Giovanna Frene: ‘Datità’

 

Non è certo possibile in brevissimo spazio dar conto di una presenza poetica estremamente intensa che affiora da strati psichici situati ben prima di qualunque consapevolezza o (peggio) sapienza letteraria. Ma queste pure esistono nell’esperienza di Giovanna Frene, sempre più facendo convergere nel tempo i loro molteplici aspetti. Se ne ha un senso di una realtà propria che si stringe a sostrati in cui “qualcosa non c’è ancora” e si rifiuta all’essere poetico nel significato corrente, perché è mosso da una torsione che “stacca” nel momento stesso in cui risulta “attingere” e “concernere”. E non si potrà ignorare, allora, l’irrinunciabile pratica dell’Autrice anche nel campo dell’acquaforte-incisione, di tagliente nettezza (quasi una “sponda opposta”). Si capiranno così gli espliciti riferimenti ai temi di una spartizione feticistica, per cui un corpo presunto “santo” in qualche modo viene diviso-comunicato, e così una psiche nel suo quasi inconcepibile spostarsi-sformarsi nel tempo, misura di un resistere. Nel presente caso s’infiltrerà inoltre l’obliqua suggestione di temi riferiti al vicinissimo conterraneo Canova, il cui Tempio “inganna” tutto l’insieme di paesaggi nei quali sempre più è cresciuta la dissonanza: non solo in quelli propri della terra, ma ormai anche negli animi che se ne sono nutriti, e non riescono a disincarnarsi come da un’infanzia dolcissima e ricchissima, che diventa piaga e crosta di piaga.

Restano alcune figure fondamentali dell’itinerario personale dell’Autrice, ma non possono davvero né prevalere né consistere; e Canova torna come splendore fisico unificante, che tuttavia nella realtà tombale è spartito: mano, cuore e resto in tre diversi luoghi. E le ferite psichiche sono tutte dati metatemporali che s’appellano alla poesia o premono per consegnarsi a un suo ultimo mitificare-mistificare. Il discorso dà origine a un affannoso affastellarsi e a un incalzare, che delineano i più rari e diversi campi sintattici e semantici.

Si potranno   trovare   in  queste  poesie  echi  di  autori  di  sempre  e  di contemporanei, per non dire di coetanei, ma è tipico di Giovanna Frene spostare le pedine o meglio le statuine dei suoi interiori Penati, dei suoi Manes di fitto primordio come di passioni mai pienamente attualizzate; appare un teatro immobile che però ha personaggi tutti in atto di scattare. Non si registrano peraltro comunanze con esperienze in apparenza simili, ma che hanno sempre bisogno dei fatti del giorno e dell’informazione su cui pattinare senza spendere soverchie energie. La storia – anche di ritmi, di moduli metrici – esiste in questa poesia ma non è storia, è ressa. Ogni dato ha l’autorità di una specie di kairòs tanto più evanescente quanto più crudo. Ma se tutto trafigge sia entrando che uscendo, tutto si compatta in una crescita sicura (pur sempre in un’area di indecidibili). Queste poesie, perché tale è il termine che bisogna impiegare senza paura, chiamano a un confronto il lettore, chiamano l’avanzare di un proprio tipo di lettore. Del resto, il lavoro di Giovanna Frene ha già avuto numerosi riscontri in riviste di buon livello e in seguito a precedenti pubblicazioni. Fatti secondari.

(da: Andrea Zanzotto, postfazione a Datità, Manni, Lecce 2001)

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[…] Il suo libro […] ha il merito di un carattere forte, di una lingua densa, materica e a volte violenta, nella quale si traducono stati psichici di grande tensione. Una lingua capace di esprimere un pensiero che si muove con inquietudine nella mente dell’autrice, e che si risolve in grumi o intrichi linguistici di singolare forza e varietà di soluzioni metriche. […] Il tema rilevante del libro è nell’ininterrotta riflessione sul tempo, sulla caducità dell’esistenza: ma tutto avviene con originalità, in una continua torsione di immagini e accensioni dell’idea.

(da: Maurizio Cucchi, recensione a Datità, in “La Stampa” web, 13 dicembre 2002)

Redazione
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