Eugenio De Signoribus, Poesie. 1976-2007 – una nota di Silvia De March

 

di Silvia De March

Distante dall’esordio a proprie spese nel 1989, Eugenio De Signoribus ha trovato un posto tra gli Elefanti della Garzanti – suo malgrado, si direbbe: lo contraddistingue la scelta di un’esistenza appartata a Cupra Marittima, sulla costa adriatica marchigiana, dov’è nato nel 1947. Tuttavia si è impegnato nella fondazione e redazione delle riviste «Marka», «Hortus», «Istmi» e «Quaderni della Luna». Oltre a svariate pubblicazioni e traduzioni su riviste e antologie italiane e straniere, numerosi si contano i riconoscimenti: questa stessa complessiva opera ha vinto nel 2008 sia la sezione speciale “Lettere ad Arti” del Premio Volponi, che il Premio Viareggio-Rèpaci.

Il tomo riunisce cinque pubblicazioni e un ristretto gruppo di inediti, la bibliografia essenziale e una ricca e preziosa antologia critica. Dalla varietà di quest’ultima (che tra le altre raccoglie le firme di Giudici e Bandini, Zucco e Zublena, Cortellessa e Zinato) si misura l’accogliente e piuttosto precoce acclamazione dell’erede della linea “civile” della poesia italiana, tracciata da predecessori come Rebora, Fortini, Caproni e Volponi.

Ripercorrendo trent’anni di esercizio poetico è possibile individuare le linee di continuità e di evoluzione che legano le singole raccolte. Il percorso estende il raggio dello sguardo autoriale dall’intimità individuale e domestica allo scenario sociale, con analoghi strumenti di analisi e critica demistificanti. In principio il soggetto esplora il malessere annidato nell’animo e in case perdute (titolo della prima raccolta), alle prese con dinamiche relazionali (tra cui la paternità) come pure con le cronache e le ideologie degli anni Settanta. Via via la voce lirica tende a dissolversi in un coro plurale oppure a prestarsi ad interessanti drammatizzazioni di terzi attori. I dati storici ed autobiografici emergono solo in filigrana: la civile fortezza occidentale è infatti vista reggersi su presupposti bellicistici atemporali, attivi anche in cosiddetti tempi di pace. I connotati del mondo capitalistico sono disseminati nel più vasto quadro poietico, iscritto in una cornice violenta e assurda: cupi gladiatori, fingitori, portatori d’orpelli, pregatori-predatori, caratteri deformi personificano le idiosincrasie contemporanee, pubbliche e private, sotto i riflettori della comicità o della pietas e corrodono progressivamente l’innata vena ironica nel poeta. Si affacciano anche cadaveri, soldati, vittime veicolati dai mass media senza soluzione di continuità storica, tranne per il fenomeno migratorio. Tra realtà e fiction il confine è presto reso labile e si rileva ante litteram la compensazione affettiva, familiarizzante dello schermo televisivo; nello stesso si stampano comuni fosse, calce fumante, mine e micce, trappole mortali che riconfigurano una nuova geografia del quotidiano alla cui indifferente assuefazione la scrittura poetica oppone una forza inerme nell’atto stesso di fissarne il contesto. Centrale in quest’ottica sono Istmi e chiuse (titolo della raccolta intermedia del 1996), emblemi del pensiero critico contro cui si frange l’impeto dell’acqua (altro leitmotiv che investe di simbolismo una costante autobiografica).

Come le coordinate temporali, anche la dimensione fisica, più definita in principio, si smaterializza. I luoghi si astraggono ad un’estensione mentale (come l’agone, uno dei motivi intratestuali che ora si può rilevare a più alta occorrenza) e le figure che la attraversano tramutano in illuminazioni riflessive. La narratività, secondo Spagnoletti, è «strozzata nel nascere»: «elementi figurativi differenti, descrivono una situazione, non uno sviluppo», in cui si giustappongono «tanti frammenti visivi, dettagli di scena» con una disposizione incline all’onirico. Ad un accostamento non gerarchizzato concorrono i puntini di sospensione che sfumano il disegno perché immagini e scene si caricano di valore simbolico.

Ne deriva una scrittura dominata sul piano semantico, linguistico e rappresentativo, dalle figure del paradosso, dell’ossimoro, di alternative nettamente antitetiche: la compresenza estremizzata di opposti si dà come condizioni habitativa del postmoderno ma ciò che pesa lo scarto tra il carisma di De Signoribus e ad altre personalità è una presa di posizione che già la rappresentazione grottesca, spesso espressionistica, demarca, e l’affermazione di pochi, fondamentali sentimenti primari, più che di razionali convinzioni. La ricerca poetica si è mossa dall’allusione ad una significazione non immediatamente padroneggiata, superiore rispetto alle occasioni compositive; nel tempo, ha focalizzato una forza oppositiva nella solidarietà civica, fondata soprattutto sulla compassione e sull’affratellamento di fronte al nulla, in accordo con la memoria leopardiana. Parimenti, un sentimento deistico, allusivo alla pienezza di un Essere e di un esserci, ha colmato la prospettiva laica di partenza.

Altra cifra stilistica costante è quella «lingua strana o straniera», come è stata definita, che assume un valore esorbitante da sperimentalismi postavanguardistici: l’intreccio di lemmi colloquiali e aulici, di neologismi di ascendenza dantesca e di inedite giunture di termini usuali preme non ad un mero effetto straniante ma, più veementemente, verso la demistificazione di formule trite e la ridefinizione dei significati. A ciò contribuisce il ricorso a figure etimologiche o poliptoti che determinano slittamenti di un senso spesso parodistico e parodizzato.

Come rileva Cortellessa, ne deriva che «soluzioni stilistiche patentemente “artificiali” veicolino l’unica forma di poesia civile oggi concepibile». La giuria del Premio Viareggio ha riconosciuto che «il lucido e risentito dettato smaschera e denuncia, attraverso ultimative figurazioni, i lineamenti cupi di quella che viene detta la sghemba orrenda faccia del mondo». L’astrazione, però, oltrepassa frequentemente la soglia dell’ermetismo, specie nella raccolta Principio del giorno. Di conseguenza, non sempre il significato si schiude agilmente, anzi, l’accesso è spesso ostacolato e il destinatario di un messaggi impegnato è un «popolo a venire» troppo lontano dalla comunità concreta. A nostro avviso, risultati eloquenti erano stati conseguiti già nella fase d’esordio, più aderente a referenti individuabili; a seguire si ritrova un’autorialità di forte impatto in pointes epigrammatiche e in accostamenti fulminanti, la cui concentrazione non sminuisce la carica divergente, bensì, coadiuvata anche da un uso timbrico melodico, è capace di rivolgerla incisivamente ad una coscienza collettiva meno elitaria.

Una riflessione di riguardo merita l’aspetto metrico: forme tradizionali in sezioni circoscritte (tra cui ariette metastasiane, distici, brevi poemetti; settenari, ottonari e versi composti) si alternano ad altre metricamente irregolari ma ordinate da cadenze fonetiche (sistemi rimici variabili ma marcati anche da rime al mezzo, allitterazioni e paranomasie) e toniche. Sono queste, inoltre, che in luogo di pause ferme sostituiscono la punteggiatura, latitante sin dagli esordi e pressoché limitata all’uso insistito della sospensione reticente. Infine, la dominanza di un endecasillabo ipermetro sembra privilegiare l’adesione ad un’unità ritmica naturale e perciò approssimativa, rispetto alla quale concetti desunti dalla metrica costituita non risultano più pertinenti. In termini lirici: di scarto in scarto il male si dilata / e il tempo musicale gli s’inciampa.

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