Poesia 2.0

settembre, ora lo guardo
da dietro i vetri,
nell’orto ti rivedo,
il tuo riso riascolto
tra i rovi folti.
— Umberto Piersanti

Massimo Sannelli: Tattoos

 

Le «cose che non sono» annulleranno quelle «che sono» (ICor., 1, 27-28). Questo tempo [anche per la poesia] non è gnostico, ma profetico e bellico; ed è profetico perché abbandona i Padri di prima («ora paghi con stigma / che non è un fiume dei fedeli d’amore / ma onda anomala»; e «orridi stilnovi») – così i poeti scrivono sia cronache sulle cose sia profezie e thrénoi sulle parole; scrivendo, riscoprono la forza dell’azione e della voce: anche come attori o performers o artisti.

Il nodo delle nuove decisioni è un punto capitale, dove una poesia è sempre stata la figlia. Oggi, se due voci diverse irridono i nostri Fedeli e i nostri Stilnovisti – e se Rosaria Lo Russo vomita lo stilnobbismo dei Padri – qualcosa cambia e cambierà: non l’amore, che rimane (e rimane il sesso, diffuso in tutte le pagine e le pieghe), ma un passato troppo lungo. Allora alcuni padri antichi e venerabili iniziano a morire, forse; forse, sotto i colpi di amazzoni e donne e uomini indonnàti e preti, senza contare gli uomini-bambini: per questi padri explicit la vita che fu nova: «e se deve essere vento / che vento sia», finalmente. Forse.

*

Io non so che cosa costituisca una linea veneta o del nord est. Non ha più importanza, soprattutto se sono in campo alcune grandezze oggettive. Ciò che è grande non ha, ma è, un luogo («forse è il solo modo che conosco di farti spazio / in tutto questo vuoto che ho dentro / per te ho preparato una casa»; e c’è un «modo di inscrivere la stanza guardando»). Il genius loci non ha più importanza; ma esiste certamente un genius loci antiecologico e antipolitico, e schifosamente ricco, come scrive Guglielmin da un margine poetico (e come disegna AlePOP dal margine a colori di Popy Dak).
Il genius non è più o meno volgare di altri spiriti italiani – dunque non è un punto di partenza locale. È ciò che qualsiasi dissidenza intelligente, sul piano nazionale, conosce ed evita.

*

L’identità della linea veneta [scrivo con le minuscole] è meno importante della necessità che ci spinge, ora. Quindi bisogna parlare di ciò che conta: come i poeti anticipano o piangono una lingua, che non descrive le cose inutili (i futuri rifiuti), ma è una cosa, debole e laterale come la poesia (una cosa che non-è). Dunque la «nudità» è «ritta di fronte al muso di arpia», come fu «erta» la fronte di Leopardi davanti al fato: «nudaecruda», nel suo «mistico tracciato», è anche la vita, cioè la creatura.
Oggi le lettere appaiono a molti (di noi) come tatuaggi malattie maledizioni macchie segni  imposti sopra un corpo – il più nudo dei corpi, «fitto di filamenti di acqua», o colpito e «tumefatto»; e la proliferazione della lingua/pelle è parallela ai tatuaggi, moltiplicati al massimo come righe o marchi sul nudo [significa forse: io porto… no, io sono la MIA parola, fino all’ultimo giorno. Agli Ebrei è vietato il tatuaggio, secondo Levitico 19, 28, ma la circoncisione obbligatoria è molto di più, ed è assolutamente irreversibile; l’ebreo non tatuato, ma non circonciso, «ha violato l’alleanza», secondo Genesi, 17, 14]: «la tua pelle è tutta zigrinata», «e contro ‘l zheèsto resta / vòdha chea riga de spartito // come un nome sparìo prima / ‘ncora de èsser ciamà indrìo»; «pelle variolata» (che è «semenza del contagio», e ora non si emette più una «sentenza a pieno», perché arriva presto la «fine della poesia»); «alla fine solo qualche macchia, il canto contorto di una / sirena», «i grìsoi / che suìto fiorìsse tea pèl», e anche la scossa passa «fra pèl e paròea»; e la merdra di Ubu è «apparsa sui polsi». Alla fine di ogni tentativo, il corpo è «senza icone in firmamento», esterne a sé: il corpo stesso è l’icona. «Parole a perdere», se c’è la morte – il contrario del corpo non è l’anima, ma la morte.

*

Esistono i «canti di pelle», di cui la poesia tiene conto. Il margine invoca seriamente il margine, l’esposto invoca l’esterno.
Queste sono le cose che non sono: e chi le scrive, o ne scrive, non ha solo le proprie mani da amministrare. Parlo, oggi, come può parlare uno che ha amato molto queste cose, e ora si imbestia in un teatro e in un cinema che non sembrano più la poesia. Oggi imparo che i segni devono essere anche tatuati; e tra i segni ho pubblicato anche il corpo che ne era (è) il supporto – ecco il cinema, la fotografia, il teatro. Nel frattempo è venuto Cristo – nel frattempo alcuni di noi lo hanno abbracciato, da peccatori – e la circoncisione indelebile riguarda definitivamente il cuore: «Giudeo non è chi appare tale all’esterno, e la circoncisione non è quella visibile nella carne» (Rom., 2, 28).

*

Questa antologia – che ho letto come se fosse la voce di una sola bocca [libertà – non essere più il critico, che finge di sapere] – è la profezia di atteggiamenti futuri, per chi sarà libero [altra libertà – vestirsi di segni permanenti e indelebili, anche quando la pelle sarà «zigrinata»; ma i segni saranno tenuti con leggerezza – se invecchieremo]. La voce delle parole si impoverisce e grida, come nei testi di Cogo; si contorce in altissima retorica che ride e piange e vomita, come in Guglielmin; evoca disastri e perfezioni o imperfezioni dell’umano, come in Crosara e Campoccia; mobilita le parole del corpo, come Lago; mobilita la parola dell’acqua scritta, come Fierro; abbassa i significati troppo grandi, come Tomada; santifica i corpi dell’abbraccio contro la morte, come Conte, che sa leggere i bambini e le bambine; parla ad una figura complessa e allegorica, come Turra Zan. E così si osserva la buona operazione di molti autori.

(Genova, 21-27 settembre 2008)

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  1. Contro questa «semenza del contagio» ho scritto molti «canti di pelle»; sono «parole del nostro sangue» – come scriveva Quasimodo.
    Quattro di questi canti li ho voluti riunire insieme, a mo’ di manifesto, in polemica contro ciò che mi pare essere l’emblema e il motore propulsore di questa «fine della poesia». L’occasione mi è data dagli Ossi di seppia di Montale, che poeticamente e filosoficamente percorrono una via apofatica.

    A questi orientamenti post-moderni, rispondo con “Chiederci la parola”, che amerei molto sottoporre all’attenzione di Sannelli:

    >http://issuu.com/www.riccardoraimondo.com/docs/chiederci_la_parola

    grazie, saluti

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