Poesia 2.0

A me [la poesia] serve per essere immortale. Non nel senso dei posteri, per carità. Ma a essere immortale lì per lì, mentre scrivo. Mi salva dal tempo, mi restituisce l’interezza, scorre la mia ansia. E poi, questo infine l’ho capito, è l’unica cosa che riesco a fare senza sofferenza. — Patrizia Cavalli

Rosa Elisa Giangoia intervista Massimo Sannelli

 

La caratteristica della tua poesia è la riscrittura. Che significato ha per te questo atteggiamento nei confronti della tua produzione?

Pollicino vuole e non vuole tornare alla casa di prima. La traccia che ho lasciato non mi piace: io la cambio; il luogo da cui mi sono mosso non è più mio: non lo voglio. Allora riscrivo: cambio la traccia e il percorso, e nello stesso tempo spero di togliere la mia vita – e le sue opere – dalle mani di Fals’Amore [che non è un’astrazione: Fals’Amore è quasi un nome collettivo]. Le cose ci sono e i fatti sono accaduti: il bacio c’è stato, la fame è stata provata, l’osso è veramente rotto, Genova la barbara è sempre la vera Genova barbara. Quindi: non ho timore della mia vita e delle sue cose. Lo scritto è una partitura: suonare male, quando sei capace di farlo, non è un vezzo, ma una bestemmia. Quindi: partitura rifatta, vita presente [dopo la colpa del Fals’Amore, della dedizione sbagliata].

La tua poesia sembra oscillare tra la tradizione formale (sonetto e madrigale) e la modernità espressiva, per il prevalere dell’espressione analogico-espressionista su quella logico-consequenziale. Perché queste scelte, che potrebbero apparire contrastanti?

Ho sempre pensato – e ho scritto – in un solco magico: tutto è in tutto, e la scrittura non è libera di liberarsene. E come potrei liberarmi dal tutto, e del tutto? Io sono [e ho] una parte, nient’altro. I contrasti coesistono e la coesistenza azzererà il contrasto. In realtà la forma è una. Uno è il soggetto vivente che ha provato, ha tentato, ha perso [un po’ di vita, ma non la vita], ha vinto [che cosa ha vinto? Per ora, la consapevolezza della forma: sapendo o sentendo questo, «non mi importa, amici, di ciò che direte». La poesia di Antonio Porta, in Yellow, è dedicata a Sanguineti, che forse non ha mai parlato «da ingenuo»]

Tu hai composto anche testi teatrali in versi. Quale arricchimento ritieni che possa venire dato all’azione scenica dal testo poetico?

Tutto è in tutto, ma la poesia vorrebbe essere santamente isolata, senza musica, senza voce, senza luci, senza rito. La poesia vorrebbe – e deve – essere letta come il breviario quotidiano. La poesia, appunto. Ma quando pensi a TUTTO, la poesia abbreviata non ti basta più: vuoi l’esaltazione e rischi l’enfasi, perché no?; cerchi l’intenso e forse lo trovi. Io lo spero. E in questa ricerca ti sganci «dal palo della vita», come ha scritto Patrizia Bianchi: prima o poi, inizi a riconoscerti in una strana disperata felicità, che si getta su tutto, filologia cinema teatro prosa traduzioni viaggi insegnamento editing pianoforte.

Tu, oltre che scrittore, in prosa e in poesia, sei anche attore e musicista, per cui hai una sensibilità particolare per l’aspetto fonico del testo poetico. Queste tue competenze come entrano nel processo creativo dei tuoi testi?

Non entrano nel processo creativo. Quei talenti sono il processo.

Il tuo commento alla Comedia di Dante è molto interessante per la sua originalità. A quale linee interpretative ti sei ispirato?

La donna che si chiama Giovanna e Primavera verrà-prima, secondo la Vita nova: verrà prima, ma Beatrice è più grande; Cavalcanti viene prima, ma Dante è il sesto poeta dell’umanità; Giovanni viene prima di Cristo, ma lo stesso Giovanni deve dirlo: «Dopo di me verrà uno…». La prima linea è questa: l’eccellenza del successore. La seconda linea è questa: l’invenzione ossessiva del nuovo, incatenato alla nevrosi paraetimologica e rimata. Il nuovo è l’opera di Dante. Dante è il nuovo: in più, è l’ultimo.

Quale influsso hanno avuto sulla tua produzione critica e letteraria gli studi e gli insegnamenti di Edoardo Sanguineti, con cui ti sei laureato?

Sanguineti era un materialista storico. Io no. Per questo non posso dirmi comunista, se il comunista è un materialista storico: Sanguineti lo ripeteva severamente. Io non posso essere freddo; non posso amare l’egemonia da tavolino, cioè la pretesa di scrivere freddamente quello che serve e quello che si deve. Un mese prima di morire mi disse: «Ho visto che sul palco lei si diverte». Poi lo vidi uscire, di spalle, appoggiato alla stampella e accompagnato. E non l’ho più visto vivo. Alla fine, da Sagittario a Sagittario, chi scrisse «me la sono goduta la mia vita», «la mia casa è piena di libri e non è triste come quella di Mallarmé» mi riconobbe il divertimento. E io sono contento di divertirmi.

Nell’àmbito dell’attuale panorama poetico non solo italiano ti senti isolato o condividi la tua esperienza creativa con altri autori o gruppi?

La paloma dei Cantares populares di Lorca è la futura preda del cacciatore. Ma il cacciatore le dice: «O colomba, fuggi i campi, / sai che sono un cacciatore! / E se sparo e poi ti uccido / sarà mio il mio dolore, / sarà mio il mio tormento». La colomba deve fuggire, perché il cacciatore è onesto, una volta tanto. Io sono e sono stato sia la colomba fortunata sia il cacciatore.

La tua attività letteraria è stata finora molto ampia e variegata: poesia, prosa, traduzioni, critica, ecc. Come vedi il tuo futuro? Pensi che uno di questi àmbiti possa essere privilegiato sugli altri?

«Io non conosco il senso della mia responsabilità», come ha scritto Joë Bousquet. Se la mia volontà ha qualche valore, e se Io Voglio ha il diritto di dialogare con Tu Devi, direi: preferisco il tutto in tutto, non voglio più scindermi. Non sono il professionista di una professione. Non sono nemmeno uno specialista: anche perché i [miei] maestri – i disincarnati, gli spiriti magni, i libri, i liberi – non hanno mai smesso di ammaestrare, e i loro ambienti sono molti.

(per la Lettera in versi, 38, 2011 del sito www.bombacarta.com)

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