiche industriali ed economiche che dal minimalismo tirano fuori i profitti. Attaccare, dunque, il minimalismo non mi sembra la soluzione, anche perché si fa di tutta l’erba un fascio.
    Più che rompere il giocattolo, vedo come via d’uscita il cercare di dare voce anche ad altri tipi di poesia, senza escluderne nessuno. Creare una opzione per favorire la scelta che altrimenti, come accade, cade sempre e solo sull’unicum presentato come assoluto e che diventa fonte di ispirazione ed imitazione e causa di epigonismo e tecnicismo.
    La breccia, in poesia come in politica, non si apre distruggendo l’esistente che altrimenti lascerebbe un vuoto che nessuno sarebbe disposto ad assume, ma proponendo una alternativa aprendo la strada alla pratica della scelta – e, dunque, della critica.

    Il disorso sulle poetiche e sulle poesie è anch’esso molto complesso e non trancerei di netto la testa a certe forme espressive che viaggiano su questi binari. Come anche credo che trovarsi nel campo della riproducibilità tecnica e del mercato anche in poesia non designi necessariamente un basso livello poetico: d’altronde, tutte le dimensioni umane, come ben dice Benjamin e Mauss, si avverano all’interno di tale campo. Estromettere la poesia da tale campo significa non indagare un ambito dell’organizzazione sociale che permea anche gli angoli più reconditi della realtà. È, comunque, perdere una possibilità.
    Certo è che non tutto è uguale a tutto, ed è sempre opportuno fare distinzioni – come credo sia opportuno non innalzare barriere a priori.

    Luigi B.

  • Gentile Redazione, leggo la lettera aperta a Giorguio Linguaglossa, e trovo che un brano, durante il mio invio, non è completo. Vi prego di inserirlo idoneamente al fine di rendere più intellegibili le citazioni di Linguaglossa. Grazie per la cortesia, Navìo

    (altra innaturale e perniciosissima scissione/inversione che molti s’ostinano a non riconoscere, forse perché si presta poca attenzione ai meccanismi profondi messi in gioco durante la scrittura in fieri. Guai ai compiti in classe! Il testo poetico è sempre accompagnato da una poetica. Tuttavia il grado di consapevolezza e ingerenza di questa produce il passaggio della poesia alla scrittura poetica e quindi a una tecnica di scrittura che ha visto sorgere addirittura scuole di scrittura. Invece la poesia autentica di solito è inversamente proporzionale alla cogenza della tecnica. Come in una sorta di principio di indeterminazione più la poetica è vicina al suo oggetto, più la poesia se ne allontana (perdonami l’uso semplicistico di queste categorie, ma è per intendersi prima e meglio). Ecco perché a volte, dopo i primi libri di ottima poesia, seguono imitazioni degli stessi da parte dell’autore: la poesia si è trasformata in tecnica poetica a disposizione degli epigoni e degli imitatori (i molti). Qui sta davvero lo snodo etico piuttosto che estetico della poesia attuale. Siamo nel campo della riproducibilità tecnica e del mercato (all’interno del quale è contenuta l’antinomia scrittura aggettivale/ scrittura sostanziale). Il minimalismo è l’estremizzazione della tecnica letteraria, tanto da condurci alla stagnazione, senza via d’uscita. Il minimalismo, all’osso, è una tecnica letteraria! I manifesti-cordata hanno sostituito la produzione di massa – funzionale sia all’editoria che alla critica alla genialità-libertà del singolo. Non è un caso che siano stati sempre i ragazzi e gli sventati a provocare le grandi svolte storiche in poesia e in letteratura.

  • Caro Luigi Bosco,

    quando Celese scrive che stiamo assistendo al: «passaggio della poesia alla scrittura poetica e quindi a una tecnica di scrittura», vuole sottolineare una trasformazione epocale che è in atto e che attraversa la «forma-poesia» di questi ultimi decenni… «in fondo – scrive Celese – il minimalismo non è altro che la reiterazione memetica di un modulo stilistico oltre che un metodo e una modalità di scrittura poetica!»; non c’è dubbio che qui si afferma una verità auto evidente. La poesia minimalista è divenuta «una sorta di esperanto letterario che si può trascrivere in “morse” e in “signuno”, senza eccessiva dispersione di significato. Inoltre il minimalismo consente all’autore-poeta di “esercitarsi” in maniera canonica, evitando facilmente “errori” sia linguistici che stilistici… È sufficiente disseminare di figure retoriche quel poco di pensieri grossolani o banali o astrusi per rendere la lettura criptica e suggestiva; il lettore è appagato (o stordito) dai cunicoli del non-senso che deve contribuire a colmare di significato, come in una tavola enigmistica; e per di più lusingato dalla facilità di imitazione del modello o prototipo».
    Non mi sembra che questo ragionamento pecchi per un eccesso di criticismo nei confronti del minimalismo visto quale luogo delle scritture replicabili e moltiplicabili all’infinito, una sorta di tiptologia, di esperanto, di iconologia del quotidiano ludico e intellettualizzato. Si tratta di un dato di fatto auto evidente che Celese mette a fuoco. E mi sembra importante che l’abbia fatto e non mi sembra che l’articolista cada nel vittimismo o nella lamentazione.

    Per fare poesia nuova o diversa è indispensabile prendere le distanze (critiche) da quella dalla quale ci si vuole allontanare.

    Sia detto con chiarezza: è di una evidenza assoluta il conflitto di interessi tra i critici che lavorano a stretto contatto con gli uffici stampa degli editori maggiori e i libri sfornati da quegli editori; è piuttosto logico che quei critici non possano che tessere le lodi per quei libri per i quali essi ricevono una adeguata contro partita economica e pubblicitaria. E così la critica diventa pubblicità. E gli autori nuovi che vogliono emergere (come si dice con una brutta parola) non possono fare altro che condire con l’olio santo della liturgia la propria critica nei confronti degli autori sfornati dagli editori maggiormente rappresentativi, È un cane che si morde la coda. È un cerchio chiuso. L’unico modo per uscirne, a questo punto, è rompere il giocattolo, sfasciare tutto, affossare tutto ciò che deve essere affossato, mandare a picco il Titanic con tutti i suoi ospiti ossequiosi e insignificanti.

    Oggi fare critica (vera, autentica) non è molto dissimile da quegli agenti meteomarini che hanno fatto affondare il Titanic. Aprire una breccia nella chiglia del Titanic.

    Giorgio Linguaglossa

  • Concordo solo in parte con quanto espresso dal gentile Navio in questa lettera aperta.

    Condivido al 100% tutto il discorso che sprofonda nelle concause di una determinata cristallizazione (quasi secolarizzazione) di un certo tipo di poesia. A tal proposito, cito volentieri un estratto della recente intervista a Caterina Davinio (http://poesia2punto0.com/2012/09/03/parola-ai-poeti-caterina-davinio/ ) che dice: “Cambierei la politica delle grandi case editrici: o si decide di rappresentare la poesia contemporanea (e loro non lo fanno) o quanto meno non si fa finta di farlo, confondendo le acque, falsificando la realtà, pubblicando pochi nomi che non rappresentano nulla, se non sé stessi.” Il problema, visto in quest’ottica, non è già di Milo De Angelis ma di una pratica editoriale che, come ben dice Navio (e Linguaglossa in altre occasioni) falsifica le carte in gioco.

    Non concordo, però, su alcune cose che presenti nella bella lettera di Navio ed anche nella discussione a cui la lettera fa riferimento. Per esempio, non concordo nei toni “vittimisti” (notare le virgolette postmoderne) né in una presa di posizione che sembra partire dal giusto, dal corretto, dalla qualità (cos’è? bho); una posizione che sembra quella di una crociata (combattere il minimalismo? e perché mai? e soprattutto: piuttosto che perdere il tempo a “combattere” il minimalismo come fosse il male del mondo, personalmente investirei le mie energie più volentieri in altre attività, tipo il sesso o la caccia dei cervi).

    Ciò che voglio dire è: questi discorsi “iperuranici” sulla poesia (che non fanno altro che renderla estranea a se stessa ed al mondo) somigliano molto ai sondaggi del TG3, dove c’è l’inviato speciale che per giustificare la presenza del TG3 comincia a parlare della bassa qualità dei programmi TV e poi monta un video con numerose persone che si lamentano della bassa qualità della TV. Salvo poi scoprire ogni fine settimana che il Grande Fratello ha di nuovo avuto il 30% di share, nonostante Alberto Angela e Minoli. Ora, una delle due non è vera: o non è vero che la TV – e la poesia minimalista o quello che ci pare – è di bassa qualità; oppure chi dice che la TV – che la poesia minimalista – è di bassa qualità poi la vede – legge. Oppure, più semplicemente, esiste una linea poetica che ha in qualche modo – per motivi storici, di costume, editoriali etc. – monopolizzato il mercato editoriale (con le conseguenze che ciò comporta) e l’immaginario collettivo del poetico: se vuoi scrivere una poesia allora chi ti legge non ci deve capire una mazza, per esempio. A ciò si aggiunge che l’analfabetizzazione funzionale portata avanti dal nostro ministero dell’istruzione non aiuta per nulla.

    A mio avviso, quello che un critico (o semplicemente un lettore) può fare è trovare il modo di far emergere tutto il resto della poesia che resta dietro le quinte. E a mio modo di vedere non è attaccando il minimalismo che si riesce a dare visibilità ad altri tipi di poesia; al contrario, il rischio è quello di sembrare i soliti sfigati di turno che vogliono spodestare il re per rubargli la corona. Magari in molti casi è così. Io (e qualche altro, sono certo) invece ho solo voglia di leggere poesia, pormi delle domande, non darmi delle risposte ed altre cose che ora non mi vengono in mente.

    Discutere, credo, è utile non per vedere chi ha torto e chi ha ragione, ma per mostrare gli altri numerosi punti di vista che altrimenti resterebbero confinati nella mente di chi li produce.

    Luigi B.

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