Colloqui sulla poesia – Milo De Angelis

 

dalla Prefazione di Isabella Vincentini

1. A distanza di poco più di trent’anni da un esordio di immediata risonanza e stima, ancora oggi la poesia di De Angelis, studiata, tradotta e presente nei maggiori compendi critici come una delle voci principali della nuova poesia degli anni Settanta, è oggetto di dispute, contrasti, polemiche, schieramenti e contraddittori viscerali, che dalle aule dei convegni si sono spostati sulle pagine del web. Definizioni, classificazioni o etichette, interpretazioni, citazioni ed esegesi dei singoli versi e delle singole raccolte continuano a generare equivoci e levate di scudi. Il nodo del contendere è sempre il medesimo: l’adesione sacrale, mistico-orfica-ineffabile e iniziatica della sua poesia, il riscontro esatto tra l’uomo e il poeta, sorta di monaco tibetano o di mistico medievale che rappresenta un’idea di poesia in carne ed ossa. La pubblicazione di queste interviste probabilmente non dissiperà né dissidi né malintesi, anzi offrirà ulteriori pretesti per poter continuare a citare interviste “faziose” in cui De Angelis si autorappresenta come un Orfeo che sale e riscende o parla del rapporto della poesia con l’eternità (come è avvenuto nel Blog lanciato da Luigi Nacci nel mese di maggio del 2007). Ma giunge a proposito in un momento particolare del dibattito sulla poesia contemporanea. Un momento di interrogativi senza risposta sui percorsi e la realtà della poesia di oggi; sui poeti più significativi, più noti per aver pubblicato con grandi editori o meno noti; sui “maestri” e su una “generazione sommersa”; sulla mancanza di identità di gruppo e di pensiero; sul coraggio di infrangere i tabù dell’omertà del giudizio che non vuole correre il rischio di rimanere fuori cordata; su una storicizzazione che esclude per partito preso o per gusto personale; sul canone e sulla tradizione smarriti; sullo stato di abulia, di noia e immobilismo, di conformismo e clientelismo, di solitudine, vacuità e disgregazione…
Un contesto quindi profondamente cambiato rispetto al 1976 anno di pubblicazione della prima raccolta poetica di Milo, “Somiglianze”, un mondo editoriale e culturale affollato e mediatico, con autori radicati sul proprio lavoro e la propria attività manageriale, dove la letteratura ogni giorno affronta il problema della propria irrilevanza sociale ma non cessa di cercare il varco di una piccola utopia o di un’oltranza. Ripercorrendo le tappe della propria esperienza di vita e di scrittura, l’autore che è stato il manifesto di una generazione, ci riporta dentro il clima caldo ed entusiasta degli anni Settanta, dentro una comunità che voleva ribellarsi al conformismo ideologico d’allora e cercava con tutte le proprie energie vitali una via alterativa. Non si può non avvertire quanto siano obsolete le polemiche di oggi che riguardano la sua poesia, quanto malamente invecchiate in questi trent’anni, i cui cambiamenti culturali richiederebbero una diversa lettura diacronica per comprendere la complessità che è sotto il nostro sguardo. Non può non risultare evidente che la presunta scrittura mistico-orfica non ha niente di misteriosofico o mistico, né delle parole in libertà o della scrittura automatica surrealista, tanto quanto è programmaticamente distante dal non-sense, dall’alienazione, dalla mimesi, dal collage e dal citazionismo auto-ironico dei giochi verbali della poesia sperimentale.
Come gli artisti che più ama di cui ci parla in un’intervista, dovremmo finalmente poter leggere i testi di De Angelis con lo stesso sguardo con cui osserviamo un quadro: scene di vita metropolitana, episodi di vita vissuta che si raggrumano in densi segni fitti, fitti, giustapposti e deformati come nelle terrificanti visioni di Bacon, nelle contraddizioni e nelle astrazioni di Franz Kline, nelle discordanze di De Staël, nelle tensioni vitali ed esistenziali di De Kooning, nelle parole – massa di colore, violente come la pittura espressionista e drammatiche come l’action painting. Anche la sintassi della poesia ha attraversato il linguaggio astratto e figurale del Novecento, le avanguardie, le neoavanguardie, il concettuale e il surrealismo. Spezzoni o incubi di realtà non cercano più un luogo metafisico, simbolico, analogico, né tanto meno mistico, ma proprio come nell’arte tornano a luoghi ancestrali, archetipici o primitivi. Si spiegano non ricercando le connessioni tra immagine ed immagine, tra accostamento ed accostamento, tra verso e verso, disconoscendo come immagine arbitraria ogni accostamento spiazzante, ma ritrovando nell’intrico delle immagini, la tensione che emerge dallo sfondo e che evoca situazioni e visioni enigmatiche della realtà.

Ventidue interviste

Questo libro, che raccoglie ventidue interviste pubblicate tra il 1990 e il 2007, è un’intensa e lacerata riflessione su “ Vent’anni dedicati a scrivere, capire, diffondere poesia”; vent’anni in cui la poesia “è stata di certo la cosa più importante della mia vita”. Drammatico e allarmato, con momenti di memoria e confessione sorridenti e tenui, che spezzano la tensione, ci conduce dentro un’esperienza dove realmente “poeta, testo e realtà sono un insieme vivente”, inseparabili. “ Affermare che la vita è più importante dell’opera significa essere un letterato o un dilettante, significa che la propria opera non si è fatta vita” ci dice De Angelis citando una riflessione di Pavese.

L’autore interviene sulla sua poesia, si commenta, parla del suo lavoro, enuncia la sua idea di poesia, si confronta con le poetiche e con i dettami culturali degli anni Settanta, ricostruisce il fil rouge della propria ricerca e della propria biografia, ci fornisce alcune chiavi di lettura dei suoi testi e ripercorre la cronistoria dei suoi libri.
Con commossa, indelebile gratitudine, ricorda i pomeriggi in via Legnano 28 a casa di Franco Fortini, le sue collere su un enjambement zoppicante o un aggettivo sbagliato, l’atmosfera da tribunale e il suo marxismo profetico, drammatico e disperato. Con un affetto che non offusca mai il giudizio critico, ci parla dei suoi maestri così diversi come Mario Luzi, “maestro autentico” riservato e schivo che rendeva difficile la parola amichevole; oppure Piero Bigongiari fedele alla poesia quanto Fortini, gentiluomo fiorentino che sapeva accogliere e proseguire il discorso dell’altro.
Dall’ archivio di vaste e disparate letture isola il suo canone occidentale: Lucrezio, la tragedia greca, Leopardi, Dostoievskj, Cvetaeva, Pavese, Piovene, Drieu La Rochelle, Céline, Lacan e Krishnamurti, ma anche Virgilio, Baudelaire, l’Antologia Palatina e Rimbaud, Jünger, , Blanchot, Campana, Giorgio Colli, Borges, Paul Celan, Gottfried Benn e Silvia Plath.
Si indigna ancora per i diktat ideologici e politici che hanno segnato gli anni Settanta, gli anni della sua formazione, quando Francesco Leonetti era il suo pessimo insegnante al Liceo Berchet e nemico dei poeti, quando l’effimero era camuffato da impegno politico e i miti New Age dell’India e del nomadismo erano in contrasto con la sua Milano del rigore e della sottrazione.
Critica le definizioni e le etichette restrittive che imprigionano la poesia, dalla più autorevole Linea lombarda di Anceschi che va da “Parini a Nello Risi come se non esistesse quell’altra dimensione spirituale che collega gli Scapigliati al Tessa, Rebora ad Antonia Pozzi, il Manzoni degli Inni a Testori”, fino alle classificazioni degli anni Ottanta che intendevano liquidare sotto le formule di neoorfismo, neosimbolismo e neoermetismo la migliore poesia di quegli anni.
Non si sottrae in poche battute al giudizio netto e complessivo sui contemporanei e sugli amici: “Cucchi è nato dalle parti di Federico Tozzi, Raboni è più prossimo a Luzi che a Luciano Erba, come Neri è più vicino a Magrelli che a Majorino. Mussapi è lontano dai miei versi come da quelli di Conte, e semmai si accosta a Bonnefoy o a Bigongiari, ne condivide lo sguardo poematico e luminoso. Conte è figlio di Lawrence e D’Annunzio, ma ha anche un sotterraneo rapporto con l’avanguardia”.
Ribadisce senza remore la sua distanza dalla neoavanguardia affermando di non avere alcuna stima per Balestrini, Giuliani e Sanguineti “una specie di commissario del popolo”, ma parla del suo rapporto bello e fruttuoso con Antonio Porta e isola dall’avanguardia le prime opere di Elio Pagliarani.
Lascia emergere tutti i volti di quell’adolescente solitario, scontroso e silenzioso che fin dagli anni scolastici, esercitandosi in un lungo atto atletico solitario, cercava una comunità di uguali, ragazzi e ragazze per sfidarsi e lottare insieme alla ricerca di un’idea assoluta di poesia. E ci sono tutti: Michelangelo Coviello, Angelo Lumelli, Giuseppe Conte, Maurizio Cucchi, Giancarlo Pontiggia, Emy Rabuffetti, Roberto Mussapi, Antonio Mungai, Alberto Schieppati, Elia Malagò, Dario Capello, Nadia Campana.. e poi Giada, Donatella, Paoletta, Roberta Fossati, Stefania Annovazzi, Marta Bertamini, Giovanna …
Ci parla anche dei suoi registi preferiti che come i poeti e i classici, seguono la direzione drammatica delle anime infelici: dalla Nouvelle Vague di Truffaut e Bresson, ad Antonioni e Tarkovskij, e soprattutto il Louis Malle di “Fuoco fatuo”, a cui si è appassionato fin dai dodici anni in una di quelle sale cinematografiche di periferia tanto amate; e poi Visconti con alti e bassi, Fellini no, è solo piacevole, Soldini e Amelio sicuramente meglio del detestato Nanni Moretti.
Ma troviamo anche le sue preferenze calcistiche, i piatti e le bevande prediletti e quando Patrizio Ceccagnoli gli chiede quale sia il lato del carattere che avrebbe voluto cambiare, Milo risponde “il carattere non di cambia” ma, in una versione precedente aveva risposto: la paura della morte, prima di correggersi. Ci svela anche che avrebbe desiderato una figlia e ironizza sull’assenza della natura nei propri libri: “non so cosa è il mare, la montagna, un albero, un campo: gli unici campi che mi interessano sono quelli sportivi”.
In alcuni casi in buona fede mente: “Non ho mai trovato epigoni” quando invece sono sotto gli occhi di tutti plaquettes e piccole raccolte che hanno talmente sedimentato e assorbito il suo stile da essere inconfondibilmente deangelisiane. Ma aggiunge: “nessuno, giustamente, ha mai voluto avvicinarsi al mio mondo poetico e rimanerci, nessuno è così stupido da restare a lungo in quell’inferno che è la mia vita”. Ed allora si capisce che in verità non ha mentito perché lo stile e la maniera, l’epigonismo, sono sempre stati una cosa molto diversa dall’impronta unica e irripetibile della poesia. Ed ogni riga di queste ventidue interviste ha i caratteri della sua mano fino a restituirci tutti i lati di una personalità sognante e tormentata fin da ragazzo, lacerata, tenace, ossessiva, ribelle, sempre sull’orlo del delirio, ma profondamente ancorata alla sua contingenza, strettamente allacciata ai luoghi, ai fatti e alle persone che ha conosciuto.
“L’opera poetica è storica in una maniera paradossale, perché, certo, deve appartenere a un foglio del calendario (… ) però, al tempo stesso sa che andrà oltre quel foglio: quindi porta con sé una lacerazione, tempi che si contraddicono e non si coniugano”.
E’ questo il principale registro della poesia di De Angelis che si dispiega intervista dopo intervista, come una poetica mai formulata in canoni, programmi o dichiarazioni, ma che si delinea attraverso giudizi e mitologie letterarie e private: l’incontro tra la cronaca e la storia, tra la storia e l’epica. “Amo gli autori che oltrepassano la storia e trovano, non da religiosi una presenza eterna”. Strana epica la sua, frammentata, reticente, “scissa nell’idea”, piena di traumi, visioni fulminanti, allucinazioni, nevrosi e angoscia. Un’epica tragica che non ha mai conosciuto la conciliazione dell’humanitas, né la pietas. Eppure allo stesso tempo toccata da una “vertigine sacra”, da quel sacro che è consapevolezza e impotenza e fa dell’eroe, il poeta, una vittima sacrificale. Un’epica o, meglio, un’idea di epica prossima al mito e al Destino, che è la stessa idea del “Tradurre” e della cosmogonia di Lucrezio, dell’eredità da consegnare e della parola da traghettare, dello stesso rapporto con i morti, altro tema essenziale della poesia di De Angelis. Un’epica che è il confronto tra due lingue e due alfabeti: quello del singolo e quello della dimensione collettiva, quello del particolare e quello dell’universale, sempre sospeso tra storia ed eternità, tra la vita che ci è data e l’archetipo in cui tutte le storie, diverse ed uguali, si ripetono. Una trascendenza laica che risponde all’idea di Destino e che è allo stesso tempo fatalità e contingenza, “conoscere ciò che ci ha già conosciuti”, come afferma citando Ernst Jünger.

La vita, la poesia

3. De Angelis, interrogato, ripercorre le date della sua vita: dal 1976, anno di pubblicazione di “Somiglianze”, (un libro trepidante, innamorato, di un dramma teso alla scoperta della vita, un libro fitto di dialoghi, voci e invocazioni alla ricerca spaesata di un’identità ma insieme già dell’esattezza, scritto durante gli anni universitari dal ’70 al ’75), all’uscita di “Millimetri2 nell’’83, un libro disperato, scritto in un periodo buio di perdita di contatto con il mondo e con se stesso, teso e spolpato fino all’osso, “il mio contributo alla solitudine più aspra e inaccessibile”, “c’è uno stacco netto, impressionante tra il mio primo libro e il secondo”.
Dal 1979, data di pubblicazione de “La corsa dei mantelli” dove quella figura mitologica di donna, Daina, ci confessa “è lei (…) è lei la donna della mia vita!” alle notti insonni del 1982 nella casa di via Rosales, fino all’incendio della mansarda del 1988 e l’inizio, dopo pochi mesi, del legame con Giovanna Sicari, letta per la prima volta nel 1983 a casa di Michelangelo Coviello. Il matrimonio avvenuto nel ’90, la scomparsa di Giovanna la notte del penultimo giorno di dicembre del 2003 e l’estate moribonda della sua agonia. Con tenerezza ci parla di Giovanna “che era la luce ed era il sorriso”, con un tono grave e ammirato ci descrive la poetessa, quasi una Sibilla posseduta, che aveva puntato la vita sulla poesia e alla poesia chiedeva tutto.
Scorrono le date dei libri correlate alla ricerca esistenziale di poesia: Terra del viso nel 1985 con alcune più distese poesie biografiche che fanno riferimento alla figura del padre e ai suoi racconti di guerra, ma sempre dominato da un precario equilibrio di associazioni velocissime d’immagini appena un passo prima del surrealismo. Distante un padre nel 1989 “il mio libro più vorticoso, quello dai nessi più rapidi e inattesi”, scritto in un turbine associativo denso e veloce fino al collasso. A distanza di dieci anni, Biografia sommaria uscito nel 1999, un libro legato a molti eventi: una moglie, un figlio, nuove case, nuovi lavori, fino a Tema dell’addio nel 2005, dopo la morte di Giovanna, “il mio libro meno privato” che non deve essere letto “come un lamento funebre o un atto privato”.
In molte di queste interviste De Angelis commenta e spiega, replica con garbo alle incomprensioni dei suoi versi, ci racconta l’antefatto da cui è nata la poesia, chiarisce i titoli dei testi e della raccolte come quell’enigmatico “STP” sostanza allucinogena che può provocare scissione mentale, oppure “T.S.”, il tentato suicidio delle cartelle ospedaliere. Sottolinea che in Biografia sommaria biografia non significa autobiografia, non è un diario intimo ma è una prima persona plurale che tende alla coralità. Dietro ad ogni poesia c’è dunque una circostanza o una storia che ancora ci manca, che il poeta promette un giorno di raccontarci come quando interrogato sul senso del verso “chi soffre non è profondo”, accenna al suo incontro con Cristiana Cattaneo. Ci lascia con il desiderio di saperne di più raccolta per raccolta, verso per verso aspettando magari un altro libro di interpretazione puntuale dei suoi testi, dopo questo di interventi del poeta sulla sua poesia e sul suo essere poeta. Un libro di cui si sente l’esigenza anche se oggi l’iniziale difficoltà e complessità, l’obscurisme da sempre discusso di De Angelis, non è più così scoglioso come sembrava all’inizio e non solo per l’opinione diffusa della maggiore comprensibilità e distensione dei suoi ultimi libri, ma perché è diventata sempre più ampia quella cerchia di pubblico che già conosce le sue tematiche ed è abituata ai suoi riferimenti biografici ed esistenziali.
Queste ventidue interviste rappresentano perciò un contributo prezioso per la comprensione della sua poesia che ha varcato l’oceano e viene interpretata e tradotta dagli Stati Uniti al centro America, in un contesto a cui sfuggono la complessità e i riferimenti delle polemiche di casa nostra, i giudizi, i personaggi e le informazioni di una società letteraria di cui in Italia sono note posizioni, autori e pubblicazioni e in cui molti lettori conoscono riferimenti e allusioni anche per la conoscenza diretta di Milo De Angelis.

I luoghi

4. Accanto alle coordinate di lettura che riguardano sia le raccolte principali e sia la fiaba ” La corsa dei mantelli” del 1979 ( “una sorta di archivio di immagini che poi si sono riversate nei miei versi”), come il libro di saggi “Poesia e destino” del 1982 e l’esperienza degli undici numeri della rivista “Niebo” tra il giugno del 1977 e il marzo del 1980, troviamo disseminati tra le pagine molti riferimenti alle proprie condizioni soggettive e alle difficoltà incontrate nei periodi di passaggio e di elaborazione. “Un libro non termina quando finisce l’ultima pagina, ma quando esaurisce un’esperienza stilistica ed esistenziale”. Ci parla infatti anche del romanzo mai scritto che doveva intitolarsi “Cartina muta” su gli amici d’infanzia, i compagni di scuola, le ragazze dei campi sportivi e i maestri di vita. Commenta che Tema dell’addio non rappresenta il momento più difficile della sua vita, ma il tragico ha percorso in maniera più forte altri libri come “Millimetri”e “Distante un padre”. Senza nascondersi, ricorda che ai tempi di Distante un padre era nella bufera, “intrecciavo parole di altri alle mie, prendevo quello che mi capitava pur di salvarmi. Mi hanno persino denunciato, nel 1989”.
Milo stesso in queste interviste ci parla dei suoi cambiamenti segnando come data gli anni Novanta con il matrimonio, la nuova casa di via Giolitti e il figlio. Ma l’inizio degli anni Novanta, fino a tutto il ’93, anno testimoniato dalla pubblicazione dalle poesie de ” L’Oceano intorno a Milano” a cura de la Maison des Ecrivains Etrangers et Traducteurs a Saint-Nazaire con una bella intervista di Bernard Bretonnière, sono ancora il frutto della polemica del plagio. Isolato per un periodo nel gennaio del ’93 nel gelo della centrale Mesonica di Saint Nazaire, in quella cittadina francese di fronte all’Oceano, e paralizzato dall’impegno di ricambiare l’invito con la scrittura di nuove poesie, il poeta inizia uno strano percorso all’indietro tornando alla sua Milano “nostro diritto naturale”. Ma “il grigio soffre, il grigio non è un colore / ma un voltarsi”. Milo riflette sulla poesia che ha costituito fino ad allora la sua unica ragione di esistenza e quando Bretonnière gli chiede se nella sua vita, all’infuori della poesia, esiste qualcos’altro, risponde: “ieri avrei detto di no. Oggi non oso rispondere a questa domanda”. Sono gli anni dell’ “idea e dello scisma dell’idea”: “ Poi le strade ci condussero / in un colloquio straniero,/ mendicanti di hotel / con l’idea e lo scisma nell’idea: / ecco gelarsi, nel torace, le corse infantili”. “Sono soltanto lo stile che ho appreso” scrive Milo in “Cartina muta”. Il ritorno a Milano non può più essere procrastinato. Milo, non senza traumi e fratture familiari, lascerà Roma (dove non c’erano cattedre per l’insegnamento) nel gennaio del 1996 e per un periodo tornerà nella casa di viale Majno riconciliandosi con gli attriti normali della famiglia d’origine ritrovando l’affetto delle lunghe passeggiate con il padre. Poi una svolta, che in Milo significa sempre rinascita e non cambiamento: una nuova via Rosales, l’appartamentino di quindici metri quadri di Corso Lodi, una solitudine riconquistata e un cambiamento che avviene come una folgorazione, cioè l’inizio di Biografia sommaria.
A percorrere pagina dopo pagina i libri e le interviste potremmo attraversare tutte le strade dove ha camminato, dove ha abitato e dove è accaduto qualcosa che ha coinciso con la poesia: dall’abitazione della famiglia di viale Majno 31, alla mitica via Rosales 9, dalla casa di Marta Bertamini in via Stradella 15, agli appartamentini in affitto di Corso Lodi 103 e di via Varesina 71, dalle case di Roma dove ha abitato con Giovanna e Daniele in via Prenestina 42 (dove già viveva Giovanna e dove è nato Daniele) alla loro casa di via Giolitti 387, fino al trasferimento e alla ricongiunzione della famiglia nel 2002 con l’acquisto del nuovo appartamento in via Bovisasca 85. Solo un anno prima della morte di Giovanna, che già nell’estate successiva tornerà a Roma per quel calvario di cliniche e ricoveri, confortata da una numerosissima e sempre presente cerchia di amici, parenti e poeti, fino all’uscita quasi postuma del suo libro Epoca immobile.
Ma ci sono appena accennati anche i luoghi dove ha vissuto periodi brevi e cruciali della vita come Caivano in provincia di Napoli, dove ha seguito Giovanna per un incarico d’insegnamento temporaneo, paese inospitale e angosciante, Saint-Nazaire e soprattutto Rosignano nel Monferrato, dove nell’antica villa di famiglia della madre ha conosciuto i giochi di ragazzo e le prime bande. E sempre c’è Milano, la Milano del Fossati e del Parco Lambro, di via Crescenzago e via Mestre, del ragazzo che amava i campi di calcio e i cinema di periferia; la Milano di via Prospero Finzi, di via Pacini e di via Garigliano, dell’ovale del Pirelli, dei gas di Rho, dei treni per Lambrate, Certosa, Greco, Bresso, Sesto e Comasina, delle nebbie e degli altiforni, dei palazzi dell’INA, delle tangenziali, delle edicole, dei citofoni e del metano presente in tutti i suoi libri; e quella scoperta più tardi del paesaggio metafisico e industriale di Sironi. Ci sono gli autobus come il 57, il sacro autobus mattutino per Quarto Oggiaro, l’autobus preso tante volte con Giovanna e Daniele per andare a giocare a pallone a Villa Scheibler e il bar un po’ neorealista degli anni cinquanta che piaceva tanto a Giovanna.
Massimo Gezzi nell’ intervista qui raccolta ricorda una fotografia di Milo pubblicata anche dalla rivista “Poesia”, appoggiato di spalle a un parapetto della ferrovia … “Lì sembravo pronto per la fucilazione. Più che un allentamento – perché la mia rimane sempre, credo e spero, una parola di grumi – è subentrata poi una prospettiva, qualcosa che si è aperto solo negli ultimi dieci anni, una sorta di lungimiranza”. Anche nell’intervista a cura di Gabriela Fantato e Annalisa Mastretta, Milo si descrive: “Sì è vero! In passato per anni, non riuscivo a star fermo: tutto attorno a me accadeva contemporaneamente e io giravo e giravo, di giorno, di notte, andavo per Milano senza pace. Ero magro, scavato, allucinato (… ) tu non mi hai visto, vero, in quel periodo?( …) meglio così (…) tutto si muoveva come in un caleidoscopio. Poi a partire dagli anni novanta, c’è stato un cambiamento…”.
“Tu non mi hai visto, meglio così” dice Milo, ma non è vero: molti, guardando le fotografie di allora e quelle di oggi, vorrebbero riempire tante lacune. Molti avrebbero voluto conoscere Milo già in quell’ inverno del ’76 di cui ci parla in questo libro, avrebbero voluto leggere quel cartello affisso nella bacheca dell’Università Statale di Milano dove era scritto: “ Cerchiamo qualcuno che ami la poesia”, come ci racconta. Avrebbero voluto partecipare alle serate di via Rosales numero 9 dove insieme all’elaborazione dei temi e delle poetiche di cui abbiamo testimonianza nella rivista “Niebo”, la comunità di amici e aspiranti poeti vivevano nelle atmosfere freebes e contestataire di quegli anni, il fervore di una nuova poesia, “una dimensione di comunità, di bohème e di giovinezza”. Chissà quanti vorrebbero sapere come era Milo ancora prima, nei campi sportivi e nelle palestre di Milano quando faceva salto in alto: “ricordo la cura con cui contavo i passi, il punto preciso dello stacco, le scarpette a sei chiodi, tutta una liturgia che preparava la stagione agonistica e ritmava gli allenamenti, la preparazione della rincorsa,l’avvolgimento dell’asticella …” ( Colloquio con Patrizio Ceccagnoli ). Oppure al tempo in cui faceva uso di anfetamine di ogni tipo, in cui non mangiava e non dormiva, nel tempo in cui si professava “guaritore”, si atteggiava a una sorta di “guru” e studiava le antiche filosofie orientali ed indiane, l’induismo e lo zen, il periodo in cui frequentava Armando Verdiglione e faceva analisi lacaniana, i periodi in cui ogni apparente cambiamento era un ritorno o una rinascita, un voltarsi indietro e un camminare in avanti con lo sguardo “frontalmente” fisso al presente e a quel “sempre di ogni occasione”.

Via Stradella n. 15

5. Personalmente ho conosciuto Milo nel luglio del 1987 per un’intervista andata in onda il 19 ottobre all’interno del programma Rai Radio Uno “Poesia italiana oggi”. Lo incontrai nell’abitazione di Marta Bertamini, ma non era la prima volta che lo vedevo né che ci parlavo. La sua voce al telefono era grave e rotta, con discese che sembravano quasi sussurri impercettibili e un respiro drammatico quasi a strappi, ma era piena di una tensione contagiosa che trasmetteva profondità e calore. Lo avevo visto due anni prima su un palco di Villa Borghese a Roma per una lettura. Avevo appena pubblicato su una rivista la recensione a Terra del viso e dopo varie perplessità avevo deciso di non farmi viva con quella piccola carta di presentazione in mano.
Quell’estate del 1987 lo aspettavo negli studi Rai di Corso Sempione a Milano per potere completare il ciclo a cui avevano già preso parte altri poeti. Tomaso Kemeny era ancora in sala di registrazione quando fortuitamente tra i tanti studi e la mia occasionale presenza, arrivò precisa la sua telefonata (ma ora so che De Angelis, svagato, allucinato, selvatico e stralunato come appariva, era capace delle più poliziesche soluzioni), e naturalmente non venne. E’ inutile nascondere che era per me l’intervista più attesa. Mi scusai con Kemeny, che affettuosamente con la gentilezza che gli è propria, completò il lavoro anche da parte mia, e con il registratore Nagra della Rai suonai il campanello di via Stradella 15. Dopo alcuni minuti contati per non essere invadente, senza insistenza riprovai. Era la chiave giusta, infatti rispose e salii, ma tardò ancora ad aprire la porta. Brancolante, come risvegliato da chissà quale incubo del sonno o indotto da droghe, a piedi nudi, spettinato, aggiustandosi i jeans e la maglietta, dall’aspetto atletico come un ragazzo biondo della gioventù bruciata americana, con diffidenza mi lasciò entrare.
Nel soggiorno luminoso con angolo cottura, la moquette chiara era totalmente ricoperta da fogli di dattiloscritti smembrati, di cui solo Milo poteva ricordare per ogni verso e per ogni parola da chi li avesse ricevuti. Era il primo segno di quell’ attenzione ossessiva al singolo verso, alle poche parole isolate da salvare, per cui ho avuto sempre resistenza e di cui negli anni seguenti siamo tornati a parlare. Ma era anche il segno della sua straordinaria e generosa passione per il capire e il diffondere poesia che non lo ha mai abbandonato. Il pensiero di dover ancora vincere la sua circospezione prima di accendere il Nagra, passò in secondo piano. Tutti oggi sanno che a nessuno era dato vincere senza consenso il suo isolamento, la sua ombrosità e la sua imprevedibilità. Ma il carattere difficile di Milo, la sua ritrosaggine per cui ancora oggi non risponde mai e a nessuno al telefono, è anche la sua cordialità aperta e riservata, capace di ascolto e di considerazione, piena di amicizia e affetto, di legami profondi e di predilezioni. Una innata gentilezza vigile e seria, garbata e concentrata. Non solo non provavo alcun disagio di fronte a tanta diffidenza, ma mi rassicurava la simpatia delicata, timida e sorridente della persona, la sua schiettezza nell’aver inventato, come spesso nella sua vita, una scusa infantile ed evidente, l’accoglienza cameratesca senza preamboli, fuori da ogni convenzione. Non era il poeta, enfant prodige che si compiaceva della sua originalità ed eccentricità come qualcuno voleva far credere, ma era, miracolosamente come accade di rado in letteratura, l’adolescente appena diventato adulto dei suoi libri.
“ Ritengo che solo tra i poeti adolescenti ci possa essere un grande poeta” ha scritto in “Poesia e destino”, ed ancora: “non c’è posto per chi è falso e cortese, non c’è posto per il rancore trattenuto o per l’ironia”. Milo non era né cortese, né falso, ma sapeva essere premuroso e sfuggente, sensibilissimo e irremovibile. Come quel Luca de La corsa dei mantelli che non può fidarsi di chiunque, ed è sospettoso ma ospitale.
C’era, al fondo del nostro colloquio, la presenza per me di tutti i suoi saggi più che delle sue poesie, dove mi ero rispecchiata leggendo i passi sull’adolescenza e i patti di fratellanza e fedeltà, sul luogo di lealtà che esclude ogni sotterfugio, sulla corsa e sulle sfide crudeli tra consanguinei, sulla selvatichezza artemidea lontana da ogni intenerimento, sulla grandezza del mito atletico e di Sparta, sulle potenze arcaiche, sull’eroismo frontale di Atalanta, Ippolita e Pentesilea, sulla solitudine di ogni azione eroica. La prima domanda che gli rivolsi riguardava l’accusa di orfismo, quella stessa che continua ancora oggi a rimbalzare polemicamente identica in tutti i blog di Internet, “Dunque dicevo che l’accusa più frequente alla poesia cosiddetta neoorfica ecc. ecc. cosiddetta da chi? Da chi formula l’accusa? Si evidentemente. Ma chi la formula deve chiarire che cosa significa neoorfica. Cosa che non mi è in nessun senso comprensibile. Se storicamente le parole hanno un senso, l’orfismo è legato al mito dei titani, è legato a una ripresa gnostica, è legato a certe dimensioni purificatorie …”. Poi la risposta scorre densa e precisa per ben tredici pagine quasi con le medesime espressioni di tante altre risposte che ritroviamo in questa raccolta, come anche le risposte seguenti sul gesto atletico, l’agonismo, l’idea di tragedia e di destino: “Chiunque abbia soltanto di passaggio praticato arti marziali ed in particolare Ha-ki-do o anche Jujitsu a volte, si rende conto di quanto di banale ci sia nell’archetipo sportivo ed atletico che contraddistingue il gesto occidentale, ossia quello del sopra e del sotto, del vincitore e del vinto, quello del sergente e della recluta, insomma …”.
Dopo quasi sette o otto ore di colloquio magico e serrato, senza la minima interruzione, come incalzati da chissà quale urgenza o necessità, Milo iniziò a leggere alcune poesie. Per prima scelse Verso la mente dedicata a Nadia Campana, poi E’ possibile portare soccorso agli assediati, Nominativo, Il saluto che mi restò i comune, Suonerà una scelta orchestra, T.S., Queste pietre, Ora si compiono gli anni e Leggenda del Lago di Garda. Rimaneva solo il tempo di raggiungere a malapena l’aereo. Ma la diffidenza di Milo non era ancora stata superata. A breve arrivò una lettera che perentoriamente mi chiedeva di non mandare in onda la registrazione. Lo avevo promesso e come dice Milo la parola non è ritrattabile. L’adempimento della promessa no, non era ritrattabile, ma io ritrattai ugualmente facendogli ascoltare nel settembre a Fano durante un Convegno, il lavoro finito e limato. L’intesa immediata e le passioni comuni passate attraverso la prova del saper attendere e rimanere fedele ai patti, trasformarono la diffidenza in fiducia e la voce magmatica, grave e a sussurri di Milo di allora andò in onda.
Quando nel ’91 chiesi a tutti gli autori di rivedere le sbobinature delle interviste, del testo originale ritoccato da Milo non rimaneva quasi nulla, anche se c’era, ritagliato, cancellato con il bianchetto, incollato, ridiviso in capitoli, posposto e chiosato a piè pagina in un numero altissimo di note, l’intero discorso, le stesse espressioni: “Quando qualcuno – di rado- mi chiedeva in quali forme e attraverso quali persone ho cominciato a riflettere sulla mia poesia, citavo ogni volta l’incontro con Angelo Lumelli e con Michelangelo Coviello, Franco Fortini, Giuseppe Conte, l’esperienza di “Niebo” ecc. Oggi invece penso a un periodo anteriore, quello scolastico …” Questa versione che poi pubblicai è la stessa risposta che ritroviamo in alcune di queste interviste ma anche nell’ Autodizionario degli scrittori italiani di Felice Piemontese del 1989.
Sì è vero, come afferma Milo nell’intervista a cura di Mariasilvia Trovarelli: “Abbiamo poche parole dentro di noi, sempre quelle, da sempre”. Sì è vero: “c’è questo ripetersi nei miei versi, questo instancabile ritorno”, “pochi i luoghi che abbiamo amato, poche persone improsciugabili (Intervista a cura di Domenico Settevendemmie). “Nulla è cambiato dai tempi di Somiglianze” (Intervista a Massimo Gezzi).
Anche il colloquio qui ripubblicato, apparso sulla rivista di estetica “Agalma” nel 2002, ha una data dattiloscritta di Milo: “ Martedì 12 marzo, via Varesina, ore tre e venti del mattino … prima di andare a scuola…”. Non è l’ora reale del nostro colloquio avvenuto nei giorni seguenti, ma la prima stesura di “Alcuni spunti per l’intervista con Isabella” che avremmo dovuto preparare di lì a pochi giorni. Sicuramente anche qualche altro passo delle interviste raccolte nel volume avrà subito i ritocchi di quel “demone variantistico” di cui l’autore ci parla in queste conversazioni.
Milo avrebbe voluto di certo ridurle all’osso, senza più carne, per quella ritrosia caratteriale ad ogni concessione privata, ad ogni minimo accenno di intimità e ad ogni pronuncia in odore di improvvisazione e casualità. Avrebbe voluto affinare ogni risposta, ma addirittura ogni domanda al suo “udito millimetrico”, finché non rimanesse altro che un’incisione appuntita in bianco e nero della verità della poesia.
Difficile e forse anche inutile, sarebbe una ricostruzione filologica di queste ventidue interviste che abbracciano un ventennio di vita e lavoro dal 1990 all’estate del 2007, soprattutto perché ci parlano anche degli anni precedenti con le stesse parole, gli stessi ricordi, gli stessi nomi, pensieri ed immagini con cui Milo ha sempre risposto ai suoi interlocutori fin dalle interviste degli anni Settanta e Ottanta a Luigi Grazioli o a Giuliano Donati.
E’ inutile aspettarsi da De Angelis le confessioni di un uomo, il velo sollevato su squarci d’intimità e di vita privata, anche se fa continuo riferimento ai suoi traumi, alle sue nevrosi, alle accelerazioni anfetaminiche che hanno contraddistinto un periodo della sua scrittura, ai suoi amori, alle amicizie. Le ventidue interviste del libro si fermano ad una soglia che ci permette di avvicinarci all’uomo Milo De Angelis un attimo prima di essere respinti dalla ritrosia o, meglio, dall’estremo pudore della sua delicatezza. Si avverte anche quel luogo inaccessibile e corazzato che probabilmente nessuno conosce di Milo De Angelis. Lo stesso punto confinante di se stesso che attraversa tutta la sua poesia, quel confine prossimo ma mai valicabile, dove una vicinanza troppo prossima che si chiami amore o amicizia o qualsiasi altro legame privato, viene avvertita come un rischio mortale, una minaccia, un urto, un pericolo. “ I corpi sono contundenti. Mai tregua, mai dolcezza” , “L’armonia è qualcosa che non conosco” ci dice De Angelis.
Il suo è un intero cammino di solitudine come un percorso al buio, a tentoni, confuso e minaccioso, allucinato e spasmodico, ma pieno di presagi e di notti stellate che sono l’incontro sorprendente con un luogo, una parola, una persona . Un percorso segnato da minacce e allarmi, richiami e sirene, in cui il poeta inciampa, balbetta, è al confine tra il grido strozzato e il silenzio, quando tutto diventa vorticoso e avvolto dal turbine come da un rischio mortale. Una solitudine senza rimedio, piena di voragini, risucchi e zone oscure, come lascia trapelare De Angelis in queste interviste.

Il puer aeternus e l’uomo. I DVD

6. Si capisce allora che tra il puer aeternus dei primi libri e l’apparente maggiore comunicabilità dei successivi, non c’è ciò che comunemente intendiamo con la parola cambiamento. Ma c’è nel mezzo il dramma dell’immutabilità, il sentirsi immobili e bloccati, la paura e la confusione, il sopravvento egoico e narcisistico di ciò che si è stati, il sentirsi pressato dalla necessità di un cambiamento e l’espiazione di un errore. Una maturità come seconda infanzia, fedele al passato e fedele a se stesso. Forse è per questo che tra le sue raccolte di poesia continuo ad amare di più Distante un padre, perché come fu subito notato, con questo libro Milo tocca il vertice del suo stile spingendolo tanto in alto da esporne i limiti prima del collasso. Perché è un libro legato mani e piedi alle sue ossessioni ed immagini, voli, azzardi, imprudenze, ferite e spaccature. E’ un libro dell’orgoglio, ma è anche il libro che prelude alla maturità come assunzione di responsabilità degli eventi. Segna davvero il passaggio dall’adolescenza con tutti i suoi peccati d’orgoglio, alla maturità, ed è l’epilogo della crudeltà dell’infanzia come nelle fiabe. E’ il libro che a ritroso ha posto il più difficile problema di algebra a cui fa tante volte riferimento Milo, “quella necessità di trovare una soluzione con la massima economia dei mezzi”.
E’ il libro con cui ho conosciuto Milo una seconda volta nonostante venti anni di amicizia complice, ininterrotta, solidale e confidenziale, perché non riuscivo a coniugare il ragazzo del patto di lealtà e fedeltà all’adolescenza, con l’uomo che lo aveva infranto di fronte ad una comunità di amici o di discepoli. E’ il libro che con quella fedeltà a se stesso testimoniata dai dieci anni di silenzio, ha permesso il passaggio allo spessore di responsabilità matura di Biografia sommaria e di Tema dell’addio. Milo ha rimesso in ordine i suoi frammenti, i cortocircuiti e la velocità si sono coagulati in immagini solide, rendendo possibile ripercorrere all’indietro la parola iniziale.
Adesso che la Poesia ha assottigliato lo spazio che in quella congiunzione del titolo dei saggi la univa al Destino, adesso Milo può restituirci con queste ventidue interviste il senso di un destino.
Il principio e la fine si toccano e l’ultima risposta è lasciata al lettore: quale è la via in avanti e quale la via all’indietro?
Chi è il poeta che nella propria vita non ha mai potuto fare a meno neppure nell’amore coniugale della poesia? Solo per le velociste, le saltatrici, le ragazze spartane, le fanciulle guerriere come le Daine de La corsa dei mantelli non è necessaria la scrittura “per quella strana analogia tra i versi e il gesto atletico, accomunati da un’infinita preparazione, da un culto dell’economia e dell’essenziale, da un rigore millimetrico che poi esplode nell’assoluta libertà del testo o del gesto, nello splendore della poesia riuscita o del salto perfetto”.
E’ vero: “Milo è sempre presente in Milo De Angelis, è l’anima vera del fratello maggiore ed entra ogni giorno nel nome pubblico di Milo De Angelis” come ci dice nel colloquio con Viviana Nicodemo.
Soltanto ciò che è ri-detto, ri-elaborato, ri-raccontato, secondo Hillman,diventa storia. Allora guardiamola e ascoltiamola, oltre a leggerla, questa storia.

(“Colloqui sulla poesia”, ed. La Vita Felice, 2009, prefazione di Isabella Vincentini. A cura di Roberto Russo)

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2 Comments

  • Si può entrare nell’opera di un poeta in tanti modi e devo dire che leggere queste interviste di Milo De Angelis è stato per me un modo veritiero e chiarificante..

  • “Collloqui sulla poesia”? Un libro che mi ha trasformata! Un libro indispensabile, lo dico con il cuore, per comprendere la poesia di Milo De Angelis e non solo la sua!

    Mary

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