Poesia 2.0

Quantomeno somigli il crollo
perché sia familiare la rovina.
— Giulio Marzaioli

Zibaldello n.26: Ultimo scatto/ultimo strappo

 

[Pubblico di seguito il "call for papers" ed il mio intervento apparso nell'Annuario 011 a cura di Casa Lettrice Malicuvata, di cui è possibile leggere la prefazione qui. Buona lettura.]

L’evoluzione di una società si misura nell’ascolto dei suoi poeti.
(Iosif Brodskij)

Se è vero ciò che dice Brodskij, il microcosmo italiano e il microcosmo bolognese presentano una realtà desolante: sempre minore appare la presenza della poesia nella società, sempre meno rilevante la capacità di dire e ascoltare un linguaggio diverso, originale, spiazzante.
Si moltiplicano le letture e i festival – a volte con ottimi risultati – ma la poesia scompare dalle librerie, dalle strade, dalla vita delle persone.
Se tuttavia vi sono dei residui, e dei residui importanti, tentiamo di proporre un ultimo scarto, e affidarlo alle parole di poeti che possano dire – insegnare e imparare, parlare e ascoltare, comunicare e sperimentare.
Per mantenere viva la catena della parola, e perché l’ultimo scarto diventi un ultimo scatto.
E in avanti.

Preferisco il ridicolo di scrivere poesie al ridicolo di non scriverne.
(Wyslawa Szymborska)

“Sempre minore appare la presenza della poesia nella società”.
Sì. E “rosso di sera bel tempo si spera”. Ma anche “gallina vecchia fa buon brodo” e “al contadino non far sapere quant’è buono il cacio con le pere”.
Ma di cosa stiamo parlando, esattamente? “Sempre minore presenza” rispetto a cosa? Rispetto a quale periodo storico?
Noi, civiltà del XXI secolo, paragoniamo la nostra poesia ed i nostri poeti con la poesia ed i poeti di quale altro momento storico?
Dovremmo cercare di inquadrare meglio la questione ed abbassare il tiro. Uscire fuori dal club del piagnisteo.

Ogni volta che sento/leggo di quanto la poesia venga messa al margine oggidì, mi ricordo sempre (oltre che di alcuni scritti leopardiani, che però non si lamentava affatto) di quanto tutti si augurino una miglior qualità dei programmi televisi, tranne, poi, andare a formare il 50% di share dell’ennesima stagione del GF.

Detto ciò, la mia deduzione è che il problema è mal posto: si confondono le cause con le conseguenze: la poesia al margine della vita (o i programmi TV beceri) non sono il problema, ma una delle infinite manifestazioni di un sintomo.
Se ciò è vero, la diagnosi è il segreto.

Dai tempi di Platone, un milione di volte sono stati cacciati i poeti con le loro “favole” dalle porte delle città. E un milione di volte sono rientrati dalle finestre, trasformati. Come trasformata era la loro poesia.
E allora, di nuovo: di cosa stiamo parlando? Cosa intendiamo per “poesia” quando gridiamo infoiati contro la sua marginalizzazione? Contro la marginalizzazione di cosa, esattamente, ci impegnamo nel difendere il mondo, la società?
Bisognerà chiarirsi prima o poi su questo per cominciare a parlare davvero.

Se nasciamo da una escrescenza del tempo, ognuno di noi sa cos’è il vuoto, la schiavitù del desiderio.
Il soggetto dell’enunciato non coincide mai con quello dell’enunciazione. E se la parola è prima di tutto un atto, è il caso di dirlo: tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare.

La condanna dell’uomo è quella di sfuggire continuamente a se stesso, e questo è un peccato. Smettere di rincorrersi per nascondersi dietro il dito della menzogna assurta a valore socialmente condiviso è, invece, una colpa. E la colpa, come ci insegna la Arendt, a differenza della responsabilità che è di tutti (dunque di nessuno), è di ciascuno – è una questione privata, assolutamente intima.
Perció, per quanto mi riguarda, l’evoluzione di una società si misura con la capacità che hanno i suoi membri di immaginare la successiva, piuttosto che “nell’ascolto dei suoi poeti”.

Con questo non voglio evidenziare l’ingenuità delle affermazioni di Brodskij; piuttosto è mia intenzione sottolineare il rischio di ingenue interpretazioni che trasformerebbero il motto brodskijano in un vuoto slogan per una supposta specie protetta.
Ascolto, nella Russia degli anni ’60, non era certo sinonimo di share. Eppure ho come l’impressione che sia proprio a quest’ultima accezione che si fa riferimento la maggior parte delle volte che ci si lamenta di quanto poco vengano ascoltati i poeti oggi.

Immaginare un mondo possibile non è certo appannaggio dei soli poeti. Ma se c’è una cosa per cui è riservata loro una certa “esclusiva libertà d’uso” è la materia di cui è fatta l’immaginazione: la parola.

Il potere della parola è infinitamente più grande della realtà che nomina. Però, in un mondo in cui ormai si parla per legittima difesa, per non soccombere al fatto stesso di esistere; in questo mondo farcito di spiegazioni di plastica trepperuno galleggianti nel bacino putrescente della moda; in cui la ragione e la scienza pretendono analizzare e spiegare ogni cosa nonostante Heisenberg; la parola, assorbita dalla finitudine dei discorsi posticci con cui ci riempiamo la bocca, non può più conservare quell’ambiguità che le è indispensabile per rinnovare la sua ingenuità. È così che, senza soluzione di continuità, l’immaginazione si riversa nella finzione e la vita si trasforma nel simulacro di se stessa.

Affinché la struttura linguistica non diventi parte integrante della dieta igienica assimilata dallo status quo della comunità alla quale si rivolge parlando il suo stesso linguaggio, c’è bisogno di liberare il dire da tutte quelle associazioni convenzionali che lo cristallizzano a spese dell’invenzione collettiva.
È necessario sostituire la finzione con l’immaginazione attraverso quell’atto intemporale che è la parola, anteponendo l’espressione alla funzione nel linguaggio. Ciò significa creare una idiosincresia tra significati e significanti prestabiliti che abbia come risultato trasformare il dire in un invito dell’altro a costruire; significa fondare, con dei nuovi modi di dire, dei nuovi modi dell’agire.
Il vero atto comunicativo è, infatti, quello capace di subordinare l’urgenza del singolo a quella della comunità in cerca di se stessa, attraverso l’uso della prassi simbolica del linguaggio che non conosce menzogna, ma solo invenzione.

Parafrasando il Sartre di Cos’è la letteratura, quando la parola smette di essere «appello al lettore perché conferisca un’esistenza obiettiva alla rivelazione» iniziata «per mezzo del linguaggio», allora essa diviene mortale e il suono che produce è il rumore dei cocci di un’altra opportunità andata in frantumi.
Si riferiva, forse, a tutto questo Brodskij, quando parlava di ascolto dei poeti?

L’uomo vede ciò che non ha e per questo soffre. Il poeta vede ciò che non c’è e per questo soffre. Questa, a mio avviso, la differenza tra un uomo ed un poeta; questo il motivo per cui, forse, il mondo continua ad aver bisogno di poesia.

L’uomo è in impasse, la natura lo sa: conoscere non lo rende più felice né più libero, ma schiavo di ciò che scopre di non poter cambiare. Il coraggio leopardiano delle domande senza risposta non ci appartiene più, ma morire è un tabù che non ci possiamo più permettere.
La realtà sopraffattoria di marcusiana memoria ha invaso tutti i campi dello scibile umano; il positivismo scientifico è ormai fine a se stesso, noi le sue bestie sperimentali.
Si è infiltrato ovunque, tranne nella poesia, che resta ancora il luogo in cui il linguaggio gioca liberamente con il possibile; la voce ancora capace di invocare la luna nonostante Neil Armstrong; il piede di porco con cui sabotare l’utile e rinnegare il bello come menzogne dalle quali liberarsi per aprirsi alla densità del reale che ci incarna al di là di ogni ragionevole motivo.

Credo sia proprio questo ciò che la società deve imparare ad ascoltare dai poeti. E che è di questo che oggi si ha bisogno più di ieri, più per la salvaguardia della società che per il pregio dei poeti.
I poeti, dal canto loro, dovrebbero piantarla di cercare le platee silenziose e multitudinarie con l’applauso pronto e i soldi in tasca per la terza raccolta in sei mesi. Socrate rivoluzionò la filosofia portandola nelle strade e tra i non filosofi, facendone una questione più di metodo che di contenuti. Ecco, i poeti potrebbero fare la stessa cosa – anche se non rivoluzionerebbero nulla in poesia: semplicemente si metterebbero loro al passo con i tempi.

Non c’è un unico metodo per ricordare all’uomo il potere che ha il linguaggio di modificare la realtà che nomina. Le fazioni settarie, le rigide categorizzazioni, le ansie classificatorie in poesia sono inutili e controproducenti. Basterebbe che tutti i poeti seguissero la regola che seguì Eisenstein quando scrisse la sua autobiografia: scrivere solo ciò che abbisogna d’esser detto. Oppure quella dell’inevitabilità dell’opera che suggerisce Bloom. In tutti gli altri casi, parafrasando la Szymborska, bisognerebbe preferire il ridicolo di leggere poesie al ridicolo di scriverne.

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